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 2015  febbraio 28 Sabato calendario

FEDEZ: «ECCO COME I TATUAGGI RACCONTANO CHI SONO»

Quel tatuaggio che dal collo sale fin sotto il mento e le orecchie gli ha cambiato la fisionomia. Da lontano sembra un aristocratico cache-col di perle, oppure un collare masai. Da vicino un complicato labirinto di Escher, cuspide di chissà quali impossibili architetture che hanno radici nel petto o nell’addome. Piercing, anelli vistosi (uno con l’occhio massonico), Rolex “tamarrissimo” in oro giallo e il viso particolarissimo di Fedez — 25 anni, rapper eccellente, sei dischi d’oro e undici di platino in quattro anni di carriera, già giurato di X-Factor — fanno il resto. Sopracciglia curate, labbra carnose che rimandano a certe descrizioni del Siddharta di Hesse («Ella lo invitò a sé con gli occhi, chinò il proprio volto sul suo e gli posò sulla bocca la bocca, ch’era come un fico appena spezzato»), capelli sapientemente incerati all’insù. Si accarezza il disegno come se le dita avvertissero uno spessore che non c’è. «In effetti sale un po’ troppo verso il viso», sospira.
«L’autore è Marco Galdo, milanese molto ispirato dal tatuaggio tailandese, geometrie con figure impossibili. È originalissimo, un puntinista del tatuaggio, non ci sono linee nei suoi disegni, è questo che lo ha reso famoso nel mondo».
Dinamico, irrequieto, polemico (anche con il mondo dell’hip hop), self made rapper già impresario di un piccolo manipolo di artisti (tra cui il campione da talent Lorenzo Fragola), Fedez scalpita quando si sente bersaglio di luoghi comuni. Non solo quelli che vorrebbero i protagonisti della scena rap violenti, omofobi, intransigenti e illetterati, ma anche quelli che riguardano tatuaggi, piercing e gioielleria da gangsta.
Si sfila il bomber, resta in canotta; spalle, bicipiti, avambracci sono coperti da decorazioni floreali. Ma a guardare meglio tra quella giungla c’è di più – visi, mostriciattoli, simboli. Perché? Per lanciare messaggi? Come segno di appartenenza? Per esibire un’identità? «Ognuno ha la sua visione del tatuaggio. Per me è un’arte, come avere un Picasso», precisa. «Il tatuaggio si fa per mettersi in mostra, che senso ha dire lo faccio per me, dove nessuno può vedere? È il lavoro di un artista, come andare da Leonardo e farsi ritrarre la Monna Lisa sul bicipite».
Esplora la selva che gli copre la cute, sfoglia i ricordi degli ultimi dieci anni. «Il primo è antico. Lo feci a Pietra Ligure a quattordici anni. Ora l’ho coperto, era qui, sull’avambraccio». Coperto? E come? «Si chiamano cover. È una tecnica speciale quella di inglobare un tattoo in un altro, non tutti sanno farlo, è difficile. Io vado dal numero uno, Andrea Lanzi. È lui che ha realizzato questo», aggiunge, indicando lo Slimer di Ghostbusters. «Ha fatto miracoli, otto cover una sull’altra».
All’inizio non fu solo passione ma, quando non c’erano dischi e concerti a garantire le entrate, un modo per sbarcare il lunario. «Ero ancora un nulla assoluto nel mondo del rap, aprii un laboratorio con la mia ex in Via Ricciarelli, a Milano (è ancora lì, si chiama Mi-Tatuo), davanti alle case popolari di Selinunte – avevo diciannove anni. Investimmo tutto quel che avevamo, duemila euro. Così mentre i miei coetanei perdevano tempo in discoteca noi ci sbattevamo per ottenere le licenze necessarie, sballottati tra camera di commercio e ufficio d’igiene. Io prendevo gli appuntamenti, lei tatuava, e una parte di quel che si incassava veniva investito in musica. Il mio primo cd, La penisola che non c’è, costato non più di settecento euro, l’ho realizzato con quei proventi. Quello del tatuatore è uno dei mestieri che rendono di più, i bravi li riconosci dalla lista d’attesa, a volte anche di due o tre anni».
