Francesco Olivo, Amica 26/2/2015, 26 febbraio 2015
ALL’ULTIMO MINUTO
Alle soglie della morte, possono succedere tante cose. Nessuno può dirlo o forse sì, qualcuno c’è. Sono i tanti che arrivano nei centri svizzeri, decisi a farla finita in maniera dolce e persino legale, che ci ripensano. Un numero sorprendente: a cambiare idea all’ultimo istante è il 40 per cento dei pazienti delle cliniche elvetiche. Un monito, in fondo, per chi su temi così drammatici ha troppe certezze senza rendersi conto del dramma che investe chi fa queste scelte e le persone vicine costrette a condividerle.
Paolo F., uno di quelli che si è fermato in extremis, lo racconta malvolentieri, quasi sussurrando: «Ho guardato fuori dalla finestra della clinica e, pur essendo un malato terminale, ho capito che non era il mio momento. Ho ancora cose da fare». Niente visioni mistiche, ma una forza trovata quando tutto sembrava finito. Parole che alimentano il dubbio: che cosa farei se mi trovassi lì per me o per un mio caro? Sono vicende per nulla banali, se non altro per un fatto pratico. Chi arriva negli istituti che consentono di porre termine alle sofferenze fisiche (per quelle mentali il discorso è più complesso) ha già compiuto un lungo iter, burocratico e non solo. Le leggi federali, infatti, pur consentendo la pratica, la ammettono solo come punto d’arrivo di un percorso che ha come scopo, più o meno esplicito, la dissuasione dell’aspirante suicida. Il colloquio finale è l’ultimo atto prima delle pillole che addormentano per sempre. Gente molto decisa dice: “No, grazie”.
«Può sembrare strano», spiega Alessandra Anna Cineglosso, psicologa dell’associazione LeGaMi specializzata nei percorsi di sostegno a pazienti colpiti da lutti, «ma non lo è: queste persone arrivano con un carico emotivo insopportabile e fanno scelte drastiche. Quando nei colloqui si trovano a condividere questo peso, le valutazioni possono essere diverse. Venire ascoltati da qualcuno fa emergere persino dei progetti di vita ancora da realizzare, nonostante il poco tempo rimasto, piani a breve termine che diventano improvvisamente importanti».
Da un punto di vista giuridico l’Italia è in una giungla, il che prova la drammaticità della situazione, formalmente tutto è vietato: l’eutanasia e il suicidio assistito. Una legge sul testamento biologico (le volontà sulle terapie e sul “fine vita” di ciascuno di noi) ancora non arriva, se non per qualche iniziativa poco più che simbolica da parte di singoli comuni. Tolti alcuni casi clamorosi, Welby, Englaro, Nuvoli, tutto resta confinato nell’indefinito rapporto tra famiglie e medici, tra ipocrisia (si fa, ma non si dice) e tabù. Il tema, ovviamente, è molto complesso, da un punto di vista giuridico (esistono decine di trattati sull’argomento) e soprattutto da quello etico. Con un derby permanente tra il “diritto a decidere” e il “diritto alla vita”, con il risultato che nessuno ha il coraggio di scrivere nuove norme per uscire dal caos.
L’ultimo appello è stato quello di Walter Piludu, ex presidente della provincia di Cagliari, malato di Sla, che con il sostegno dell’associazione Luca Coscioni, sollecita una legge sul testamento biologico: «Perché costringermi ad andare in Svizzera invece di poterlo fare vicino ai miei affetti, nella mia terra, nella mia patria? Inoltre, se, come temo, non potrò andare in Svizzera, in ragione di insuperabili ostacoli logistici ed emozionali, in quale altro modo potrò realizzare la mia volontà se non con il rifiuto di acqua e cibo e, dunque, con una lenta morte per sete e fame?». Parole che tolgono il fiato, alle quali ha risposto solo il Papa: «È consolante sapere che sta vivendo la sofferenza non con adirata ribellione ma come prova della qualità della sua vita morale».
