Scott Atran, Mente&Cervello 3/2015, 27 febbraio 2015
L’ILLUSIONE DEL SUBLIME
“Qualsiasi cosa volessero ottenere, assassinando degli innocenti, questi criminali hanno già fallito», ha sentenziato Barack Obama dopo l’esecuzione dei giornalisti occidentali e degli operatori umanitari da parte dello Stato Islamico, organizzazione che molti, fra cui il presidente François Hollande, preferiscono designare con il termine Daesh – l’acronimo arabo di ISIS, Islamic State in Iraq and Syria – nel tentativo di delegittimarne le ambizioni evitando la definizione di «Stato».
Ma è davvero così? I fatti sembrano indicare il contrario. L’ossigeno del terrorismo, e lo Stato Islamico lo sa bene, è la pubblicità. E di pubblicità, con la decapitazione di due giornalisti statunitensi prima e, più recentemente, del francese Hervé Gourdel, l’organizzazione ne ha avuta a tonnellate. Al punto che oggi questo movimento, pressoché sconosciuto fino a poco tempo fa, è al centro delle preoccupazioni politiche internazionali, mettendo temporaneamente in secondo piano il problema della nuclearizzazione dell’Iran e della Corea del Nord e persino l’ambizione russa di restaurare l’impero degli zar. Il pericolo è di rilanciare i giochi di potere e l’anarchico sistema delle rivalità mondiali che un tempo hanno dato origine a due guerre mondiali e oggi rischiano di farne esplodere una terza, più devastante ancora.
L’obiettivo degli spettacoli inscenati dallo Stato Islamico è terrorizzare e «incantare» l’opinione pubblica. Le emozioni popolari, nel teatro politico delle democrazie liberali occidentali scandite dai media, hanno l’invariabile effetto di precipitare l’azione politica (o piuttosto la reazione). Come si è visto nella reazione incoerente e indifferenziata della Gran Bretagna e degli Stati Uniti che hanno trasformato al-Qaeda da gruppo risoluto, ma comunque ristretto, di estremisti relativamente istruiti e violenti a un movimento sociale capace di attirare, in Occidente, migliaia di immigrati musulmani senza lavoro e altri milioni di individui che, tornati in patria, non vi hanno trovato che frustrazione politica e disillusione economica. In Europa anche i più accaniti oppositori della violenza dicono che «senza al-Qaeda saremmo stati dimenticati», e in quasi tutto il mondo musulmano l’eredità dello «Sceicco Osama» è spesso sinonimo di rispetto e riconoscenza.
A differenza di al-Qaeda, da cui è stato escluso all’inizio di quest’anno, lo Stato Islamico non accetta compromessi nell’interpretazione degli scopi dell’Islam e dei mezzi per ottenerli, e tantomeno sulla sua missione: governare il mondo. Sul finire dell’esistenza il capo terrorista Abu Mus’ab al-Zarqawi, fondatore dello Stato Islamico, dichiarava che «gli sciiti sono il peggior male dell’umanità, quello moralmente più pericoloso, e che distruggerli è un obiettivo prioritario». Su questo scenario, sancito oggi da Abu Bakr al-Baghdadi, gli Stati Uniti e il Regno Unito non si mostrano abbastanza saldi nei propri ideali da rappresentare un nemico serio. Agli occhi dei «ferventi adepti», ovvero i jihadisti, l’equità di una causa prevale sempre su un palese svantaggio materiale. Infatti, dopo la seconda guerra mondiale gruppi ribelli e rivoluzionari hanno sconfitto eserciti fino a dieci volte superiori in armi e soldati, grazie alla devozione alla propria causa o in ragione di particolari sistemi di ricompensa, come la remunerazione o la promozione.
Eppure, appoggiandosi alla storia recente, lo Stato Islamico spera nell’aiuto di Stati Uniti e Gran Bretagna per innescare una spirale di guerre civili e transnazionali che sfocerebbero in un’Armageddon, nel ritorno a un’immaginaria età dell’oro di dominazione araba in tutti i paesi musulmani e di dominazione musulmana in Europa, Asia e Africa. E questo nonostante i cinque secoli, dal 750 al 1258, di relativa tolleranza sociale, ricchezza filosofica e grandi progressi nelle scienze mediche e matematiche segnati dal dominio della dinastia degli Abbasidi sul mondo musulmano.
