Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  febbraio 28 Sabato calendario

QUEL CAVALLO DI TROIKA

Per la Grecia forse è davvero arrivato il tempo di prendersi una vacanza dall’euro. Non è detto, infatti che la breve tregua di quattro mesi, appena ottenuta dal governo Tsipras dall’Eurogruppo per rinegoziare l’accordo sui prestiti, non serva invece ad organizzare il ritorno alla dracma.
Se ne cominciò a parlare giusto cinque anni fa: il 16 febbraio del 2010 fu Martin Feldstein, con un articolo pubblicato sul Financial Times, ad affermare che il sostegno finanziario promesso ad Atene da Francia e Germania sarebbe stato solo di temporaneo sollievo al problema del debito pubblico greco, perché ne avrebbe lasciati irrisolti i nodi di fondo. Gli aggiustamenti necessari alla finanza pubblica ellenica avrebbero gelato l’economia, rendendo alla lunga insostenibile il debito esistente. Meglio allora per la Grecia, sosteneva Feldstein, prendersi una «vacanza dall’euro», tornando temporaneamente alla dracma. Insomma, una svalutazione competitiva nei confronti del resto d’Europa, per ridurre le importazioni e rilanciare la crescita.
La gelata dell’economia greca c’è stata, e il debito pubblico si è fatto insostenibile. A fine 2014 e rispetto all’anno precedente, i prezzi al consumo sono caduti del -2,8% mentre quelli alla produzione sono crollati del 5,7%. L’indice della produzione industriale ha segnato ancora un -3,8% e, sempre anno su anno, il settore dell’edilizia è precipitato di un ulteriore 37,3%. Il tasso di disoccupazione si è attestato al 25,5%, segnando un piccolissimo miglioramento.
I conti con l’estero di Atene non sono così positivi come potrebbe apparire. Visto che il risultato del 2014 è stato attivo per 1,7 miliardi di euro, migliorando il dato del 2013 che si era fermato a +1,1 miliardi rispetto ai -4,6 miliardi del 2012, sembrerebbe finalmente chiuso il gap strutturale che aveva caratterizzato la bilancia dei pagamenti di Atene, che tra il 2000 e il 2007 aveva accumulato un saldo negativo pari al 66,7% del pil. Se però si vanno a scorporare i dati relativi alle componenti petrolifere, si scopre che il saldo commerciale «non oil» è addirittura peggiorato, portandosi dai -9,4 miliardi di euro del 2012 ai -10,4 miliardi del 2014. Il cosiddetto «oil balance» è infatti migliorato, passando dai -10,2 miliardi di euro del 2012 ai -7,5 miliardi del 2014: tutto merito delle minori importazioni di prodotti energetici. C’è forse una componente legata alla crescita del contrabbando di prodotti petroliferi, ma non è quantificata. L’import di merci continua a crescere nonostante la caduta del pil e dei prezzi interni alla produzione: è la prova provata che la deflazione salariale non è servita a nulla: ha creato solo povertà, inutilmente.
Il settore dei servizi, invece, ha presentato una dinamica migliore, con un saldo estero in crescita dai +16,9 miliardi del 2013 ai +19,8 miliardi del 2014, equamente distribuito tra le componenti viaggi, trasporti ed altri servizi: in pratica, è solo il turismo che ha beneficiato della caduta dei prezzi greci. Una svalutazione, se la Grecia avesse avuto ancora la dracma, sarebbe stata la via più semplice ed indolore. Rimane solo il turismo, mentre l’indotto delle costruzioni è stato azzerato. Anzi, il terrore che i governi possano introdurre una tassazione patrimoniale immobiliare per cercare di abbattere il debito pubblico, arrivato nel frattempo al 175% del pil, dissuade gli stranieri dall’acquistare una casa di vacanza in Grecia nonostante la appetibilità dei prezzi. In più, dal conto finanziario del 2014 emerge un ulteriore deflusso netto di capitali per investimenti di portafoglio all’estero, per 7 miliardi di euro, che si aggiungono ai 6,6 miliardi del 2013 e alla fuga di 100 miliardi del 2012. In soli tre anni, i trasferimenti legali all’estero di capitale da parte dei greci sono stati pari al 62,4% del pil.
