Carlo Puca, Panorama 26/02/2015, 26 febbraio 2015
«LE MIE 7 VITE»
[Intervista a Renato Brunetta] –
Quanto sangue abbiamo versato per questo Renzi...». Di buon mattino l’ufficio di Renato Brunetta a Roma è già vivo di bozze e di persone. Le bozze sono quelle del Mattinale, il quotidiano on line diffusissimo tra i sostenitori azzurri. Le persone sono i suoi collaboratori, che su Matteo Renzi lavorano titoli del tipo: «Un uomo solo al comando, l’Italia sola allo sbando». Strilli così il capogruppo di Forza Italia alla Camera li usa da prima che il patto del Nazareno si frantumasse. Perciò, dopo mesi di battaglie solitarie, è tornato a rappresentare la linea ufficiale di FI: «Però io non sono mai cambiato: la mia quotidianità è sempre rimasta uguale». Sarà pure così. Ma di certo la rottura con Renzi rappresenta per Brunetta l’ennesimo «nuovo inizio» di un’esistenza composta da molte vite. Privato a parte, la sua prima vita coincide con lo studio. Lei ha un curriculum da secchione: a 28 anni d’età è già professore incaricato, a 30 diventa associato. Poi la cattedra. Sì, il più giovane d’Italia, insegnavo Economia del lavoro.
«La sua carriera studentesca era corsa insieme al ’68. Ma è difficile immaginarla con eskimo e tolfa d’ordinanza. E infatti stavo esattamente dall’altra parte. Quel movimento fu soltanto il tentativo di un grande imbroglio. Con la teoria del 30 politico, tutti si sarebbero laureati allo stesso modo. «Cambiare tutto per non cambiare niente»: così i figli di papà, ricchi e viziati, avrebbero fregato me e quelli come me, il figlio di un venditore ambulante, che invece puntava sul merito per avere successo. Non a caso, erano i sessantottini ricchi a cacciarmi fisicamente dalle assemblee studentesche. Fuori i nomi, allora.
Non vale la pena citarli, sono finiti o nell’oblio o a dirigere giornali e case editrici. Insomma, dalla parte del potere. A governarli, però, era Toni Negri.
Il «cattivo maestro» delle Brigate rosse.
Appunto. Bombe, attentati, omicidi: mi sa che avevo ragione io, l’anticomunista. Lei era socialista. Io sono socialista.
Però è finito a destra.
Non si può essere anticomunisti alleandosi con i comunisti. Tuttavia, lei insegnò anche alla scuola della Cgil di Ariccia, alle porte di Roma. Sì, ero anche un iscritto. Anni dopo, per cancellarmi, ho impiegato tanto tempo; sa che è difficilissimo uscire dalla Cgil? Resta il fatto che l’anticomunista incontrava i comunisti del sindacato.
E allora? Ho sempre parlato, lavorato e insegnato da socialista. Così, per quasi 20 anni, ho diretto la fondazione Giacomo Brodolini, voluta da Gino Giugni.
Perciò frequentava Gianni De Michelis, socialista e veneziano pure lui. Fu Gianni a farmi incontrare la politica, la mia seconda vita. Alla fine degli anni Sessanta, come tutti i lagunari, cominciai a dedicarmi a Porto Marghera, di cui conoscevo l’intero ciclo tecnologico e produttivo. Perché la politica è anzitutto questo: studiare il territorio e i rapporti economici.
De Michelis le spalanca anche le porte della terza vita. Nel 1983 è ministro del Lavoro e mi chiede di fargli da consigliere economico. Io accetto, ma a titolo gratuito. Ha presente il decreto di San Valentino? L’accordo del 14 febbraio 1984 che tagliò di quattro punti la contingenza. Esatto. Quel decreto lo scrissi io. E quando la sintesi di governo venne trovata, rimasi l’intera notte a fare la spola tra i tre piani di palazzo Chigi dove venne materialmente redatto. Toccava chiuderlo entro l’alba, pena l’inefficacia. Altrimenti l’Italia, mi creda, sarebbe finita a rotoli.
A differenza di De Michelis lei ha sempre condotto una vita monastica. Esagerato. Direi riservata. Vado a letto presto e non ho mai frequentato discoteche. Ho imparato da mio padre il senso del dovere: al secondo giorno di vacanza già mi sento in colpa.
Crollato il Psi, una vacanza ha dovuto prenderla per forza. Più semplicemente, sono tornato all’insegnamento, che peraltro non avevo mai lasciato. Poi ho conosciuto Silvio Berlusconi all’Aspen Institute, dove capitava spesso come mio vicino di banco. Ciononostante, a chiedermi di entrare in FI è stato Marco Taradash nel mettere assieme la squadra dei «professori azzurri», con Lucio Colletti, Marcello Pera, Piero Melograni, Vittorio Mathieu, Antonio Marzano, Saverio Vertone.
Ed ecco avanzare la sua quarta vita. Lei, però, a differenza degli altri intellettuali, trova subito una incredibile empatia con l’allora Cavaliere.
