Notizie tratte da: Claudia Roth Pierpont # Roth scatenato. Uno scrittore e i suoi libri # Einaudi 2015 # pp. 417, 22 euro., 26 febbraio 2015
Notizie tratte da: Claudia Roth Pierpont, Roth scatenato. Uno scrittore e i suoi libri, Einaudi 2015, pp
Notizie tratte da: Claudia Roth Pierpont, Roth scatenato. Uno scrittore e i suoi libri, Einaudi 2015, pp. 417, 22 euro.
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• «Nonostante il mio cognome, non intrattengo alcuna relazione di parentela con il mio illustre soggetto. Una volta, questo sì, durante una cena con un gruppo di amici qualcuno chiese appunto se non fossimo in qualche modo legati, e Roth si girò a guardarmi in preda a vago orrore e a tremebonda agnizione: “Siamo stati sposati?!”. Fortunatamente, dopo un attimo di riflessione capimmo che non era così» (nota dell’autrice, Claudia Roth Pierpont).
• «Credo che dovremmo leggere solo quei libri che ci mordono e ci pungono. Se il libro che stiamo leggendo non ci scuote con una botta in testa, cosa lo leggiamo a fare?» (da una lettera di Franz Kafka a Oskar Pollak del 1904, citata dal protagonista in Zuckerman scatenato, del 1981).
• Temi affrontati nei libri di Philip Roth: «gli ebrei in America, gli ebrei nella storia, il sesso e l’amore e il sesso senza amore, il bisogno di dare un senso alla vita e il bisogno di cambiamento, genitori e figli, la trappola dell’ego e quella della coscienza, gli ideali americani, il tradimento americano degli ideali americani, le proteste degli anni Sessanta, la presidenza Nixon, l’era Clinton, Israele, i misteri dell’identità, il corpo umano nella sua bellezza e il corpo umano nella malattia che corrompe, le devastazioni della vecchiaia, l’approssimarsi della morte, la forza e il venir meno della memoria».
• «Roth ha spesso precisato di avere vissuto un’infanzia tipicamente americana e di essere cresciuto a Newark negli anni Trenta e Quaranta – è nato il 19 marzo 1933, proprio mentre Franklin Roosevelt diventava presidente – facendo i compiti, ascoltando la radio e giocando a baseball come tutti gli altri bambini. I nonni erano arrivati a fine Ottocento con la grande ondata migratoria degli ebrei di Russia e della Galizia polacca, e lui aveva preso il nome da quello materno, che aveva convertito l’ebraico Feivel in Philip ed era morto prima della sua nascita».
• «I genitori, Herman e Bess Roth, erano entrambi nati e cresciuti nel New Jersey: “Americani dal giorno uno”, dice. Ma, come molti della loro generazione, per i figli funzionarono un po’ come un cuscinetto tra il Vecchio e il Nuovo Mondo. Frequentavano la sinagoga solo nei giorni solenni tra Rosh haShana e Yom Kippur, e a quanto pare soprattutto per compiacere gli anziani. Quasi solo per la stessa ragione sua madre cucinava kasher, spiega Roth, altrimenti come avrebbe potuto invitare le nonne a pranzo?»
• «Herman Roth aveva la terza media e provvedeva alla famiglia grazie al duro lavoro e a una perseveranza cocciuta che influenzarono il figlio minore persino nel travaglio dell’adolescenza, con il suo tipico misto di pathos ed eroismo. Venditore di polizze per la Metropolitan Life, come da tradizione e da contingentamenti ufficiosi ma apertamente praticati, raggiunse la posizione aziendale più elevata consentita in quegli anni a un ebreo».
• «Ricorda distintamente che aveva otto anni il giorno in cui, mentre era fuori a giocare, la notizia di Pearl Harbor interruppe la telecronaca di una partita di football Dodgers-Giants. In casa Roth la radio era accesa e i genitori lo chiamarono dalla finestra e gli dissero di salire, per poi spiegargli che cosa era successo e che cosa significava la guerra per la nazione. Fu il primo vero momento di rottura nella sua vita, dopo il quale tutti i ricordi si fanno più nitidi».
• «Per tre lunghi anni Philip fu mandato alla scuola ebraica tre pomeriggi la settimana, e tutte quelle preziose ore sprecate in una stanza soffocante sopra la sinagoga anziché passate a centrocampo non gli sono mai andate giù».
• «La sua prima passione da lettore furono le avventure di mare, e a undici anni aveva già deciso sotto quale pseudonimo avrebbe scritto: Eric Duncan (“Non resistevo alle ‘c’ dure”). Arrivò a battere a macchina su un foglio il titolo di un’avventura di sua invenzione, Storm Off Hatteras (La tempesta di Hatteras), senza peraltro darsi la pena di proseguire. Voleva solo vedere che cosa si provava a fare lo scrittore».
