Angelo De Mattia, MilanoFinanza 28/2/2015, 28 febbraio 2015
PANTALONE NON PAGA PIÙ
A Via XX Settembre si continua a studiare; per ora nessuna effettiva novità da parte del Tesoro, ad eccezione di indiscrezioni che forse costituiscono uno studiato ballon d’essai. È oltre un anno che si discute, a proposito della necessità di pulire i bilanci delle banche gravati da più di 180 miliardi di sofferenze lorde (e di oltre 300 miliardi di crediti problematici), se e in quale modo istituire una bad bank di sistema o una pluralità di bad bank ovvero agevolare la costituzione di veicoli comunque denominati per creare un mercato delle sofferenze oppure intervenire con la leva delle agevolazioni fiscali, a prescindere dal mezzo che si intende usare per l’accennata opera di pulitura.
Fabio Panetta, vicedirettore generale della Banca d’Italia e autorevole membro del supervisory board della Vigilanza accentrata, tra i massimi esperti europei di credito e finanza, ha detto che non si tratta di istituire una bad bank, ma di trovare le modalità più idonee alla predetta ripulitura.
Quando, un anno fa, nel congresso Assiom-Forex di Roma il governatore della Banca d’Italia, nel suo discorso conclusivo, sollevò, tra gli altri, il problema del peso delle sofferenze nei bilanci degli istituti, in conseguenza per una buona parte della crisi.
Al nuovo congresso annuale Assiom-Forex, questa volta tenuto a Milano, Ignazio Visco è stato molto più esplicito e ha sostenuto, come abbiamo già riferito su queste colonne, che lo smobilizzo dei crediti deteriorati è cruciale per consentire alle banche di destinare risorse al finanziamento dell’economia, che si giustificherebbe un intervento dello Stato non per rimediare all’assunzione di rischi eccessivi da parte delle banche, ma per far fronte al deterioramento dei prestiti indotto dalla gravità della crisi, che tale sostegno deve avere un’adeguata remunerazione e, prima ancora, deve essere coerente con il rispetto delle norme comunitarie, che potrebbero essere previste agevolazioni fiscali o la prestazione di garanzie pubbliche sulle attività derivanti dalla dismissione dei prestiti in sofferenza.
Un punto fondamentale è la remuneratività dell’intervento pubblico che, dunque, non potrà mai essere a fondo perduto, anche perché, in tale evenienza, diventerebbe molto più difficile la compatibilità con la normativa europea.
Dunque, occorrerà definire una remunerazione alla stregua di quanto è stato, a suo tempo, deciso, per esempio, per i Monti bond, incipientemente ritenuti da alcune parti politiche dei regali quando invece sono stati profumatamente remunerati allo Stato dagli istituti emittenti. Ma l’altro aspetto, di pari importanza, della proposta di Visco sta nell’affermazione secondo la quale questo intervento pubblico trova la sua giustificazione, come accennato, nella necessità di dare una risposta al deterioramento dei crediti causato dalla recessione e all’esigenza di assicurare adeguati flussi di finanziamento all’economia.
Allora c’è da chiedersi se tali motivazioni valgano soltanto a fornire una base di legittimità all’intervento dello Stato o se, invece, debbano tradursi in concrete misure normative che diano una rilevanza effettiva alle stesse ragioni in modo che l’agevolazione pubblica possa con sufficiente approssimazione limitarsi a tener conto del deterioramento provocato dalla crisi e a indirizzare i finanziamenti a famiglie e imprese.