La permanente incertezza sulla soluzione da dare alla questione del debito pubblico e le ricorrenti ipotesi di una tassazione patrimoniale inducono i greci ad esportare tutti i risparmi all’estero: in queste condizioni non ci sarà mai una ripresa. Le ulteriori riforme strutturale, quelle comprese nella lista allegata alla lettera trasmessa all’Eurogruppo il 23 febbraio, possono incidere sulla appetibilità teorica di un investimento, ma non rimuoveranno mai il timore che, prima o poi, il governo greco dichiari default. La questione dell’abbattimento del debito pubblico greco rimane quindi dirimente per qualsiasi investitore, greco o straniero che sia, e non può essere neppure risolta solo con la possibilità di effettuare nuovi investimenti pubblici attraverso la riduzione dell’avanzo primario di bilancio, dal 4,5% all’1,5% del pil, come era stato richiesto dal ministro Yanis Varoufakis al presidente dell’Eurogruppo, con la sua lettera dell’11 febbraio scorso.
La rinegoziazione del debito greco, praticamente tutto in mano ad istituzione pubbliche (Efsf, Fmi, Bce e Banca di Grecia) visto che anche quello sottoscritto dalle banche greche è stato usato come collaterale per ottenere nuova liquidità, è stata variamente prospettata, ipotizzando che le scadenze dei rimborsi e l’entità degli interessi siano collegate pari passo alle dinamiche della economia greca. Più questa cresce velocemente e prima si rimborserebbe il debito. Sono certamente possibili degli artifici contabili, visto che i tassi attualmente pagati da Atene sono inferiori a quelli di mercato e, in proporzione, più bassi addirittura di quelli pagati dall’Italia: attualizzandoli alle condizioni di mercato, potrebbero ridursi di 30-35 miliardi di euro. Per questo che il governo greco, ancora in questi giorni, sta continuando a parlare di swap sul debito: prima o poi, volenti o nolenti, i creditori dovranno accettare una trattativa.
Sembra quindi che i prossimi quattro mesi non serviranno solo per verificare le condizioni per un nuovo Accordo finalizzato alla prosecuzione degli aiuti finanziari: la vera trattative è sul debito e stavolta il governo di Atene ha in mano la concreta possibilità di uscire dall’euro. Tutte le condizioni al contorno gli sono favorevoli.
Il ritorno alla dracma sarebbe ampiamente fattibile, perché ormai il bilancio pubblico greco registra un ampio avanzo strutturale: anziché avere un deficit ha un surplus. Nel 2014, corretto per il ciclo, è stato pari al 3,2% del pil, e sarebbe del 2,8% nel 2015. Al contrario, il gap tra pil previsto e pil potenziale, è stato immenso: -10,9% nel 2014 e -6,2% quest’anno: lo spazio per crescere c’è, ed è immenso. Spazio per crescere, in un contesto di stabilità di prezzi e salari.
La Grecia ha una situazione economica e sociale insostenibile, non ha più alcuno squilibrio di bilancio, ma deve attrarre investimenti. Deve, quindi, in un colpo solo, liberarsi del debito eccessivo, rendere appetibili gli investimenti e competitiva la sua economia. Dopo tanto penare, il ritorno alla dracma risolverebbe tutti i problemi: visto che il debito è tutto nelle mani di istituzioni pubbliche, non ci sarebbero sconquassi sul mercato finanziario; con il bilancio pubblico in pareggio, non dovrà neppure ricorrere al mercato per nuovi prestiti. Infine, i rimborsi del debito pregresso sarebbero congelati, in attesa di trattative, rinviati alle calende greche.
All’interno, il concambio tra euro e nuova dracma sarà alla pari: stipendi, pensioni, tasse, debiti e crediti saranno denominati nella nuova moneta ma non cambieranno di importo. Nei bancomat, i greci si troveranno dracme e non euro, mentre i loro conti e depositi in euro saranno ridenominati in dracme. Sul mercato dei cambi, la nuova dracma si svaluterà sull’euro, facendo la fortuna di tutti i greci che hanno portato i capitali fuori in questi anni. Tornerebbero indietro, come avvenne in Italia nel marzo-aprile del 1993, dopo la svalutazione del settembre precedente.
Il governo greco, a conclusione delle trattative bruxellesi, ha accettato la sconfitta, ritirandosi apparentemente in buon ordine. Ha subito mandato una lettera piena di impegni, addirittura 64, uno più vago dell’altro. Sono molti di più degli uomini che, secondo Omero, si erano nascosti nel cavallo di legno che gli Achei avevano lasciato davanti alle mura di Troia. I greci le hanno provate tutte: forse hanno fatto finta di abbandonare il campo. La lettera di impegni potrebbe essere un diversivo, uno stratagemma che cela le vere intenzioni: «Timeo Danaos».
Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 28/2/2015