• Iscrittosi per il primo anno di università alla Rutgers di Newark a causa delle ristrettezze economiche familiari, presto finì comunque per allontanarsi da casa. «Vivere in quei cinque locali sotto l’occhio vigile del padre gli era diventato penosamente soffocante. Nel corso del liceo fra loro si era sviluppato un forte attrito: Herman Roth nutriva certezze a dir poco granitiche su come bisognasse fare le cose e il suo grido di battaglia era “È tutto sbagliato!” (Del resto sua madre, quando il figlio minore fu abbastanza cresciuto da far colpo su di lei, e addirittura da intimidirla, si rivelò altrettanto incline a dirgli: “Qualunque cosa tu pensi, è giusta”). Imparare a guidare con il padre fu, mi racconta, “una specie di battaglia di Iwo Jima”; alla fine, per il quieto vivere, si iscrisse a una scuola guida».
• «Per il secondo anno fece quindi domanda di trasferimento e, grazie alla promozione lavorativa del padre, poté spostarsi alla Bucknell University, nella Pennsylvania rurale, a sette ore di sana distanza. (…) Quel college fondato da battisti e piazzato in mezzo ai campi di mais gli sembrava perfetto anche per soddisfare il crescente desiderio di conoscere la vera “America”, il paese non-etnico dei non-immigrati dei film e dei libri, e in particolare del suo idolo letterario del momento, Thomas Wolfe. Era stata proprio la tensione lirica di Angelo, guarda il passato e di altri romanzi di Wolfe – quando partì per la Bucknell, Roth li aveva già letti tutti – ad allontanarlo dal proposito di studiare legge e a rinsaldare il suo legame con la letteratura».
• «Alla Bucknell sperava dunque di trovare qualcosa del genere: la vita di provincia, case coperte di edera, una biblioteca con un campanile bianco e uno scampanio da carillon. Le confraternite (anche se lui entrò nell’unica associazione ebraica, e dopo poco più di un anno ne uscì). La frequenza obbligatoria alla funzione religiosa (anche se lui sotto il banco leggeva Schopenhauer). Roth poteva insomma avere avuto un’infanzia tipicamente americana, ma a Newark gli era sorto il sospetto di non aver mai conosciuto nessun americano vero».
• Altra lettura fondamentale per il giovane Roth furono, ai tempi della Bucknell, Le avventure di Augie March di Saul Bellow. «Sulle prime, più che entusiasmarlo il romanzo lo sconcertò: “Non sapevo dove piazzarlo. Era così nuovo. Fu una tremenda invasione nella mia preparazione accademica, e in quella di tutti, e proprio lì stava il punto”. Rilesse il romanzo di Bellow durante il primo anno di specialistica all’Università di Chicago, dove sul piano intellettuale si respirava un’aria radicalmente diversa, e all’improvviso i suoi occhi si spalancarono e capì quale genere di letteratura poteva produrre uno scrittore ebreo parlando degli ebrei: una letteratura moderna, attenta, piena di vita. Quasi una lezione pratica, Augie March insegnava dunque a un giovane autore che “in un libro potevi metterci tutto, compreso il pensare”».
• «Bellow fu il grande liberatore dai tradizionali limiti letterari sugli ebrei (“Sono americano, nato a Chicago” è il famoso incipit di Augie) e ben presto alla sua lettura Roth fece seguire quella di Bernard Malamud, autore non così apertamente ribelle. (…) La lezione più preziosa che questi due grandi scrittori gli insegnarono è che i loro racconti di vita famigliare a Chicago e a Brooklyn funzionavano “tanto quanto la Parigi di Hemingway o la Long Island di Fitzgerald”, e che l’esperienza degli ebrei poteva trasformarsi in letteratura americana».
• «Anche la sua voce cominciò dunque a farsi sentire, non appena decise di parlare di ciò che conosceva meglio: La conversione degli ebrei e Epstein videro la luce nel corso di un anno di leva iniziato nell’autunno del 1955, quando lui ne aveva ventidue. Conseguita la laurea a Chicago aveva infatti deciso di presentarsi spontaneamente anziché stare ad aspettare la cartolina di chiamata, ma il servizio militare fu abbreviato a causa di un trauma che riportò alla schiena durante il corso di addestramento di base a Fort Dix. (…) I racconti con cui tornò a casa lo rivelano dotato di un orecchio notevole per l’eloquio della gente comune, nonché di una nuova disponibilità ad ascoltarlo e dargli seguito. Epstein si rifaceva a un vecchio scandalo di quartiere di cui suo padre aveva parlato una sera a cena. La conversione degli ebrei si basava invece su una storia sentita da Arthur Geffen, giovane amico scrittore di Chicago: quella di un ragazzino che aveva minacciato di buttarsi dal tetto di una sinagoga mentre da sotto il rabbino lo supplicava di non farlo».
