varie, 28 febbraio 2015
PALLINATO SU BOSSETTI PER IL FOGLIO DEI FOGLI DEL 2 MARZO 2015
I l carpentiere Massimo Bossetti, 45 anni, in galera da otto mesi per il delitto di Yara Gambirasio, in cantiere era chiamato «Il Favola» dagli altri operai, perché diceva un mucchio di bugie. Per non andare a lavorare una volta aveva raccontato di avere un tumore al cervello, un’altra tre ernie al disco, poi di essersi rotto il setto nasale, di essere stato sbattuto fuori casa dalla moglie ecc. Tutte balle [1].
Le informazioni sulla capacità di mentire di Bossetti emergono dalla relazione dei Ros di Brescia con cui si è conclusa nei giorni scorsi l’inchiesta sul delitto della tredicenne Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre 2010 da Brembate di Sopra e ritrovata cadavere il 26 febbraio 2011 in un campo a Chignolo d’Isola. A Bossetti, incriminato per omicidio aggravato, è contestata anche la calunnia, per aver tentato di dirottare le responsabilità sull’omicidio di Yara su un suo compagno di lavoro [1].
Il carpentiere, che continua a giurare sulla sua innocenza, raccontò dopo l’arresto di essere stato a lavorare tutto il giorno quel 26 novembre e di essere tornato a casa passando velocemente per Brembate. Ma neanche la moglie Marita Comi, come dimostrano le intercettazioni dei loro colloqui in carcere, riesce più a credergli: «Massi, come mai ti ricordi che quella sera avevi il cellulare scarico ma non ricordi cosa hai fatto o dove sei stato?». «Massi, hai capito? Riesci a girare lì a Brembate per tre quarti d’ora… è tanto! Capito? Non puoi girare lì tre quarti d’ora così… a meno che non aspettavi qualcuno!». «Ci ho pensato Massi... eri lì quella sera, non mi ricordo all’ora che sei venuto a casa, non mi ricordo neanche cosa hai fatto… perché all’inizio eravamo arrabbiati, comunque non te l’ho chiesto, mi è uscito dopo, non mi hai mai detto cosa hai fatto! Non me l’hai mai detto!» [1].
Il 26 novembre, quando Yara sparisce, il furgone di Bossetti, l’Iveco Daily targato CH605NZ, è alle 18 dal benzinaio davanti alla palestra; cinque minuti dopo in via Rampinelli; alle 18 e 19 in zona palestra verso Ponte San Pietro; 18.35 in via Caduti dell’Aeronautica verso Locate, poi torna verso Brembate, 18.40 in zona palestra verso Brembate, 18.47 nella stessa zona sempre verso Brembate, 18.51 idem [2].
Marita Comi, che ha visto le foto del ritrovamento del cadavere di Yara, non si spiega come mai la bambina avesse una scarpa slacciata. Bossetti, durante un colloquio in carcere, secondo i pm a quel punto rivela perfino un dettaglio dell’omicidio: «Eh, però il campo era bagnato, la terra impelliccita e tutto, se tu corri in un campo è facile che le scarpe si perdano!». Poi se ne accorge, cambia discorso [1].
Quel pomeriggio di novembre di cinque anni fa, Bossetti non andò a lavorare e non incontrò nessuno a Brembate, non il commercialista, non il fratello, non l’amico con cui dice di essere andato a bere una birra. Gli uomini del Ros hanno fatto un lavoro di ricostruzione preciso, ascoltando centinaia di testimoni, verificando ogni dettaglio, anche ogni accusa di Bossetti che prima ha adombrato «una vendetta» verso il padre di Yara Gambirasio, poi ha cercato di gettare la colpa su un collega di lavoro: «…Quindi ipotizzo di aver perso un guanto o uno straccio sporco di sangue e qualcuno è andato a depositarla su… su questa bambina qua». Un’idea? «Sì, il Massimo Maggioni che mi aveva prestato uno straccio rosa scuro una volta che mi ero ferito una mano… lui provava invidia per la mia bellissima famiglia… Io non voglio accusare nessuno, però l’ho visto come fa… un cane che sbava». Ma il Maggioni nei giorni in cui scomparve Yara era ricoverato in ospedale [1].
