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 2015  febbraio 28 Sabato calendario

“RICETTE ANNI 80”. “TU SEI ARIA FRITTA” L’ETERNO DUELLO DEI BLUES BROTHERS PD

Dopo qualche mese, Pierluigi Bersani si scocciò: «Non siamo qui a pettinare le bambole». Non si sta facendo la caricatura, lo disse proprio. Era il 30 agosto del 2010 e il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, da un po’ spiegava al mondo da che parte girare, e specialmente lo spiegava al Pd. «Mi pare che ci siamo avvitati su di noi». «Servirebbe più sprint e coraggio». «Bisognerebbe scrivere meno lettere ai giornali e parlare di più con gli italiani». E allora non siamo mica qui a pettinare le bambole, «le critiche sì ma deve venire fuori la lealtà alla ditta». Da quanto ci risulta, era la prima volta che Bersani si rivolgeva direttamente a Renzi. Forse aveva intuito il prologo dell’assalto al palazzo. «C’è stata qualche parola di troppo, ci vorrebbe più rispetto». E come no: «Spero che Bersani non chiacchieri di aria fritta», disse Renzi annunciando l’arrivo in una direzione del Pd. Che poi era soltanto la fase di riscaldamento. «Rinuncio a capire Bersani», «Bersani è troppo prudente», «basta perdere tempo dialogando con Fini». E Bersani era anche un po’ impreparato, può essere gli mancasse il fisico per un match di politic-boxing. Si difendeva con colpi bersanosi, «ma Matteo, le tue ricette sono Anni Ottanta». O peggio, citando Enrico Berlinguer («Non c’è rinnovamento senza cambiamento, ma il rinnovamento non è una sostituzione»), che in dispute di quella natura è come una fionda in una sparatoria.
Era la fase di riscaldamento, si diceva: siccome toccava tornare al voto nel 2013, Renzi aveva chiesto nuove primarie. Non per la segreteria del Pd, ma di coalizione, per la scelta del candidato premier. È facile ricordarle: si erano concluse con la sfida televisiva nella quale Bersani aveva proposto la misteriosa (ancora oggi) parabola del tacchino sul tetto. Gli altri - Nichi Vendola, Laura Puppato e Bruno Tabacci - facevano da contorno. A contendersi il piatto erano i nostri due, e lì fu chiaro che Renzi non aveva intenzione di accoppare l’avversario. Ci si domandava se dubitasse della sua forza o dell’utilità di esercitarla. Menava ma subito dopo faceva sfoggio di fair play - Bersani ha un’ottima squadra, Bersani è uno per bene, se perdo sarò al servizio. I due si scambiavano sms, auguri di buon compleanno, e anche accuse buonissime per il reality a cui ci siamo consegnati: Bersani non accettava consigli a chi faceva base nelle Cayman, Renzi gli rispondeva di pensare a Montepaschi e Telecom, e poi misuravano chi avesse in squadra più giovani, più donne, chi avesse a disposizioni meno denari e meno ospitate in tv (fantastica Alessandra Moretti superbersaniana che dava a Renzi della lagna, del maschilista e del vuoto a perdere).
Ma alla fine Bersani vinse 60 a 40 e Renzi pronunciò un discorso in sua sconfitta ricordato come dei migliori. Si inchinò e ricevette inchini. «Pierluigi sarà il nuovo premier». «Io faccio un giro, poi tocca a lui che è giovane». «Darò una mano in campagna elettorale». «Matteo avrà un ruolo». Su twitter giravano fotomontaggi della coppia vestita alla Blues Brothers. E quanto era sereno Bersani? Purtroppo per lui arrivarono le elezioni politiche, e Renzi stava prendendo la rincorsa da sei mesi: «Il problemino è che Bersani non ha vinto». Ancora: «Abbiamo buttato fuori un calcio di rigore». Infido: «Spero che ce la faccia a formare il governo, sennò elezioni». Bersani si fece da parte, più autorottamato che rottamato. Le attenzioni di Renzi si spostarono feroci su Enrico Letta e di nuovo sul Pd; il vecchio leader piacentino sarebbe riemerso dal fallimento e dalla successiva malattia a prendersi il ruolo di grande nemico interno. In fondo un nemico tosto ma di raro garbo, e soprattutto un comunista che, a differenza dei D’Alema e dei Veltroni, nessun militante vorrebbe vedere a terra.
Mattia Feltri, La Stampa 28/2/2015