• Nel marzo del 1959 Roth vide per la prima volta un suo racconto, Difensore della fede («la prima cosa buona che abbia mai scritto», dice oggi), pubblicato su una rivista tanto prestigiosa quanto diffusa, il «New Yorker». «Il giorno in cui doveva uscire il “New Yorker”, ricorda, aveva fatto “almeno sei volte” avanti e indietro dalla sua abitazione sulla Decima Est al giornalaio sulla Quattordicesima, finché grazie al cielo la rivista era arrivata e lui se l’era portata a casa per “leggerla dall’inizio alla fine e dalla fine all’inizio, e poi ancora capovolta: non riuscivo a metterla giù”».
• Il suo primo successo, Goodbye, Columbus, nacque nel 1957 alla University Tavern, un bar di Chicago. «Roth ci era andato in compagnia di Richard Stern e gli stava raccontando di una famiglia del New Jersey, ebrei da country club con la cui figlia Maxine, una splendida rossa, aveva avuto una storia dopo la laurea alla Bucknell, una relazione stabile anche se in parte condotta a distanza; in particolare, si era dilungato su alcune settimane di permanenza estiva nella loro grande casa di periferia. Ricorda che l’amico gli chiese che cosa avesse intenzione di fare “di quella roba” e che lui non capì la domanda; Stern allora gli disse di andare a casa e mettersi a scrivere. (…) “Non mi era nemmeno passato per la testa, – ebbe a dichiarare molto tempo dopo, – che quella era tutta roba mia”. Per quanto scettico, accettò comunque di provare. Scrisse un pezzo della storia e lo mostrò a Stern, che ne volle ancora. Allora ne scrisse un altro, e di nuovo non era abbastanza. A quel punto ci mise un attimo a finire l’intero racconto».
• Pubblicato nel 1959, «nel 1960 Goodbye, Columbus vinse il National Book Award, risultato eccezionale per un’opera prima di racconti firmati da un autore ventisettenne. Ma ottenne anche l’imprimatur delle “quattro tigri della letteratura ebraico-americana”, come Roth definisce Saul Bellow, Alfred Kazin, Irving Howe e Leslie Fiedler, i quali riconobbero in lui una voce forte e una prospettiva fresca, un proseguimento naturale nella saga degli ebrei americani di cui essi stessi facevano parte».
• Nel febbraio del 1959, agli albori del successo, Roth si sposò a New York con Margaret Martinson Williams, «apponendo così sul suo trionfo giovanile quello che sembrava un vero e proprio sigillo. Maggie incarnava sotto ogni aspetto il suo sogno americano. Protestante, cresciuta in una piccola città del Midwest, occhi azzurri e biondissima, era, come Roth scrisse in seguito, la “vivida incarnazione del radicamento nordico americano”, vale a dire tutto ciò che lui si era messo a cercare andandosene da casa». Purtroppo, però, Maggie era anche molto altro. Anzi, «il fascino tutto particolare di Maggie sembrava provenire proprio dalle crepe nel dipinto».
• Di quattro anni più grande, figlia di un alcolista all’epoca in carcere per furto, quando Roth la conobbe Maggie era «una donna divorziata al cui ex marito era stata affidata la custodia dei figli, e da poco aveva lasciato il lavoro di cameriera nel diner in cui Roth l’aveva notata la prima volta per un posto in ufficio nella stessa università in cui lui si dava da fare a correggere compiti e a leggere Henry James. Maggie viveva fuori dai libri. Per dirla con le parole di un personaggio di Lasciarsi andare, a Roth sembrava “tanto più […] in contatto con le realtà della vita” di quanto lui avrebbe mai potuto arrivare a essere. Nemmeno l’esercito gli aveva mai offerto niente di paragonabile in termini di esperienza».
• «Quando in seguito, guardandosi indietro, arrivò a considerare se stesso solo un ingenuo di indole letteraria, capì che in quel periodo era stato determinato a vivere “con la V maiuscola”. Abituato da tempo a gestire con facilità le sfide che gli si paravano di fronte, era in cerca di “qualcosa di difficile e pericoloso”, ed ecco che con Maggie l’aveva trovato. Quello tra Philip Roth e Maggie Williams potrebbe essere definito il matrimonio letterario più devastante, doloroso e duraturo dal punto di vista degli effetti dopo quello tra Scott e Zelda».