Divento il suo «professore» di economia. Con grande umiltà e serietà, Berlusconi segue queste mie conversazioni private anche oltre l’orario previsto. Poi, nel 1999, mi chiede di candidarmi alle Europee. E dico di sì, contro l’opinione di tutti nel partito veneto. E perché mai?
Ero un corpo estraneo. Allora come ora non ho correnti, clientele, capataz da assecondare. Credo che Berlusconi sopporti le mie durezze caratteriali proprio perché non ho secondi fini nel fare politica. Tuttavia, nel 2008 deve «accontentarsi» di fare il ministro per la Funzione pubblica. E siamo alla quinta vita...
Per me è stato un onore fare il ministro. Però, complice la Lega, il veto su dicasteri più importanti lo mette Giulio Tremonti, che non vuole concorrenti. Ma rimane fregato perché il mio ministero diventa presto il più popolare ed efficiente. Lì spunta il contrasto, duro, tra Berlusconi e Tremonti. Contrasto che portò al disastro. Lei ha voluto la sfiducia a Mario Monti. Ho intuito subito il «grande imbroglio» di Giorgio Napolitano, mesi prima che si manifestasse. Poi sì, insieme a Niccolò Ghedini e a Denis Verdini, ho convinto Berlusconi a togliere la fiducia a Monti. E l’esecutivo di Enrico Letta? Pure lì c’è il suo zampino sul ritiro della fiducia? No, però le regalo una notizia: non doveva essere lui il presidente del Consiglio delle larghe intese. Il nome condiviso era quello di Giuliano Amato. Ma saltò e l’errore più grande è stato quello di scegliere per il governo una delegazione del Pdl tutta espressione di Angelino Alfano. Il risultato si è visto. Poi vi innamorate di Renzi...
Ah, no, Renzi seduce Berlusconi, non me: io sono sempre stato contro il premier abusivo. Lei non sa quello che ho dovuto passare nei mesi scorsi, quando attaccavo Renzi molto più di Raffaele Fitto...
Può essere soddisfatto: ha vinto lei.
Ma non festeggio, anzi sono amareggiato. Quanto sangue abbiamo versato per il Nazareno: straordinaria intuizione che avrebbe potuto segnare una nuova fase della vita politica, con il riconoscimento reciproco tra centrodestra e centrosinistra. Renzi, per pure ragioni di bottega, ha buttato tutto all’aria.
Senta Brunetta, la sua sesta vita riguarda l’arte e la cultura. Ma la sua guida della Fondazione Ravello è contestata. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e ho finito in bellezza.
Mi indichi un’altra vita, per raggiungere quelle dei gatti ne manca una... Quella dello scrittore. La mia collana Manuali di conversazione politica con Libero e Giornale ha tirato e venduto milioni di copie e rappresenta il più grande fenomeno editoriale di divulgazione politica degli ultimi 50 anni. Ma siccome sono libri presunti di «destra» nessuno lo riconosce. Però forse le mancano le due vite che più l’avrebbero gratificata. E cioè? Lei non è mai stato sindaco di Venezia. Mi mancava un qualcosa che si è manifestato successivamente. Io ho combattuto lealmente. E mi hanno fatto perdere.
Si riferisce alle inchieste giudiziarie che coinvolgono anche il Pd? Non devo aggiungere altro. Le manca anche la nomina a ministro del Lavoro.
Dovevo esserlo nel 1996, con il governo Maccanico. Ero già nella lista ma il suo tentativo fallì. Nel 2001 il veto lo mise il solito Tremonti.
L’ottava vita, il coronamento del suo percorso... Bastano quelle che ho avuto. E rappresentano un ritorno al futuro: l’università. A questo punto l’intervista è chiusa. Il capogruppo si rilassa, lasciandosi andare alle emozioni; a Titti, sua moglie; alla scorta che lo segue dal 1983; ai ricordi dell’amato padre e della madre. Reclama che restino riservati, questi appunti, e così dev’essere quando si chiede di tacere sulle intimità. Non capita per caso, però, che alla fine di tanto trasporto, segnato persino da qualche luccicone, esploda uguale e contraria la rabbia contro quelli che Brunetta chiama «i razzisti»: «Dopo quelli di Dario Fo, Massimo D’Alema e Gino Strada, tempo fa mi è capitato un altro ignobile episodio di razzismo. Ero stato invitato a una battuta di caccia al cinghiale. Non mi era mai successo. Caffè in cascina, odori di bosco e di cani, felicità. Un ospite, molto noto e molto ricco, dietro di me e davanti a mia moglie, mi insolentisce per la ragione che anche lei sta pensando (è legato alla sua statura, ndr). E alle proteste cortesi di Titti, se ne vanta, esibendo sprezzatura blasé. Sprezzatura un cavolo. “O io o lui, due qui siamo di troppo” dico al padrone di casa. Il quale preferiva glissassi, come pare si usi in quelle classi alte. Come finì? Ovvio. Me ne andai. Gente che vince premi Nobel, guida governi e cura persone... Si dovrebbero tutti vergognare. Si credono nobili e invece sono poveracci razzisti. È indecente, è davvero indecente».