Il brivido del terrore
La violenza esercitata dallo Stato Islamico è tutto fuorché gratuita o nichilista, accuse spesso lanciate da chi rifiuta di riconoscere il potere seduttivo del nemico. La visione morale dei ferventi adepti è dominata da quello che Edmund Burke chiamava il «sublime»: un’attrazione potente e appassionata per quello che il filosofo irlandese definiva lo «squisito terrore», una speciale emozione destata dall’altrui dolore. Secondo Burke lo spettacolo del terrore può suscitare diletto nella natura umana, che vi vede la manifestazione di forze superiori, illimitate e oscure. Il terrore negli occhi di una vittima sarebbe assimilabile al terrore nei confronti di Dio.
«Nessuna passione priva lo spirito di ogni potere d’azione e ragionamento come la paura – osservava Burke – perché la paura è un’apprensione della sofferenza e della morte; opera in modo assai prossimo al vero dolore. Di conseguenza, qualsiasi cosa terribile alla vista è sublime». Ma affinché il terrore sia sublime «l’oscurità sembra generalmente necessaria», proseguiva il filosofo. «Quei governi dispotici che si basano sulle passioni degli uomini, e principalmente sulla paura, sottraggono il più possibile i loro capi alla vista della moltitudine». Al-Baghdadi osserva senza dubbio questi criteri.
Quello del sublime è un sentimento fisico e viscerale, profondamente ancorato nelle emozioni e nell’identità, estraneo alle nostre ideologie moderne, dove la ragione e lo spirito dominano e non sono schiavi delle passioni. Non si tratta di un lavaggio del cervello, contrariamente a quanto voleva far credere un vecchio mito sui soldati alleati sottoposti, durante la guerra in Corea, a manipolazione mentale da esperti della Cina comunista.
I volontari occidentali che si arruolano nello Stato Islamico sono spesso giovani che si trovano in un periodo di transizione della loro vita: immigrati, in una fase di passaggio fra un lavoro e un’altro, o fra una fidanzata e l’altra, che hanno lasciato la casa di famiglia in cerca della propria strada. Nella gran parte dei casi non hanno ricevuto un’educazione religiosa e sono «rinati» alla religione grazie alla Jihad. Il fenomeno dei giovani in cerca di sé stessi che trovano la propria strada nella Jihad si espande a macchia d’olio in svariate occasioni: durante una festa, negli incontri sessuali occasionali, su Internet. I ragazzi diventano più radicali quando vedono i genitori umiliati dai funzionari amministrativi nel compilare i moduli, o la sorella insultata perché porta un velo. Alcuni, la maggioranza, non fanno il grande salto; altri sì, e trascinano gli amici.
Come ho affermato davanti al comitato delle forze armate del Senato statunitense, a ispirare i terroristi odierni non sono tanto i precetti religiosi o il Corano, ma una causa eccitante, un appello all’azione che promette la gloria e la stima degli amici, nonché l’eterno rispetto agli occhi del mondo, che li ricorderà anche se pochi di loro vivranno abbastanza da godersi il riconoscimento. La Jihad è un padrone ugualitario, che propone a tutti le stesse opportunità: è fraterno, rapido, glorioso e motivante. A eccitare è soprattutto il pericolo, che fa ribollire il sangue soprattutto a chi non ha mai provato tanta esaltazione.
Secondo un sondaggio del luglio 2014 realizzato dall’istituto di rilevazione britannico Icm Research, il 16 per cento dei francesi e oltre un adolescente su quattro – con esattezza il 27 per cento – esprime un’opinione favorevole o molto favorevole nei confronti dello Stato Islamico, nonostante i francesi musulmani siano meno del 6 per cento. Le cifre contrastano con il 13 per cento di sostenitori dello Stato Islamico a Gaza, stando a un sondaggio condotto nell’agosto dello stesso anno dal Centro palestinese per l’opinione pubblica.
Sentirsi vivi combattendo
Scriveva Hitler nel suo Mein Kempf: «Tutti i grandi movimenti sono moti popolari, eruzioni vulcaniche delle passioni umane e delle sensibilità spirituali, prodotte o dalla crudele deità del bisogno, o dalla fiaccola incendiaria della parola scagliata fra le masse». Ma la parola va messa in scena sul palcoscenico del sublime. Negli anni trenta, Charlie Chaplin e René Clair videro insieme un film dell’attrice e regista Leni Riefenstahl che esaltava il nazionalsocialismo. Mentre Chaplin rideva, René Clair ne rimase sgomento, terrorizzato all’idea che il film potesse diffondersi in Occidente. Sarebbe stato tutto perduto, pensava. Lo capì anche George Orwell, che esaminando nel 1940 le memorie del Fuhrer osservò: «Mentre il socialismo, e anche il capitalismo, hanno detto alla gente “ti offro il benessere”, Hitler ha detto “ti offro lotta, pericolo e morte”, e un’intera nazione si è gettata ai suoi piedi».