• Nell’autunno del 1958, rimasta senza lavoro e senza casa, Maggie si presentò alla porta di Roth, a New York, e lui accettò di ospitarla. «Nel rendere conto degli eventi che tre mesi dopo il trasferimento di Maggie portarono al matrimonio, Roth ricorre a una frase di passiva laconicità: “Rimase incinta”. Ammette che, effettivamente, nell’oscurità c’erano stati alcuni approcci, privi d’affetto e quasi impersonali, e tuttavia all’inizio aveva pensato che lei stesse mentendo. Maggie (…) però portò un campione di urina in farmacia e il test risultò positivo. (A ritirare l’esito andò Roth in persona, ed era talmente incredulo che chiese al farmacista: “Il risultato positivo è che non è incinta o che lo è?”) Se non avesse acconsentito a sposarla, Maggie disse che avrebbe abbandonato il nascituro davanti alla porta dei suoi, e credere a quella minaccia non gli costò alcuna fatica. Così, appena venticinquenne e a stento in grado di mantenere se stesso, le fece subito una controfferta tanto sgradevole quanto forse scontata: l’avrebbe sposata se lei avesse acconsentito ad abortire immediatamente. E lei abortì, o così disse di avere fatto con i trecento dollari prelevati dal suo conto corrente, che ebbe a risentirne non poco. Dopo, tornò a casa angosciata e dolorante per colpa di ciò che lui l’aveva costretta a subire, il che potrebbe forse in parte spiegare come mai, del tutto inopinatamente, Roth decise di tenere fede alla parola data. E così il 22 febbraio 1959 si sposarono. Stesso anniversario di matrimonio dei suoi».
• «Forse all’epoca non si rese ben conto del motivo per cui rimase, e benché sia trascorso molto tempo nemmeno oggi va fiero della debolezza che la sua disponibilità a lasciarsi manipolare tradiva. Era sempre stato un ragazzo ebreo di una bontà imbarazzante, in preda alla “paura di apparire senza cuore”, soggetto a “una schiacciante e quasi insensata responsabilità”, come scrisse nei Fatti – o, per usare un linguaggio più diretto, “un deficiente”».
• «Sono bassi e bruttini, ma con le mogli e i figli si comportano bene» (il responso della nonna di Maggie, quando la nipote le comunicò di voler sposare un ebreo).
• «“Le scenate che improvvisava! La vera e propria iperbole di ciò che immaginava! L’autosuggestione che emanavano i suoi inganni!” Spogliandolo di tutte le sue certezze e illusioni giovanili, Maggie si rivelò “nientemeno che l’insegnante di creative writing più grande di tutti”, conclude Roth, la forza che lo liberò dalla noiosa innocenza dei suoi primi racconti e dall’elegante probità di Henry James».
• Un pomeriggio del gennaio 1962, dopo un litigio particolarmente violento, Maggie tentò il suicidio. «Aveva buttato giù un cocktail di pastiglie e whiskey ed era svenuta. Lui la portò in bagno e la fece vomitare, e proprio in quel frangente, ancora mezzo intontita, lei gli disse: “A New York non ero incinta”. E la cosa non finiva lì. Per ottenere un risultato positivo al test di gravidanza aveva usato un campione di urina comprato da una tizia incinta che bazzicava i disperati del Tompkins Square Park, a pochi isolati di distanza dall’appartamento di Roth. Non c’era quindi stato nessun aborto: quel giorno era solo andata al cinema, aveva visto un paio di volte Non voglio morire!, con Susan Hayward, e poi era tornata a casa piangendo per la sofferenza e l’umiliazione. Tutte cose che confessò perché voleva togliersi un peso prima di morire». Lei sopravvisse, il matrimonio no.
• Quando riuscì finalmente ad allontanarsi da Maggie, Roth «aveva solo trent’anni e tutta la vita davanti, ed essendo il romanziere che è si ritrovò nella condizione di dedicare tutto il suo tempo libero a cercare di immaginare in che modo Maggie fosse diventata tutto quel che era: disperata, rabbiosa, spaventosa, tragica. Per il suo prossimo libro, naturalmente. (…) A Quando lei era buona occorse un lustro per vedere la luce, e per Roth fu la pausa creativa più lunga – dal 1962 al 1967 – in cinquanta e passa anni di attività. Per un po’ non riuscì a scrivere nella maniera più assoluta, bloccato com’era da quella che chiama la “paralisi immaginativa” dovuta ai problemi con Maggie».
