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 2015  febbraio 26 Giovedì calendario

ILARIA ALPI


QUANDO: 20 marzo 1994.
DOVE: Mogadiscio, Somalia.
VITTIMA: Ilaria Alpi, 33 anni. Viene uccisa a sangue freddo, con un colpo di pistola alla testa, assieme all’operatore Miran Hrovatin. Nel 1990 entra alla Rai, poi diventa inviata di guerra per il Tg3.
MOVENTE: I due giornalisti sono in Somalia, ufficialmente per seguire la partenza del nostro contingente.
In realtà la Alpi sta indagando su un traffico d’armi, rifiuti tossici illegali e su operazioni di “mala cooperazione”, che pare coinvolgano anche l’esercito e altre istituzioni italiane.
IL CASO È: ufficialmente aperto; indagini e accertamenti sono ancora in corso. Ultimo aggiornamento, per ora, è la relazione del presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta, Carlo Taormina, che risale al febbraio 2006. Il passaggio chiave è il seguente: «Passarono una settimana di vacanze conclusasi tragicamente, senza ragioni che non fossero quelle di un atto delinquenziale comune».
La minoranza di centrosinistra che faceva parte della Commissione, istituita dal governo di centrodestra, contestò con forza questa conclusione.
Il Parlamento eletto nell’aprile 2006 ha in programma di nominare una nuova Commissione d’inchiesta.


VELENI E SICARI D’AFRICA–
Vittorio Zincone – L’Europeo 2006 n. 4

C’è chi sostiene che sia morta per caso e chi è convinto che sia stata uccisa perché sapeva troppo sulla “mala cooperazione” italo-somala, sul traffico d’armi e sullo smaltimento di rifiuti ultratossici. C’è chi parla di primo terrorismo islamico. E chi dice che ha perso la vita perché indagava sulle violenze dei soldati italiani in missione nel Corno d’Africa. Di sicuro c’è che Ilaria Alpi, giornalista Rai del Tg3, è stata ammazzata il 20 marzo 1994. Con una pallottola in testa. La stessa fine dell’operatore Miran Hrovatin che era con lei quel giorno. Su una jeep bianca, in una strada polverosa di Mogadiscio, a pochi metri dall’hotel Amana.
Per il resto, ogni volta che si parla dell’uccisione di Ilaria Alpi si assiste a un macabro confronto tra versioni dei fatti spesso inconciliabili. Chi voleva morta la giornalista? E perché? La cronaca degli ultimi 12 anni, in cui si è cercato di rispondere a queste domande, spesso è diventata grottesca e talmente aggrovigliata da richiedere un piccolo atto di fede per arrivare alla fine con qualche certezza. Dentro ci si trova di tutto: block-notes che scompaiono e ricompaiono; testimoni distratti che, interrogati, non riconoscono se stessi nei video; proiettili vaganti e periti traballanti; gare di pesca su navi militari. Ci si trova pure la beffa delle beffe: a quasi un anno dall’omicidio, nel gennaio del 1995, l’unica persona sotto processo era la madre di Ilaria, querelata per aver dato del bugiardo a un generale reticente.
Basterebbe tutto questo a rendere “eccezionale” un delitto che qualcuno potrebbe considerare normale. Di inviati di guerra morti ammazzati ce ne sono decine. Ma nel caso Alpi c’è qualcosa di più. Si può anche credere che quella di Ilaria non sia stata un’esecuzione causata dai reportage che stava girando la giornalista. Si può pure constatare che la Somalia nel 1994, come nel 2006, è una terra di nessuno dove si muore per strada colpiti da un proiettile vagante senza una ragione apparente (basta guardare le recenti immagini della morte del giornalista e cameraman svedese Martin Adler per rendersene conto). Ma non si può negare che indagando sull’assassinio della giornalista siano stati svelati tali e tanti imbrogli che riguardano il traffico d’armi e l’uso del territorio africano come pattumiera occidentale, da rendere questa vicenda qualcosa di più di un semplice omicidio.