I primi tatuaggi a saltare all’occhio sono quelli su spalle e bicipiti. Il fior di loto, accanto a una donna con due tette e quattro occhi, l’ha disegnato lui. Tra il polso e il pollice, un serpente avvolto intorno a una pera. Più in su, una donna cavallo con in mano borsetta e champagne. «Questi sul dorso della mano sono i miei preferiti», spiega, «li ha realizzati El Monga, un argentino, lavora in Spagna e si rifà alla tradizione, linee spesse con l’ago riscaldato». Sembra una tortura da Controriforma. «Uso tutte le creme anestetiche in circolazione che poi non servono a nulla. In America hanno legalizzato la codeina che da noi è ancora vietata, si può ovviare con una crema per le emorroidi, quella più usata è Emla. La nuova frontiera è il Contramal, un farmaco che si usa per forti dolori articolari; alla fine il dolore lo senti lo stesso ma sei talmente rincoglionito che riesci a sopportarlo».
Si solleva la canottiera nera e svela un’altra selva di tatuaggi che pare di avere di fronte la Divina commedia illustrata da Gustave Doré. Sul petto: «Un biorganico di Luca Natalini ancora incompiuto», un albero che fruttifera soldi, un ragno, un millepiedi, un liquidator «che simboleggia il mio essere gangsta». Al posto della solita pin-up, una “Milf” attempata. Inoltre, un Ganesh con la mano uncinata, una lavatrice strizzacervelli, una donna Polifemo, un fiore strappato da una mano scheletrita. Più in giù, sotto l’ombelico, un Cristo col capo reclinato e gli occhi puntati sul pube. Commenta: «Sono ateo convinto e mi piacerebbe vivere in un autentico stato laico, non uno finto come l’Italia. Papa Francesco è un ottimo pontefice ma anche un eccellente stratega di “chiesa spa”». Sulle gambe, un tram milanese sotto una decorazione. Tribale? «No, odio i tribali, sono bruttissimi, questo è circense», precisa. Sotto i lobi delle orecchie, un gelato alla fragola, la scritta Zedef (palindromo di Fedez), uno squalo mangiasoldi». Sul piede sinistro, sneaker tatuata con tanto di stringhe. Sulla schiena, Topolino crocifisso con la scritta “nessun dio”, «ma devo rifarlo, è ancora in bianco e nero, un tatuaggio da galera». Qual è il messaggio? «Nessun messaggio. Il tatuaggio deve essere fine a se stesso». Reazione a una timidezza cronica? Provocazione hip hop? «No, perché timido lo sono ancora», conclude l’artista, che il 19 marzo debutta a Rimini con il Pop-Hoolista Tour (due date già sold out al Mediolanum Forum il 21 e 22). «Definirmi hip hop mi fa sentire a disagio. Penso a me come a un cantautore 2.0 che ha fatto la gavetta nell’hip hop ma non rivendica alcuna appartenenza al genere. Vengo dalla periferia milanese — che non è il Bronx — sono cresciuto tra ragazzi posseduti dalla passione per il calcio, per i motorini truccati, per le discoteche. Io ero diverso, allergico all’omologazione allora come ora; quando un movimento di libero pensiero che dovrebbe dare spazio a tutti comincia ad avere pregiudizi e preconcetti diventa il Rotary Club». Apre il laptop, mostra orgoglioso un videomessaggio che gli ha inviato Francesco De Gregori: «La coerenza d’artista non ha senso di esistere, e chi giudica gli artisti sul campo della coerenza spicciola spesso li invidia per la loro giovane età o per i tatuaggi che si fanno». Conclude Fedez: «Mi basta il suo giudizio».
Giuseppe Videtti