• Ispirato alle vicende dell’infanzia di Maggie, Quando lei era buona (1967) è «un’opera ossessiva, profondamente personale ma rigorosamente disciplinata, sulla devastazione interiore della donna che era stata sul punto di devastare lui. L’eroina, Lucy Nelson, è un’ambiziosa ragazza di provincia che sogna una vita più grande e migliore, ma che strada facendo finisce per deragliare in modo orribile. Un padre alcolista, una madre debole e impotente, un ragazzo maldestro che a diciott’anni la mette incinta e, peggio ancora, la sposa: per lei sono loro i responsabili della miseria e del deludente fallimento della sua vita. E in parte ha ragione. (…) Sempre più isolata, rancorosa e arrabbiata, Lucy è un incubo e insieme un’opera d’arte, un personaggio dalle risorse immense ma corrotte».
• «All’inizio del 1963 Roth ottenne la separazione legale, ma solo a condizione di corrisponderle centocinquanta dollari di alimenti settimanali, pari a circa metà del suo reddito annuale: l’accordo sarebbe valso fino al giorno in cui lei avesse deciso di risposarsi o, cosa più probabile visto l’andazzo, vita natural durante. (…) Roth ricorda ancora che, in sede di separazione, il giudice gli chiese per due volte quanto tempo ci metteva a scrivere un libro, e che lui gli rispose “Due o tre anni”. Il giudice, allora, ribatté: “Non può scrivere più in fretta?”». Nel 1968 comunque Maggie morì, in un incidente automobilistico a Central Park.
• «Verso la fine del 1964 per un brevissimo periodo Roth uscì con Jackie Kennedy. Si conobbero a un party, dove parlarono a lungo (“una donna intelligente”), ma lui era troppo intimidito – e, aggiunge, non aveva il guardaroba giusto – per sostenere una relazione del genere. Quando lei gli chiese di accompagnarla a un’altra cena, uscì a comprarsi un vestito nuovo e un paio di scarpe nere. (“Ero nervoso. Io sono mancino, a tavola si serve da destra: e se le rovesciavo addosso qualcosa?”). Ricorda che, mentre la riaccompagnava a casa a bordo della lunga limousine nera con l’agente dei servizi segreti seduto davanti – e lui che aveva creduto di doverle chiamare un taxi! –, pensò: “È il caso di baciarla? Conoscendo la storia di Lee Harvey Oswald, sarà il caso di baciarla?”. Poi, arrivati in Fifth Avenue, lei fa: “Le va di salire? Ma certo che sì” – unico segno che lei diede, dice Roth, di sapere bene chi fosse. Di sopra lo informò che i bambini erano a letto. (…) Quando alla fine la baciò, fu come baciare la faccia di una pubblicità. La loro conoscenza non si spinse molto oltre e si videro solo in un altro paio di occasioni, anche se a lui “sarebbe piaciuto moltissimo che diventasse la cointimata nella causa intentatagli da Maggie”».
• Tra il 1962 e il 1967, per riuscire a controllare la rabbia e il risentimento accumulati, Roth frequentò il dottor Hans Kleinschmidt, uno psicanalista ebreo tedesco la cui area di specializzazione era la creatività. «Proprio a lui pare si debba il merito della rottura definitiva con Maggie. (…) Maggie però rimase al centro della sua terapia: soltanto per tirare fuori tutta la rabbia legata all’inganno del campione di urina gli occorsero mesi. Il suo obiettivo, sostiene, era diventare “una persona che non si sarebbe mai più fatta fregare a quel modo”».
• «Furono questi gli anni in cui non riusciva a scrivere, ma da cui alla fine emerse il romanzo sulla vita (e la morte) di Maggie che evidentemente funzionò come una sorta di corollario immaginativo all’analisi. Il processo analitico gli stava però facendo emergere anche nuove idee: sulla libertà e la rottura delle pastoie del bravo-ragazzino-ebreo che lo avevano inchiodato al carro del matrimonio, ma anche le pastoie di certe idee letterarie da cui avevano preso forma Lasciarsi andare e Quando lei era buona». Cominciava allora a prendere forma quello che si sarebbe rivelato il primo grande successo di Roth, forse il maggiore in assoluto: Lamento di Portnoy.
• Pubblicato nel 1969, «Lamento di Portnoy fu un atto sovversivo esemplare in un periodo sovversivo per definizione. (…) Portnoy parlava al rifiuto generazionale di regole insensate rimaste per troppo tempo indiscusse, al ripudio di ogni forma di autorità e, in senso più allargato, alla lotta per la libertà politica e personale. La caduta di Lyndon B. Johnson, la fine della guerra del Vietnam, la sconfitta dell’ipocrisia: il definitivo tramonto degli anni Cinquanta! E tutto attraverso il tredicenne Alexander Portnoy, ragazzino ebreo supercoccolato che si masturba in modo ossessivo dietro la porta del bagno (“Il pisello era l’unica cosa che potevo certamente considerare mia”), o dovunque e comunque lo colpisca l’insopprimibile bisogno. Su un autobus vicino a una ragazza che dormicchia, in una mela privata del torsolo, nel fegato crudo destinato alla cena: la concitata rivelazione della compulsione masturbatoria del protagonista dava al romanzo l’impronta inconfondibile dei tardivi anni Sessanta e una distinta nota oscena, così come, inutile dire, fu all’origine della sua cattiva fama».