L’ULTIMA TELEFONATA
Partiamo da quel pomeriggio del 20 marzo. Da quando Ilaria, appena rientrata da una trasferta nella zona nord della Somalia, dalla sua stanza nell’hotel Al Sahafi chiama la madre Luciana. Le comunica che vorrebbe rimanere lì qualche altro giorno, malgrado il contingente italiano stia smobilitando da Mogadiscio perché la missione di pace è fallita e il Paese è nelle mani dei signori della guerra. Dopo la telefonata, la giornalista decide di passare all’hotel Amana, per parlare con Remigio Benni, un collega italiano dell’agenzia Ansa. Con lei sul Toyota pick-up a doppia cabina ci sono Miran Hrovatin, un autista e una guardia del corpo armata di kalashnikov. Arrivati a destinazione, Ilaria e Miran scendono dalla macchina ed entrano nell’hotel, ma, non trovando nessun collega, risalgono sulla vettura. Miran si siede accanto all’autista, Ilaria si mette sul sedile posteriore, mentre la guardia del corpo resta nella parte scoperta del pick-up, sul vano da carico. Nel piazzale di terra battuta sembra tutto tranquillo. In un angolo c’è una venditrice di tè che intrattiene un gruppo di uomini armati. Sono sette. Uno indossa la divisa della polizia somala. Quando vedono la macchina dei giornalisti partire, all’improvviso i sette lasciano le loro bevande, salgono su una Land Rover blu e con questa affiancano il pick-up. Lo fanno fermare. L’autista di Ilaria comincia una manovra di fuga in retromarcia che si spegne contro un muretto. Dalla Land Rover scendono due persone. Un minuto dopo Ilaria e Miran sono morti.
Che cosa è successo in quel minuto? La domanda potrebbe sembrare inutile se non fosse che di tutti i testimoni ascoltati negli ultimi 12 anni non ce ne sono due che dicano la stessa cosa. La prima versione che viene battuta dall’Ansa poche ore dopo l’omicidio è che si è trattato di un’esecuzione. I due somali si sarebbero avvicinati ai giornalisti e gli avrebbero sparato alla testa senza che nessuno facesse resistenza. Ma c’è anche chi sostiene, al contrario, che l’uomo di scorta abbia sparato per primo e che i due uomini scesi dalla Land Rover abbiano solo risposto al fuoco. Da lontano. Altri ancora confermano che i killer hanno colpito da almeno cinque metri, ma sostengono che siano stati loro a cominciare.
Dietro a ognuna delle versioni si nasconde un motivo diverso per uccidere e per morire: un’esecuzione mirata vorrebbe dire che era proprio Ilaria il bersaglio. Quindi si potrebbe dedurre che il mandante dell’omicidio fosse qualcuno su cui la cronista stava indagando. Una sparatoria confusa causata da una guardia del corpo troppo zelante, invece, potrebbe dimostrare che i sette della Land Rover volevano solo rapire gli “stranieri” e che hanno sparato per reazione. Una mitragliata contro una macchina con a bordo due giornalisti usciti dall’hotel Amana, poi, potrebbe far pensare a una vendetta generica contro due italiani, visto che l’albergo era frequentato soprattutto da nostri connazionali. Le varie perizie e contro-perizie balistiche che si sono accumulate negli anni non hanno dato su questo punto una verità definitiva. L’ultima indagine, svolta da un collegio super qualificato nel gennaio del 1998, basandosi sugli esami del corpo riesumato di Ilaria, ha stabilito che gli assalitori hanno sparato con armi a canna lunga e che i proiettili, nella traiettoria, non hanno incontrato né vetri né pezzi di lamiera. Il che farebbe pensare a un avvicinamento ai finestrini del pick-up proprio per colpire Ilaria e Miran. Di sicuro, per stabilire la verità sarebbe stato utile agli inquirenti avere i referti medici e le foto scattate ai cadaveri sulla nave Garibaldi. Ancora meglio sarebbe stato avere a disposizione il Body Anatomy Report effettuato a Mogadiscio da una compagnia mortuaria privata. Ma tutti questi pezzi di carta sono scomparsi durante il trasporto dei corpi dalla Somalia all’Italia. Nessuno ha mai stabilito se tali sparizioni siano state il frutto della nostra farraginosa burocrazia o quello del depistaggio. Fatto sta che questi documenti non esistono più. In compenso si è aperta una specie di sagra delle dichiarazioni in libertà. Prima che si esprimesse il “collegio super qualificato” i periti sono riusciti a dire tutto e il contrario di tutto: Ilaria colpita da vicino o da lontano, da un’arma a canna corta oppure a canna lunga. Alcuni militari hanno ipotizzato che sia stato un unico proiettile a centrare prima Miran e poi Ilaria. Il generale Carmine Fiore, che allora era il comandante del contingente militare italiano in Somalia, ha improvvisato una fantasiosa ricostruzione dei soccorsi e per questo si è sentito dare del bugiardo dalla madre di Ilaria in diretta, al Maurizio Costanzo Show.

