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 2015  febbraio 28 Sabato calendario

LA RIVOLUZIONE IMPOSSIBILE DEI TELEGIORNALI RAI

Nel corso delle letture dei quotidiani in onda su tutte le reti radio gli ascoltatori telefonano per esprimere la propria opinione sulle notizie che li hanno interessati. Ieri nessuno ha chiesto di commentare la rivoluzione dei telegiornali della Rai, un annuncio che un tempo avrebbe suscitato barricate. Segno palese che le notizie che ci interessano arrivano da altri canali; se a scuola dettassero il tema «Guardando un telegiornale» i ragazzi restituirebbero il foglio bianco. E’ un paradosso perché i notiziari della Rai non sono mai stati così liberi. E, di conseguenza, così ininfluenti. All’inizio, dal 3 gennaio 1954, c’era un solo canale e un solo Tg, diretto fino al 1956, anno della sua morte prematura, da Vittorio Veltroni.
Era la voce del governo, con le notizie lette da un unico speaker, Riccardo Paladini.
Era l’epoca, per dirla con Umberto Eco, «in cui i ministri tagliavano nastri e inauguravano cantieri con animo perturbato e commosso». Non si poteva dire «membro», anche se del Parlamento, il divorzio era «scioglimento del vincolo coniugale». Ugo Zatterin, il 20 settembre 1958, non potendo pronunciare la parola «prostituzione», disse «il problema sollevato dalla senatrice Merlin», firmataria della legge appena approvata, così nessuno, che già non lo sapesse da altre fonti, capiva di cosa stesse parlando. Luigi Tenco non si era ucciso ma «tolto la vita». Commentando i funerali del professor Valletta, il conduttore disse che l’ex presidente della Fiat aveva voluto morire nel mese di agosto per permettere ai suoi operai di rendergli omaggio senza perdere un giorno di paga.
Il 4 novembre del 1961, con la nascita della seconda rete, debutta il Tg2 affidato a Ugo Zatterin, usato all’inizio per decentrare le notizie scomode. Pochi giorni dopo, il 24 novembre, Enzo Biagi, direttore del Tg1 da meno di un anno, viene attaccato nel Consiglio dei ministri da Mario Scelba («la Rai si è votata al gioco dei comunisti») e si deve dimettere. A metà del decennio, regnante Gianni Granzotto, entrano nello studio i giornalisti, in quattro dietro ad altrettante scrivanie. Sono i «mezzibusti», secondo la feroce definizione di Sergio Saviane, inventore anche della «notizia impanata: la sbattono prima bene col martello di legno, poi la indorano col bianco d’uovo e il pan grattato». Lo sciopero è ancora «astensione dal lavoro», il fascismo «il vecchio regime», l’omosessualità «il turpe vizio». Il Tg2 esplode negli ascolti solo nel 1975 sotto la direzione di Andrea Barbato, grazie all’avvento come presidente della Rai del socialista Beniamino Finocchiaro. Barbato manda in onda i servizi da un caotico congresso del partito socialdemocratico con i delegati che accolgono Mario Tanassi al grido: «Lockeed! Lockeed!». Finocchiaro che disse «finché ci sarò io non ci saranno tagli di alcun tipo» aveva il difetto di essere stato messo lì da De Martino. Subentrato alla segreteria del partito Bettino Craxi, fu silurato il 20 gennaio 1977 e l’avventura di Barbato ebbe termine.
La riforma del 14 aprile 1975 rende palese quello che Bruno Vespa chiama «l’editore di riferimento»: Tg1 democristiano e cattolico, Tg2 socialista. Il Tg3 comunista debutta con la Terza Rete, il 15 dicembre 1979. Per il suo decollo bisognerà attendere l’arrivo nel 1987 di Sandro Curzi che regnerà sei anni fino all’ottobre 1993 realizzando quello che gli avversari avrebbero battezzato con invidiosa rabbia «Telekabul». Durano poco i veri professionisti arrivati alla guida di un telegiornale della Rai, per i politici la loro autonomia è una provocazione intollerabile.
In compenso nel corso dei decenni sono nate delle vere icone, anchorman e anchorwomen di indiscussa popolarità: Lilli Gruber, Enrico Mentana, Maurizio Mannoni, Carmen Lasorella, Bianca Berlinguer e tanti altri. Il Tg3, in base al contratto di servizio della Rai, deve allestire anche le edizioni regionali, venti in totale, con il raddoppio in francese per la Valle d’Aosta, in tedesco per Bolzano, in sloveno per Trieste. Gli abitanti della Valle d’Aosta sono poco più di 100 mila; una leggenda metropolitana sostiene che, quando sono a corto di notizie, attivano una «squadretta valanghe». I politici locali cercano di collocare nelle redazioni regionali un giornalista amico che garantisca visibilità alle loro iniziative; se la fortuna del politico tramonta, il loro uomo all’Avana rimane fino alla meritata pensione.
Gli operatori non devono riprendere le sedie vuote nella platea dei convegni e quanto ai relatori devono inquadrarli tutti insieme seduti al tavolo. Anni fa, incrociando davanti alla porta carraia della sede Rai di Torino una troupe di ripresa, domandavo al collega: «Cosa andate a fare?». Sovente la risposta consisteva in una sola parola: «Drogheria». Cioè, andiamo a fare un favore a qualcuno: una mostra, un convegno, una conferenza stampa, a filare una non notizia. Ignoro se le cose stiano ancora allo stesso punto. Spero di no ma se mi chiedono cosa penso della rivoluzione annunciata, la prima parola che mi viene in mente è ancora «drogheria».
Bruno Gambarotta, La Stampa 28/2/2015