• «Nella forza balistica della sua scrittura è proprio Roth a conquistare quella libertà di cui il suo eroe non è capace, e il linguaggio spudorato, che riduce al silenzio ogni tabù, diventa liberatorio sia per l’autore, sia per i lettori. Nell’intervista rilasciata a Web of Stories, Roth ha spiegato il processo di scrittura di quel romanzo come una rivoluzione tutta privata: “Stavo spodestando la mia stessa educazione letteraria. E i miei primi tre libri”, lo sentiamo dire. Ma se da un lato stava dunque spodestando la “serietà letteraria che aveva accompagnato la mia formazione e con cui mi ero lanciato nella scrittura”, dall’altro stava anche trovando un modo per reclamarla. (…) La cornice di una seduta lunga un libro intero, di una vera e propria maratona psicoanalitica seguita ad anni di sedute reali, fu ciò che infine permise a un Roth ormai trentacinquenne di lasciarsi andare. Perché una cornice del genere significava di per sé che nulla doveva restare nascosto».
• «Dottore, questa gente è incredibile! Questa gente è incomprensibile! Questi due sono i più eminenti produttori e confezionatori di colpevolezza dei nostri tempi! Me la fanno colare di dosso come il grasso da un pollo! – Chiamaci, Alex. Vieni a trovarci, Alex. Alex, tienici informati! Per favore, non allontanarti di nuovo senza avvertirci. L’ultima volta che sei partito senza dircelo, tuo padre stava per telefonare alla polizia. Sai quante volte al giorno ha chiamato senza ottenere risposta? Prova a indovinare. – Mamma, – le spiego tra i denti, – se muoio, sentono il puzzo del cadavere entro settantadue ore, te l’assicuro! – Non parlare così! Dio ci scampi! – geme. Oh, e adesso arriva il capolavoro, quello che garantisce il risultato. Del resto cos’altro potrei aspettarmi? Posso domandare l’impossibile a mia madre? – Alex, tirare su il telefono è una cosa così semplice… d’altronde ancora per quanto ti saremo di peso?» (da Lamento di Portnoy, del 1969: resoconto di una recente serata in compagnia dei genitori offerto all’analista dal protagonista Alexander Portnoy, già trentatreenne).
• «Dottor Spielvogel, questa è la mia vita, la mia unica vita, e la sto vivendo da protagonista di una barzelletta ebraica! Io sono il figlio in una barzelletta ebraica… solo che non è affatto una barzelletta! Per pietà, chi ci ha tagliato le gambe così? Chi ci ha resi così fiacchi, isterici e deboli? Perché, perché continuiamo a urlare: “Attento! Non farlo! Alex… no!” e perché, solo nel mio letto di New York, perché continuo a menarmelo senza remissione? Dottore, come si chiama questa mia malattia? È la pena ebraica di cui ho tanto sentito parlare? È l’eredità trasmessami dai pogrom e dalle persecuzioni? dallo scherno e dagli insulti distribuiti dai goyim negli ultimi duemila piacevoli anni? Oh, i miei segreti, la mia vergogna, i miei palpiti, i miei rossori, i miei sudori! Il modo in cui reagisco alle semplici vicissitudini della vita! Dottore, non resisto più a farmi spaventare così per niente! Mi conceda la benedizione della virilità! Mi renda coraggioso! Mi renda forte! Mi renda completo! Basta con il bravo ragazzo ebreo, che onora i genitori in pubblico e si sbatte l’uccello in privato! Basta!» (da Lamento di Portnoy: sfogo del protagonista col suo analista).
• «Nessun’altra madre aveva mai tenuto tanto scrupolosamente d’occhio il figlio ai due estremi del canale alimentare. Se a tavola quando si rifiuta di mangiare lo minaccia con un coltello per il pane, non meno spaventosa incombe da dietro la porta del bagno: “Alex, non voglio che tiri l’acqua. Voglio vedere cosa hai fatto lì”».
• Gli studiosi individuano la prima comparsa dello stereotipo della “yiddishe mame”, la madre ebrea ansiosa e iperprotettiva, «nella commedia teatrale: più specificamente, in una gag che Nichols e May portavano in scena a Broadway nel 1960, dove lo scienziato spaziale impersonato da Mike Nichols viene rimproverato per non aver telefonato alla madre mentre attendeva alle operazioni di decollo. (“Ce n’è sempre una!”, ribatte improvvisando la mamma, Elaine May)».