ERANO NEL POSTO SBAGLIATO
«Si vede che sono stati in certi posti in cui non dovevano andare». È il commento a caldo di Giancarlo Marocchino, autotrasportatore, imprenditore, faccendiere, gestore del piccolo porto di El Man, già indagato dalle forze Onu in Somalia per traffico d’armi e poi scagionato. Nel 1994 Marocchino è un riferimento per tutti gli italiani che arrivano e si fermano a Mogadiscio. È lui il primo ad accorrere sul luogo del delitto. È lui che trasporta i corpi di Ilaria e Miran al Porto Vecchio, dove vengono caricati su un elicottero e portati sulla nave della Marina italiana Garibaldi. Ed è lui che nel corso delle indagini giudiziarie e nelle ricostruzioni giornalistiche, pur non venendo mai coinvolto ufficialmente, viene spesso citato da alcune fonti come uno di quelli a cui le inchieste di Ilaria davano fastidio. Che cosa voleva dire Marocchino con quella frase sui posti in cui i giornalisti non sarebbero dovuti andare? L’uomo d’affari non lo ha mai rivelato. Anzi. Poi ha smentito se stesso dichiarando che secondo lui Ilaria era stata uccisa durante un tentativo di rapimento.
Il generale Carmine Fiore e Luca Rajola Pescarini, all’epoca colonnello dei Servizi segreti dell’esercito, non hanno mai smesso di sostenere che a uccidere Ilaria e Miran siano stati i fondamentalisti islamici. Quelli che oggi, nella Somalia del 2006, hanno un peso rilevante, ma che allora contavano poco. Fiore dirà più volte che questa è una semplice intuizione, ma a riprova della sua tesi ci sarebbe anche il fatto che Ilaria, tra le mete della sua inchiesta giornalistica, avrebbe inserito i campi di addestramento gestiti da Osama Bin Laden nella zona di Chisimaio. Ilaria vittima del terrorismo islamico? Le indagini dei pm che si occupano del caso Alpi-Hrovatin (prima Andrea De Gasperis, poi Giuseppe Pititto e infine Franco Ionta) prendono un’altra rotta e non è un caso che, appena insediata, si occupi dell’omicidio anche la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’attuazione delle politiche di cooperazione con i Paesi in via di sviluppo: Ilaria stava indagando sulla mala cooperazione tra governo italiano e Somalia, si era infilata in un groviglio di indizi che portavano a tangenti milionarie e a opere pubbliche mai realizzate e quindi si pensa che sia morta perché si era impicciata di cose troppo losche. Le indagini procedono in questa direzione. Partendo da un appunto trovato sulla sua scrivania nella redazione Rai di Saxa Rubra. Sul foglietto c’è scritto: “Bosaso, Shifco, 1.400 miliardi (fondi Fai) di lire, dov’è finita questa mole impressionante di denaro?’’. Bosaso è la meta dell’ultimo viaggio di Ilaria. La Shifco è una flotta di pescherecci donati a metà degli anni Ottanta dall’Italia alla Somalia e poi finiti nelle mani di Omar Said Mugne, un uomo d’affari che vive a Sana’a, nello Yemen. I 1.400 miliardi di lire sono gli aiuti che l’Italia ha destinato in quegli anni alla cooperazione per costruire, tra le altre cose, la strada somala che va da Garoe a Bosaso. Strada che Hrovatin filmò durante l’ultima trasferta con la cronista. Ilaria era convinta di seguire una buona pista. Al collega del Tg3 Flavio Fusi, la mattina del 20 marzo disse: «Ho delle cose grosse. Ho un ottimo servizio».
