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 2015  febbraio 26 Giovedì calendario

LA REPUBBLICA DELLE COOPTATE


Riflettere sulle donne di potere in Italia può essere un esercizio frustrante. Le donne con delle cariche, da noi, sono quasi tutte un’invenzione maschile. Cioè: esistono, hanno studiato, hanno fatto un po’ di esperienza, sono state cooptate. La Repubblica delle Cooptate presenta perciò delle ragazze-immagine. A volte sostituibili, come tanti maschi (peraltro). A volte parzialmente funzionanti; spesso le decisioni vengono prese da altri, le trattative vengono condotte da altri, il lavoro di macchina viene svolto da altri. E il desiderio di pari opportunità cala. Le nostre donne importanti non sono quelle che altrove si chiamano “role model”. Le giovani non si identificano in loro perché sono scoraggiate, le meno giovani perché sono troppo vecchie, la maggioranza non si sente esteticamente all’altezza. Perché poi, nella narrativa su di loro, ricorre regolarmente quel “sono pure belle che non guasta” che ci lancia diretti in Kazakistan.
Queste logiche kazake – nel senso del Paese – rischiano di avere conseguenze nel medio-lungo termine: dopo un tot di ministre belle e vistose (tre governi fa) e poi di ministre belle e angelicale e shabadabada (ora), poche chiederanno o sogneranno tante donne al potere. Anche perché queste logiche da casting mettono fuori gara (fuori cast) parecchie femmine assertive, competenti, semplicemente bravissime. Insomma: nell’Italia di oggi una Angela Merkel, una Hillary Clinton o, per chi la rimpiange, una Margaret Thatcher non avrebbe chance; o verrebbe trattata un po’ peggio di Rosy Bindi. Poi, certo, la Grande Crisi ha creato moltissime opportunità per le giovani donne italiane. All’estero. La congiuntura economica ha stroncato – in genere prima che prendessero forma – le iniziative di aspiranti imprenditrici, commercianti, professioniste. Quelle che ce l’hanno fatta sono a Londra, a Berlino, negli Stati Uniti e pure in Australia. Qui, giubilata 20 anni fa la maschera da donna in carriera Anni 80 (resiste, al netto delle spalline imbottite, in certe aziende e certe riunioni, ma non viene più vista come l’armatura della vincente); rimosse velocemente (troppo; bisognava rifletterci su per capire e prevenire) le carrieriste vestite da escort (a volte non solo vestite); digerita ma non troppo amata la nuova figura della gatta morta devota e bella-che-non-guasta, si è prive di modelli, almeno vivi, almeno entro i confini nazionali. Fuori va un po’ meglio; o almeno, ci si accorge di quando va peggio.
Per dire. Quando, alla fine del 2014, The Economist pubblica la lista degli economisti più influenti del mondo, molte e molti hanno notato che non era stata inserita neanche una donna. Neanche Janet Yellen, capo della Federal Reserve americana, la banchiera centrale più potente del mondo. Quando – fonte: Bbc – esce una lista delle percentuali di donne in posizioni di potere, si scopre che ce ne sono di più in Botswana (32 per cento) che in Svizzera (13 per cento). Quando – fonte: le mie amiche di Berlino, va be’, non si può sempre essere scientificamente corrette – si sentono storie di misoginia e bullismo nei media tedeschi, si solidarizza con le colleghe teutoniche e ci si sente meno reiette. D’altra parte: in Germania il possibile successore di Merkel, nella Cdu, è il ministro della Difesa. Si chiama Ursula (von der Leyen) e ha sette figli (anche lei ha problemi d’immagine, ovvio, è troppo bella e ha fatto troppo tutto, la solidarietà femminile ha notoriamente un limite). D’altra parte: Yellen da New York governa la Fed con successo; e a Washington, più controversa ma parecchio carismatica, Christine Lagarde dirige il Fondo Monetario Internazionale (Lagarde passerà comunque alla storia dello stile, è diventata un’icona, l’europea americanizzata elegante, ironica e metallizzata, nel senso che si tiene i capelli d’argento).
D’altra parte ancora: nelle 1.000 più grandi “public companies” del mondo – classifica 2014 del mensile Forbes – gli amministratori delegati femmina sono il 5 per cento. Aumentano ogni anno, va be’. E quel 5 per cento genera il 7 per cento dei profitti, insomma sono brave. D’altra parte ulteriormente: a Hollywood (dell’Italia, per carità di patria, non parliamo più) le donne sono il 15 per cento delle protagoniste, il 30 per cento dei personaggi che parlano, e una minoranza risicatissima dei registi; in calo, nonostante aumentino le donne nella produzione, ormai ogni film è un’impresa in cui coinvolgere investitori. E l’investitore milionario medio, americano ma sempre più spesso straniero di nazioni maschiliste, delle donne non si fida.
E le donne finiscono a girare film sulle donne; la Kathryn Bigelow di Zero Dark Thirty e dell’Oscar per The Hurt Locker è una mosca bianca, la maggioranza è relegata a storie sceme (nei media, spesso, è lo stesso).
D’altra parte finale: nel pezzetto di California, avanguardia del pianeta, la Silicon Valley, le donne sono un quarto di chi lavora a Google, Facebook, Apple, eccetera. In compenso, hanno prodotto una novità. Il femminismo impossibile dell’1 per cento. Della “overclass”, della super classe dirigente globale. Possibile per (propugnato da) super donne come Sheryl Sandberg, direttore operativo di Facebook e autrice del bestseller donnista-carrierista-ottimista-avendo-molte-tate Lean In, Facciamoci avanti; o Marissa Mayer, amministratore delegato di Yahoo!; o Susan Wojcicki, amministratore delegato di YouTube, madre di cinque figli (Wojcicki è anche sorella di Anne, ex moglie di Sergey Brin, cofondatore di Google; il che mostra come, parafrasando Ennio Flaiano, la Silicon Valley, come l’Italia, può essere una terra di cognati; ma anche come, se si nasce lì, una sorella può diventare mega manager e un’altra fondatrice di una compagnia che vende test per il Dna a prezzo modico; con un retroterra socio-economico-culturale le femmine non sono costrette a comportarsi da deficienti e non lo diventano; comunque i modelli oggi sono loro, sembrano irraggiungibili, le condizioni per diventare forti, qui, ce le dobbiamo inventare).