• «Mi rifiuto categoricamente di firmare un contratto che mi obblighi a dormire con un’unica donna per il resto della vita. Immagini: supponiamo che mi decida a sposare A, con le sue soavi tette eccetera, cosa succederà quando fa la sua comparsa B, le cui tette sono ancora più soavi, o comunque una novità? Oppure C, che muove il culo come non m’era mai capitato prima; o D, o E, o F. Mi sto sforzando di essere onesto con Lei, Dottore, perché con il sesso l’immaginazione umana vola fino a Z, e anche oltre! Tette e fighe e gambe e labbra e bocche e lingue e buchi del culo! Come posso rinunciare alla novità, visto che una ragazza, per quanto deliziosa e provocante sia stata un tempo, mi diventerà inevitabilmente familiare quanto un pezzo di pane? Per amore? Quale amore? Quello che tiene legate tutte le coppie che conosciamo (quelle che si sono date la pena di lasciarsi legare)? Non è piuttosto debolezza? Non è piuttosto convenienza, apatia, senso di colpa? Non è piuttosto paura, estenuazione, inerzia, pura e semplice mancanza di coraggio, molto, molto più dell’“amore” di cui sognano sempre i consulenti matrimoniali, i parolieri e gli psicoterapisti? Per favore, non prendiamoci per il culo con l’“amore” e la sua durevolezza» (da Lamento di Portnoy: sfogo del protagonista col suo analista).
• Maggior successo librario del 1969 con oltre quattrocentomila copie vendute (spodestò dalla vetta della classifica Il padrino di Mario Puzo), «Lamento di Portnoy fece del suo autore un uomo ricco. Nel maggio del 1968 aveva debiti per ottomila dollari: “Me ne stavo seduto nella mia stanza come Solženicyn in cella, – racconta, – a passare i soldi a Maggie e ad arrabbiarmi”. Di colpo in giugno Maggie muore, il suo libro è finito e il fattorino di un editore gli recapita un assegno da duecentocinquantamila dollari».
• «Roth saldò i debiti, acquistò una macchina, si trasferì in un bell’appartamento nell’East Side e offrì ad Ann Mudge [la sua compagna del momento – ndr] un passaggio in prima classe per l’Europa, a bordo del France. Non essendosi comprato vestiti per anni, se ne fece fare diversi da una delle sartorie più eleganti di Londra: Kilgour, French & Stanbury, in Savile Row. L’esperienza si rivelò meno esotica di quanto si fosse aspettato. “Era come stare nel tempio della B’nai Jeshurun, – mi garantisce. – La stoffa sembrava quella dell’arca della Torah, c’era silenzio, la luce entrava dalle finestre sporche e tutti i sarti erano ebrei”. Se ne fece confezionare ancora, altrove, e poi fece le avance alla prima giornalista piacente che gli mandarono per intervistarlo. Mentre Ann si trovava da qualche parte, si intrattenne per un’ora con una squillo in un albergo di Londra. “Ero ebbro, – ricorda, – ebbro di successo, di libertà e di ricchezza”».
• «Ormai era una celebrità, e ancora più famoso diventò quando, appena due mesi dopo la pubblicazione di Portnoy, uscì La ragazza di Tony, versione cinematografica di Goodbye, Columbus. Doppio goal per gli ebrei! La pellicola ebbe enorme successo. (…) Jacqueline Susann, autrice del poco immacolato La valle delle bambole, dichiarò in televisione al Tonight Show che le sarebbe piaciuto incontrare Philip Roth, ma non stringergli la mano. Roth stesso rifiutò di apparire in tivù, preferendo evitare di rendersi più riconoscibile di quanto già non fosse: nella foto di copertina del libro appariva di spalle, ma per strada veniva costantemente avvicinato da persone convinte di conoscerlo intimamente. (“Ehi, Portnoy, dagli tregua!”). Per questo alla fine lasciò la città e si rifugiò a Yaddo, inseguito da voci contrastanti che lo volevano impegnato con Barbra Streisand o internato in un ospedale psichiatrico».
• «Riguardandosi indietro, Roth si domanda come sarebbero andate le cose se non avesse scritto Lamento di Portnoy. È infatti convinto che ancora oggi sia questo libro a determinare nel bene e nel male la sua reputazione di scrittore e di uomo. (…) “Un romanzo in forma di confessione, – scriveva Roth in un saggio del 1974 intitolato Imagining Jews (‘Immaginando gli ebrei’, ma anche ‘Fantasticherie di ebrei’), – è stato accolto e giudicato da moltissimi lettori come una confessione in forma di romanzo”. La naturalezza disinvolta e nient’affatto letteraria della narrazione in prima persona di Roth aveva insomma indotto buona parte del pubblico a pensare che la storia di Portnoy fosse la sua, e ciò nonostante lui avesse detto e ripetuto che si trattava del frutto di una tecnica liberata e complessa, qualcosa di simile allo stile recitativo di Marlon Brando».