Di che servizio si tratta? Tra i filmati girati da Alpi e Hrovatin, ce n’è uno particolarmente interessante: l’intervista a Abdullah Mussa Bogor, un omone che si autoproclama Sultano di Bosaso e che è soprannominato “King Kong”. Ilaria lo va a trovare proprio a Bosaso, mentre è in corso il sequestro di una delle navi Shifco da parte di un gruppo di miliziani somali. Gli chiede che cosa trasporti quella nave, gli domanda se è possibile salirci sopra. Lui, che sembra essere una sorta di autorità portuale, lancia qualche messaggio, abbozza mezze risposte. Non lo dice, ma fa capire che indagare sulle navi Shifco è pericoloso. Evita persino di dire il nome di una società italiana (la Sec) collegata alla storia di quei pescherecci. A chi lo interrogherà negli anni successivi, King Kong lascerà intendere che quei pescherecci ogni tanto venivano utilizzati per trasportare armi. Sarà vero? Mugne, l’amministratore della flotta, nega e le inchieste che lo riguardano su presunti traffici di armi sono state archiviate dalla procura di Roma. Il Sultano di Bosaso, però, quando una troupe del Tg3 lo va a trovare nell’autunno del 1994, rilascia una dichiarazione che fa riflettere sulle indagini di Ilaria. «Le navi con le armi girano dove c’è una guerra civile», dice. «Sono come pescecani intorno alla loro preda. Nell’Oceano Indiano e nel mare somalo si trovano cargo che hanno il telex e che in 36 ore possono armare un piccolo esercito».

LA SCOMPARSA DEI TACCUINI
Ilaria aveva scoperto che sul peschereccio Shifco sequestrato dai miliziani c’erano armi? Anche in questo caso, come in quello dei referti medici mancanti, ci sono documenti spariti che rendono impossibile una risposta sicura. Nelle interviste girate da Ilaria e visionate dagli inquirenti e dai suoi colleghi del Tg3, non si parla di armi. Ma all’appello mancano un paio di taccuini per gli appunti e delle foto che la cronista aveva scattato a Bosaso. Giovanni Porzio di Panorama e Gabriella Simoni di Canale 5 subito dopo l’omicidio andarono nella camera di Ilaria per raccogliere i suoi effetti. Tra questi c’erano alcuni taccuini che i due giornalisti consegnarono alle autorità investigative e di cui non si ha più traccia. È sparita anche la macchina fotografica di Ilaria che si vede nel video girato dal reporter Carlos Mavroleon sul luogo del delitto, mentre sono in corso i primi soccorsi. Magari le foto non dicevano nulla e i taccuini erano pieni di scarabocchi, ma la loro scomparsa ha autorizzato gli inquirenti e i giornalisti a pensare il contrario. Anche perché, negli anni, si sono fatti avanti molti testimoni (più o meno attendibili). Mohamed Samatar, marinaio somalo conosciuto con il soprannome di “Forchetto”, sostiene proprio che sulla nave 21 ottobre II della flotta Shifco si trasportassero armi. Ma lui non è considerato troppo attendibile perché era stato fatto sbarcare dallo stesso bastimento dopo aver cercato di accoltellare il comandante. Silvano Gasperini, un altro marinaio, dice di aver visto sulle navi Shifco delle casse di legno con scritte in cirillico e da questo avrebbe dedotto che erano armi provenienti dalla ex Unione Sovietica. Biagio D’Aloisi, collega di Gasperini, mette in dubbio la reale natura dei traffici dei pescherecci e testimonia di aver visto militari italiani aggirarsi intorno alle navi della Shifco. Nel frattempo altri due testimoni, Piero Ugolini, funzionario della Cooperazione italiana e Franco Oliva, coordinatore amministrativo dei progetti di cooperazione in Somalia per conto del nostro ministero degli Esteri, hanno scritto un lungo documento sulle malefatte della cooperazione italo-somala, messo agli atti dalla Commissione d’inchiesta. E la Digos di Udine ha raccolto le dichiarazioni di due cittadini somali che in pratica accusano Mugne, Giancarlo Marocchino e Guido Garelli (già inquisito dalla questura di Brindisi per traffico d’armi) di essere in affari per smaltire rifiuti tossici in Somalia attraverso un progetto chiamato “Urano”. Di dimostrabile o di provato però non c’è nulla. Certo, ci sono altre testimonianze sui trasporti di rifiuti tossici e sullo scarico nel mare di fronte a Bosaso di fango nucleare proveniente dalla Russia. Ma hanno poco peso ai fini del processo. Come hanno poco peso sia la dichiarazione di Faduma Mohamed Mamud, figlia dell’ex sindaco di Mogadiscio, chiamata a testimoniare nell’ultima fase del processo, sia le pagine del diario del maresciallo Francesco Aloi, un carabiniere che entra in scena durante le indagini della Commissione Gallo sulle violenze dei militari italiani in Somalia. Entrambi collegano il lavoro di Ilaria con lo smaltimento di rifiuti tossici. Aloi sostiene di aver parlato con Alpi della sua inchiesta. Scrive che un giorno è andato a trovare Ilaria e che lei gli ha raccontato le ultime novità: la scoperta di un traffico d’armi che dall’Est giungono al Nord della Somalia, passando per l’Italia. Le armi sarebbero servite anche per pagare ai signori della guerra locali il territorio dove scaricare rifiuti tossici.