Colonnello: «Al di là delle menzogne quasi infantili del carpentiere di Mapello, al di là delle visite sui siti porno alla ricerca di “tredicenni senza pelo”, parlano i fatti che si riassumono in tre elementi schiaccianti: il Dna ritrovato sui leggings e le mutandine di Yara incontrovertibilmente di Bossetti; le immagini del suo furgone, il camionato Iveco, che passa avanti e indietro per tre quarti d’ora davanti alla palestra di Brembate e alla casa della ragazzina la sera della sua scomparsa; i frammenti di tessuto del plaid usato per rivestire i sedili dell’abitacolo del camioncino, (giallo, rosso e verde) trovato sempre sui leggings di Yara. Più la testimonianza di un uomo che lo riconosce quella sera vicino alla palestra e di una donna che è sicura di averlo visto appena tre mesi prima, settembre 2010, incontrarsi con Yara e farla salire sulla sua Volvo grigia station wagon nel parcheggio del cimitero di Brembate, guarda caso, proprio attiguo alla palestra: “Me ne sono ricordata perché lui aveva gli occhi incredibilmente azzurri, di ghiaccio”» [1].
La stessa teste qualche giorno dopo al supermercato Eurospin ha rivisto il carpentiere che faceva la spesa. Dell’intera famiglia Gambirasio, l’unica che ci andava era Yara, in compagnia della zia Nicla. È là che lui l’ha «puntata»? [2].
La radiografia dell’attività informatica di Bossetti – dice il gip Vincenza Maccora – rivela un forte interesse per «ragazzine rosse tredicenni, vergini». Yara aveva 13 anni ed era rossiccia di capelli [3].
Stando alla consulenza informatica, il «pallino» intorno al quale ruota la curiosità online di Bossetti – le «tredicenni per il sesso» – prevede anche una declinazione «nera». Il muratore si interessa a «fatti di cronaca in merito a rapimenti e violenza sessuale su minore». Ad esempio apre il sito del Mattino di Padova, legge il pezzo che racconta il caso di Matteo Meneghello, di Bovolenta. È stato arrestato per corruzione di minorenne e violenza sessuale. La vittima ha 13 anni. Altri clic vanno a ripescare storie di rapimenti e omicidi: a farne le spese, sempre bambine [3].
Bossetti dal suo profilo Facebook è anche andato in cerca dei profili di alcune vicine di casa, giovanissime [2].
Ai detenuti che gli dicevano «confessa, così puoi avere uno sconto di pena. Altrimenti rischi l’ergastolo», Bossetti, intercettato dalle cimici, ha risposto: «Rischierò l’ergastolo, ma non confesso per la mia famiglia» [4].
La principale prova contro Bossetti resta il Dna, che i suoi avvocati difensori definiscono «solo un indizio». Ma colpisce che proprio Bossetti sia stato categorico con la madre Ester Arzuffi sul valore del Dna. Quando lei, in un colloquio in carcere dell’8 novembre, gli dice «tuo padre è Giovanni Bossetti, non l’autista di Gorno» lui le risponde: «La scienza non sbaglia. Lì non puoi smentire. Perché tutti i miei 21 cromosomi corrispondono ai 21 cromosomi del Dna di Guerinoni? Lì è al cento per cento, non puoi sbagliare» [5].
«Quello che mi frega è il Dna sul cadavere» (Bossetti alla moglie, durante un colloquio in carcere) [6].
(a cura di Roberta Mercuri)
Note: [1] Paolo Colonnello, La Stampa 28/2; [2] Paolo Berizzi e Piero Colaprico, la Repubblica 27/2; [3] Paolo Berizzi, la Repubblica 12/2; [4] Giuliana Ubbiali, Corriere della Sera 22/2; [5] Fiorenza Sarzanini, Giuliana Ubbiali, Corriere della Sera 28/2; [6] Paolo Berizzi e Piero Colaprico, la Repubblica 28/2.