Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 28/2/2015, 28 febbraio 2015
LA RIVINCITA DI “URBANETTO” IL TORO È DI NUOVO IL TORO
Al campo d’allenamento: “Botte e sangue/ è il saluto degli ultrà”. In faccia alla Basilica di Superga, con i celerini a proteggerne l’incolumità: “Pezzo di merda/ Urbano pezzo di merda”. In tribuna: “Cairo vattene”. In rima baciata, sui muri della città: “Cairo maiale schifoso/ ti auguriamo l’eterno riposo”. Così, da anni. I primi, accarezzati dal plauso. Poi, contestazioni cicliche, intervallate da radi momenti di tregua. Dopo due lustri di incompresa presidenza e non poche decine di milioni investiti nella causa, al gran capo del Torino arriva finalmente qualche meritato segnale di fumo. La tribù tifosa adesso sembra in pace con la memoria di un glorioso passato e giovedì notte, nell’antro buio dell’aeroporto, ha sentito il bisogno di restituire qualcosa. Applausi ai reduci di Bilbao capaci di superare il tabù dell’inviolabile stadio basco e strette di mano a chi, pagando di tasca propria, aveva permesso di passare dalla sconfitta di Frosinone, in Serie B, all’ottavo di finale in Europa League con lo Zenit di Villas Boas. Un vertiginoso cambio prospettico che nelle cronache del pallone autoctono dominato dal Parma senza più soldi per lavare le divise e dalle società usate come centrifughe per ripulire denaro non sempre specchiato, nettavano il quadro d’insieme ossigenando con la pulizia di una bella storia, un’aria oppressa dalla troppa spazzatura autoprodotta da dirigenti cresciuti alla scuola dei cattivi maestri.
Tra le cinque affermazioni delle squadre italiane in Europa, quella del Toro è la più sorprendente. Agli ottavi, con la pregiudiziale di evitare incontri ravvicinati tra Russia e Ucraina, si scontreranno Fiorentina e Roma, Wolfsburg e Inter, Dinamo Mosca e Napoli e come in un fumetto, il Torino contro l’incredibile Hulk.
Nessuno si aspettava che l’avventura continentale, partita dai preliminari quando l’estate era ancora acerba, maturasse fino a sbocciare. E nessuno poteva prevedere che dopo la cessione di Immobile e Cerci (entrambi volevano andar via, a ogni costo) e il complicato rimpiazzo di 35 gol (sono arrivate quattro punte che hanno segnato quasi lo stesso numero di reti), Cairo, Petrachi e Ventura riuscissero a costruire un progetto credibile dalla destrutturazione del precedente. A gennaio, sull’Olimpico, aleggiava il clima greve del fallimento. Spalti semideserti, malumori concentrici e un disamore crescente del pubblico (il peccato più grave per una realtà che senza passione, curva Maratona esclusa, si immalinconisce fino a disertare ) che faceva presagire il peggio. Invece, il più sottovalutato tra i tecnici italiani (Ventura) e uno spogliatoio dai valori altrove del tutto scomparsi, ha saputo edificare un prodigio dalle macerie ed edificare un sogno che non ha tremato nel trasformarsi in realtà.
In campionato il Toro non perde dal 30 novembre. All’epoca, a un soffio dalla fine del derby, fu un tiro di Pirlo a indirizzare il destino nel solito verso. Ventura e Cairo l’hanno ripreso per i capelli e dato senso alla rivoluzione estiva. È arrivato Maxi Lopez (descritto come un grassone all’ultimo contratto, irriso al pari di Cairo e oggi in odore di santità), sono partiti i fardelli che appesantivano l’atmosfera (l’inguardabile argentino Larrondo, l’inespresso conterraneo Sánchez Miño, la coppia Nocerino e Ruben Perèz, il portiere Gillet) e si è data la responsabilità di invertire la rotta ai dieci nazionali in rosa. Ai ragazzi rimasti. I totem della truppa (Gazzi, Glik, Darmian, Quagliarella, Moretti). Le certezze diventate preziose (Maksimovic). I recuperi in corsa (il portiere Padelli, accantonato e adesso nuovamente decisivo). Le sorprese di nuovo conio accolte tra il lazzi come il venezuelano Martinez, lo svedese Jansson, la freccia Bruno Peres (che fosse fortissimo, Cairo l’aveva detto in tempi non sospetti). Gente che insieme ai giovani mandati a farsi le ossa in Serie B (i fratelli Gomis, Parigini, Barreca e un altro promettente mazzo di ragazzi) saranno l’architrave del Torino di domani. Messa in piedi la riesumazione delle radici sacre (il Filadelfia potrebbe finalmente rinascere davvero) e rinnovato il contratto a Petrachi e alla straordinaria pietra filosofale di nome Ventura, toccherà a Cairo, uno dei migliori presidenti della Serie A in assoluto, conservare il patrimonio, il tanto oro che adesso riempie le casseforti societarie.
Non sarà facile. Un po’ perché il Torino non ha le possibilità finanziarie di chi lo appaia o addirittura lo segue in classifica (Inter, e il Milan che fattura quattro volte più del Toro), un po’ perché dissimili sono gli introiti televisivi, un po’ perché certi giocatori, inevitabilmente, accenderanno un’asta. Chi è andato via di propria sponte da Torino, nelle ultime stagioni, ha sempre sbagliato. Volevano giocare la Champions e (vedi Immobile e Cerci, altre intuizioni a basso costo del duplex Cairo-Ventura) la fuga si è tramutata in prigionia. Per liberare definitivamente i sogni, ci vorrà un po’ di fiducia. Cairo dovrebbe averla conquistata, ma se così non fosse, può sempre consolarsi con il ricordo di Pianelli, il presidente dell’ultimo scudetto. “Siamo stufi di essere presi in giro da uno che fa il presidente per sentirsi qualcuno o peggio per strani interessi personali”. La lamentela, datata 1981, era rivolta a lui. Uno che, capelli a parte, a Cairo somigliava. Non solo somaticamente.
Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 28/2/2015