UN NESSO DA PROVARE
È questo l’intreccio su cui stava indagando Ilaria? Luciano Scalettari (coautore con Barbara Carazzolo e Alberto Chiara di Ilaria Alpi, un omicidio al crocevia dei traffici) è convinto di sì. Lui stesso è impegnato perché vengano scoperte le discariche sulla cosiddetta via dei pozzi, la strada costruita con i soldi della mala cooperazione che tocca anche Bosaso. Ma Scalettari è anche consapevole che non ci siano prove certe del collegamento tra le malefatte che devastano il territorio somalo da più di vent’anni e l’assassinio di Ilaria. Ne è sicuro Carlo Taormina, presidente di quella Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte dei cronisti italiani che ha chiuso da poco i suoi lavori. Lui dichiara addirittura che negli ultimi dieci anni si è formato una specie di pool di giornalisti e giudici (di cui farebbe parte lo stesso Scalettari, nonché Maurizio Torrealta, cronista del Tg3 e autore del libro L ‘esecuzione), che si è impegnato per depistare le indagini e disinformare i cittadini sulle circostanze in cui morì Ilaria. Non solo. Taormina sostiene che l’omicidio fu un incidente provocato dall’uomo di scorta che aprì il fuoco troppo presto. E non crede affatto che tra i colpevoli ci sia Hashi Omar Hassan, detto “Faudo”, il somalo che sta scontando una pena di 26 anni di reclusione per concorso in omicidio. Già, perché tra un’inchiesta e l’altra, alla fine la giustizia italiana è riuscita a condannare qualcuno. E questa persona non ha nulla a che fare con quel che abbiamo detto fin qui. Gli inquirenti sono arrivati a lui per caso. O meglio per iniziativa dell’ambasciatore Giuseppe Cassini, responsabile a Mogadiscio di una delegazione di somali che doveva arrivare in Italia allo scopo di chiedere un risarcimento per le violenze subite da parte dei nostri militari. Cassini, tramite un suo informatore spontaneo (Ahmed Ali Rage, detto “Gelle”), qualche anno fa è riuscito a individuare uno degli uomini del commando che ha ucciso Ilaria (Faudo, appunto) e gli ha chiesto, senza spiegare il motivo reale del viaggio, di partire con gli altri per Roma.
Faudo, che secondo la sua stessa testimonianza, è stato vittima di violenze da parte di militari italiani (lo avrebbero picchiato e gettato in mare con mani e piedi legati), ha accettato. Ed è stato arrestato appena atterrato a Fiumicino. A incastrarlo c’è la deposizione dell’autista di Ilaria, Said Ali Abdi, che lo ha riconosciuto dopo un interrogatorio durato dieci ore. Il movente? L’odio per gli italiani, che avevano torturato lui e molti altri somali. Secondo la sentenza che condanna Faudo, quindi, Ilaria è morta perché stava lì ed era italiana. La compravendita di armi o lo smaltimento dei rifiuti tossici di cui Alpi e Hrovatin si stavano occupando, non sono collegati alla loro uccisione. Possibile? Forse sì. Ma ciò non toglie che esiste l’intreccio criminoso tra mala cooperazione, trafficanti di armi e traffichini che smaltiscono materiali radioattivi.