I volontari dello Stato Islamico fanno leva sul sublime, su tutto ciò che vi si accompagna e che manca invece nel mondo del liberalismo democratico, soprattutto ai margini della società europea dove vive gran parte degli immigrati. Molti sono semplici «turisti» della Jihad, che durante le vacanze scolastiche o il congedo si trasferiscono in Siria per provare il brivido dell’avventura e un simulacro di gloria, e poi tornano alle loro vite in Occidente, confortevoli ma senz’anima. I successi dello Stato Islamico continuano però a crescere, e così l’impegno degli adepti.
Oggi le decapitazioni ottengono quello che le immagini del World Trade Center hanno ottenuto a suo tempo, ovvero trasformare il terrore in una dimostrazione di trionfo su uno scenario di morte e distruzione. Nell’accezione di Burke si tratterebbe di una manifestazione del sublime. Come si è recentemente domandato il filosofo spagnolo Javier Goma Lanzon, questo senso del sublime è forse parte di una forza attrattiva dello Stato Islamico legata alla ricerca di grandezza e gloria all’interno di un cameratismo pericoloso e temerario? L’errore dell’Occidente è forse il disinteresse per il sublime, spesso considerato con scetticismo e cinismo?
Valori sacri
Il timore di Dio, e le sue innumerevoli rappresentazioni nell’arte e nei rituali, hanno un tempo rappresentato il sublime occidentale, poi seguite da una violenta lotta per la libertà e l’uguaglianza. Secondo lo storico inglese Arnold Tynbee, le civiltà prosperano e declinano a seconda del grado di vitalità dei loro ideali culturali, e non delle ricchezze materiali. In alcuni studi condotti con il sostegno della National Science Foundation statunitense, del Department of Defense e del CNRS, abbiamo mostrato che quasi ogni società ha i suoi «valori sacri», che spingono i membri a battersi e sacrificarsi e anche a morire, pur di non cedere a un compromesso.
Nel 1776 i coloni americani avevano la qualità di vita migliore al mondo. Tuttavia, minacciati non sul piano economico bensì su quello dei «valori sacri» – secondo le parole di Thomas Jefferson usate nella bozza originale della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America – offrirono «le loro vite, le loro fortune, e il loro sacro onore» per combattere l’impero britannico, a quel tempo la più forte potenza mondiale. Il punto è forse che siamo animati da un mero ideale «di conforto, sicurezza ed evitamento del dolore», come ipotizzava Orwell per spiegare la facilità con cui nazismo, fascismo e stalinismo riuscivano a coinvolgere i giovani, soprattutto quelli in cerca di avventura e nuovi orizzonti? Il futuro problema delle democrazie liberali, anche al di là della violenta minaccia jihadista, potrebbe essere questo.
Gli esseri umani, spesso, definiscono in termini astratti i propri gruppi di appartenenza. Aspirano a stabilire legami duraturi, intellettuali ed emotivi con persone che ancora non conoscono, e sono pronti a uccidere o morire per difendere non tanto la propria vita o quella di amici e familiari, ma un’idea, una concezione morale trascendente che hanno di sé stessi, di «chi siamo noi». E il «il privilegio dell’assurdo, al quale nessuna creatura vivente è soggetta tranne l’uomo», come scriveva Thomas Hobbes nel Leviatano. Nell’Origine dell’uomo Charles Darwin vi rintracciava le qualità di «patriottismo, fedeltà, obbedienza, coraggio e simpatia» che caratterizzano le tribù vincitrici nella lotta per il dominio e la sopravvivenza.
In ogni cultura le più robuste forme d’identità di gruppo sono cementate da valori sacri: spesso sotto forma di fedi religiose o ideologie trascendentali, che conducono al dominio di alcuni gruppi su altri sulla spinta irrazionale di un manipolo di membri e delle loro azioni, che raggiungono l’obiettivo desiderato al di là di ogni attesa. Nel mondo che desideriamo – quello della democrazia liberale, della tolleranza, della diversità e della giustizia distributiva – la violenza e le sue forme estreme, come le uccisioni di massa, sono considerate patologie, misteriose sfaccettature di una natura umana corrotta, o danni collaterali scaturiti da intenzioni ritenute giuste. Ma in ogni momento della storia, e all’interno di ogni cultura, la violenza esercitata nei confronti di altri gruppi è stata invocata dai suoi autori come sublime atto di virtù morale. Senza pretesa di virtù, infatti, sarebbe difficile desiderare la morte di tanti innocenti.