Chi si è ribellato, invece è Emilio Coveri, manager dell’Iveco, ora in pensione, che dopo avere visto il padre e lo zio soffrire, senza speranze di sopravvivere, ha assunto uno scopo esistenziale: «Aiutare chi ha scelto una morte dignitosa», ovvero assistere quelli che hanno deciso di andare a farla finita in Svizzera. Coveri aiuta a completare le pratiche burocratiche, chiede solo di iscriversi all’associazione (pochi euro all’anno), restando al di qua del confine della legge, che proibisce di accompagnare fisicamente gli aspiranti suicidi. La sua associazione è la Exit Italia: «Oggi è lunedì, la giornata più faticosa, solo stamattina ho ricevuto 27 telefonate, sono persone che vogliono recarsi in quelle cliniche». Tutto è cominciato con un’esperienza personale: «Facevo la mia vita, poi una sera sono andato a trovare mio zio, aveva un tumore e nessuna speranza di sopravvivere. Era in camera da letto e gli dissi: “Andiamo in salone, c’è la partita della Juve”, lui fece uno sforzo enorme tra mille dolori, passando davanti alla finestra del corridoio mi guardò e mi chiese una mano: “Aprila che mi butto”. Risposi di no e morì qualche mese dopo. Oggi continuerei a tenere la finestra chiusa, ma lo iscriverei alla nostra associazione». Nel 2004 Exit Italia conosce la Dignitas, la più nota delle cliniche svizzere che assiste i malati che scelgono il suicidio. In sintesi funziona così: si fa una dichiarazione (di fatto, il testamento biologico), allegando la dichiarazione di un medico e le cartelle cliniche inequivocabili. Una commissione medica svizzera controlla l’incartamento e ne attesta l’ammissibilità. A quel punto si pagano 2.600 euro circa e arriva il momento delicatissimo: scegliere la data, di solito il prima possibile. «Il nostro compito finisce lì, lo dice la legge e noi siamo molto ossequiosi. Se poi davvero c’è stato il suicidio, lo intuiamo perché non arrivano più le quote associative». Una volta in ospedale, c’è un complicato colloquio, che non tutti passano. Il medico è tenuto a fare desistere il paziente dal gesto estremo: la legge svizzera parla infatti, di “fine egoistico da evitare”, ponendo strumenti contro un’ipotetica speculazione economica dei centri. L’accompagnamento alla morte viene registrato, si sceglie tutto: giorno, ora e persino la musica di sottofondo (prevale la classica). Una volta reso noto alle autorità il decesso, viene aperta un’indagine per accertare che non vi siano interessi personali da parte di familiari, medici o amici. Il caso più noto di suicidio assistito è stato, forse, quello di Lucio Magri. Il giornalista fondatore de il Manifesto ha scelto di farlo a fine novembre 2011 in una clinica elvetica, avendo dimostrato di soffrire di una patologia psichica, la depressione. In una lettera, dopo la morte, ha rivelato i dettagli della vicenda. Un caso controverso per la legge, tanto che, la polemica seguita ha irrigidito la norma sulle malattie mentali: per essere accolta, la richiesta deve essere vagliata da uno psichiatra, e non da un medico qualsiasi, ma molti specialisti si rifiutano di fornire pareri. Il dibattito, va da sé, non è solo italiano.
Risonanza mondiale ha avuto pochi mesi fa il caso di Brittany Maynard, ventinovenne colpita da un tumore letale al cervello, che ha annunciato su YouTube dalla sua casa nell’Oregon la volontà di morire, per battere, almeno sul tempo, il nemico. Il video fece il record di contatti, 10 milioni di utenti, impossibile non commuoversi: “Arrivederci a tutti. Oggi è il giorno che ho scelto per morire con dignità, tenuto conto di questo terribile cancro al cervello che mi ha imprigionata”. Fece seguito un piccolo giallo, Brittany non si suicidò nei giorni successivi e il ripensamento fu spiegato con un nuovo filmato: “Mi sento ancora abbastanza bene, provo ancora gioia, scherzo e sorrido con la mia famiglia e i miei amici e non mi sembra il momento giusto adesso”. Passano 48 ore, però, e arriva l’annuncio: “Brittany non c’è più”. Tecnicamente la scelta è stata possibile, perché l’Oregon, è uno dei cinque tra gli Stati Uniti d’America che consente il suicidio assistito (gli altri sono il Vermont, Washington, Montana e New Mexico). Più a nord, in Canada, la legge condanna queste pratiche (nonostante il fatto che Le invasioni barbariche, film manifesto dell’eutanasia, fosse ambientato lì).
I Paesi più aperti sono quelli del Nord Europa. Da quasi 15 anni in Olanda la dolce morte è legale e nel Paese è tuttora in corso un dibattito sul confine del concetto di malattia inguaribile (in particolare ci si interroga se includere la cecità). Progressista anche il Belgio, che ha introdotto l’eutanasia per i minori, provvedimento discusso non solo a Bruxelles. Il Lussemburgo non sanziona i medici che rispondono positivamente a una richiesta esplicita dei pazienti con malattie irreversibili. In Svezia e in Finlandia, invece, è legale solo quella passiva, ovvero l’interruzione dei cosiddetti “dispositivi medici vitali” su esplicita volontà del malato. La Spagna non ha una legge nazionale, ma ha depenalizzato i reati legati all’eutanasia. Il Parlamento autonomo dell’Andalusia ha approvato nel marzo 2010 la prima legge in Spagna che consente al paziente di rifiutare un trattamento che prolunghi l’esistenza “in modo artificiale”. François Hollande, nel suo programma elettorale, aveva inserito un capitolo sul fine vita, ma, nonostante molte proposte di legge, le pratiche di “morte degna” restano illegali. Proibita, infine, ogni tipo di eutanasia passiva e attiva, in Italia, Portogallo, Gran Bretagna, Germania e Irlanda.
In ogni caso, va ricordato, tra ingerenze e crociate di ogni tipo, i malati (e chi sta loro accanto) restano soli. Un dramma vissuto con un vuoto intorno, senza leggi a cui appigliarsi e con un esilio duro da intraprendere. Così tutto resta confinato a un doloroso silenzio, complice e decisamente ipocrita, “purché non se ne parli”, e infatti nessuno, o quasi, ne parla.