Remunerazione e chiaro soddisfacimento delle esigenze indicate, sono i caratteri che una normativa della specie dovrebbe avere, nel presupposto che sia stata risolta ex-ante la questione della compatibilità con le norme europee e non invece, come è pure accaduto, che questa compatibilità diventi una clausola di stile inserita nella legge, semmai da valutare ex-post. Non è facile congegnare una tale disciplina, anche perché si potrebbe correre il rischio di creare un monstrum, per di più inerte, che evochi il rapporto tra banche e prefetti di tremontiana, infausta memoria. E, tuttavia, è in questo versante che bisogna incidere. Ma, poi, non basta: si parla di istituire una bad bank o una società-veicolo, con un capitale da definire, alla quale parteciperebbe, direttamente o indirettamente, anche lo Stato per una quota minoritaria; poi si aggiungerebbe la previsione delle garanzie concedibili a chi acquista i titoli emessi dalla predetta società e agevolazioni fiscali alle banche interessate riducendo il periodo di deduzione delle perdite per parificarlo a quanto generalmente praticato a livello europeo o comunque molto vicino a tale modello.
Vi è, quindi, chi sostiene che una bad bank pubblica oggi sarebbe difficilmente sostenibile; altri affermano che potrebbe, invece, essere almeno parzialmente pubblica. Allora, è necessario fare chiarezza e stabilire con precisione in quale punto del procedimento lo Stato debba intervenire, non potendosi moltiplicare il sostegno, se non per conseguire poi una migliore remunerazione. Se questo vincolo non viene osservato, al di là della posizione della Commissione Ue che starebbe sollevando problemi sempre in materia di compatibilità, avranno il sopravvento coloro che ritengono che lo Stato non debba spendere denari per questa finalità. Del resto, Intesa Sanpaolo e Unicredit si accingono a far decollare, prima di Pasqua, una propria struttura congiunta sullo stile di una bad bank, ma senza sostegno pubblico. Alcuni fanno riferimento alla società creata in Spagna quando quel governo decise di accedere ai fondi europei (dell’Esm) per 50 miliardi al fine di ricapitalizzare le banche, a differenza di quello italiano (l’esecutivo Monti) che temporeggiò inutilmente e alla fine decise di non avvalersi di tale possibilità.
Ovviamente all’assegnazione dei fondi alla Spagna sono seguiti i controlli delle autorità europee. E, qui, si ritorna al punto sopra rappresentato delle condizioni e delle contropartite, a seconda della formula che si adotterà, nonché dei controlli. Quando negli anni novanta del secolo scorso si istituì la bad bank del Banco di Napoli, la Sga, i risultati del cui operare sono stati ampiamente apprezzati, contemporaneamente si effettuò una serie di interventi nella normativa primaria e secondaria per alcune banche, poi si regolarono i rapporti di lavoro e pensionistici a livello di sistema con forme di agevolazioni all’esodo, quindi si promossero una grande riorganizzazione e uno straordinario consolidamento del sistema.
Oggi i problemi sono completamente diversi da quelli del personale ora impegnato, attraverso i sindacati, in un difficile rinnovo contrattuale. Ma di come si stia procedendo per la creazione della bad bank occorrerebbe sapere di più, in particolare se il governo intende affrontare la materia in un più ampio quadro o no. Poi bisognerà verificare, a seconda della via che sarà scelta, come concretamente opererà una struttura centralizzata, se di questa si tratterà, come a essa faranno capo le decisioni dei singoli istituti sui relativi crediti problematici. Intanto, andrebbe sciolto il nodo dei rapporti con Bruxelles.
Il varo di uno strumento della specie, alla condizione che sia rigorosamente remunerativo qualora vi sia un intervento dello Stato e che comunque sia razionalizzato il modo in cui lo stesso dà il sostegno, accompagnato da una serie di iniziative di riforma, questa, sì, sarebbe la vera novità nel sistema, altro che pseudo-riforma delle Popolari. Sarebbe, allora, il momento per promuovere una vera revisione dell’ordinamento rivisitando il Testo unico bancario e promuovendo una netta distinzione tra banche d’investimento e banche commerciali. La rivisitazione del Tub richiamerebbe immediatamente l’esigenza di una stretta parità normativa a livello di Eurozona e di Unione, ben lontana dall’essere conseguita, ma che non si può tardare oltre nel promuoverla con determinazione. Insomma, dalla bad bank a una più generale revisione normativa.
Angelo De Mattia, MilanoFinanza 28/2/2015