• «I Portnoy, però, non erano i suoi genitori. (…) E comunque a farlo impazzire era suo padre, non sua madre; lui era il genitore difficile e dominante, ancorché benintenzionato in maniera straziante. È dall’invadenza paterna che dovette scappare, prima alla Bucknell e poi a Chicago. In confronto a lui sua madre era un essere reticente, il paciere di famiglia quando i due maschi si scornavano. Una vera signora, l’estensore meticoloso di biglietti di ringraziamento, l’ammiratrice appassionata di Eleanor Roosevelt: una donna che nella vita reale Roth critica solo per dire che a volte era “un po’ troppo comme il faut”».
• A essere più critico nei confronti della madre era invece il fratello maggiore di Philip Roth. «Sandy, che non riuscì a intraprendere la carriera artistica che avrebbe voluto, incolpava la madre di averlo tirato su troppo chiuso e titubante, troppo timoroso per imporsi come artista, e continuò a farlo, dice Roth, fino al giorno in cui lei morì. Era insomma il rapporto di Sandy con sua madre quello preso a modello per Portnoy. E se Roth stesso ha mai provato una qualche ambivalenza nei confronti della figura materna, una traccia di rabbia che la psicoanalisi poteva magari aver risvegliato in lui, ormai è acqua passata. E non trascorre giorno senza che ripensi a sua madre, o a qualche sua frase che gli sembra meravigliosa. Non che dicesse cose eccezionali: “Era una madre normalissima, – spiega, – ma anche meravigliosa, tutto qui”».
• «Mentre l’onda lunga delle reazioni a Lamento di Portnoy cominciava a montare, Roth avvertì il bisogno di mettere i genitori al riparo dal pericolo e li mandò a fare una crociera. (…) Rimasero via un mese e in questo modo, come lui aveva previsto, si risparmiarono parte dell’uragano. Suo padre però si era portato dietro un certo numero di copie di Portnoy, e in seguito raccontò che sulla nave andava in giro a chiedere: “Vuole una copia autografa del libro di mio figlio?” Quindi prendeva il libro e ci scriveva sopra di suo pugno: “Dal padre di Philip Roth, Herman Roth”».
• «Ancora oggi non c’è nulla di cui a Roth piaccia parlare di più che di libri: trame, personaggi, lingua, le vecchie edizioni tascabili. Una passione rimasta intatta nel tempo. E ci sono opere che torna periodicamente a ricompulsare: Addio alle armi, di Hemingway, e Mario e il mago, di Thomas Mann (se in punto di morte gli concedessero di riprendere in mano un unico libro, sarebbe quest’ultimo). Ha la fama di regalare agli amici una copia di qualunque cosa stia leggendo, solo per poterne parlare».
• Le vicissitudini matrimoniali dello scrittore con Maggie Williams costituiscono la materia del romanzo La mia vita di uomo, del 1974. «Ecco dunque la storia di Maggie, qui Maureen Tarnopol, che gli prende la macchina per scrivere e di lui che trova la ricevuta del banco dei pegni. Ecco la bugia sulla gravidanza e, finalmente, il campione di urina comprato dietro l’angolo, l’aborto mai avvenuto e il film con Susan Hayward. Ecco, anche, gli alimenti pagati senza la prospettiva di una fine, e lo psicoanalista che attribuisce all’“ansia di castrazione al cospetto di una figura materna fallica” la predisposizione di Tarnopol a contrarre quel genere di unione. (…) Il libro finisce di colpo quando Maureen, come la sua controparte reale, muore in un incidente. Ma nemmeno un epilogo simile riesce a soddisfare Tarnopol. “Perché non esistono il diavolo e la dannazione?”, inveisce il vedovo poco allegro contro il fantasma della moglie. “Oh, se solo io fossi Dante, – impreca, valutando l’ennesima opzione letteraria, – allora sì che saprei come scrivere di te!”».
• «L’epigrafe del libro è una citazione dal diario di Maureen Tarnopol, che il marito, esterrefatto e provato, scopre a uno stadio ormai avanzato del romanzo: “Potrei essere la sua musa, se solo me lo permettesse”. Lei, che faceva di tutto per opporglisi? Per mettergli i bastoni fra le ruote? Il diario riporta poi un’altra affermazione, sicura e circostanziata, sul conto letterario in cui Maureen lo tiene: “Se non fosse per me sarebbe ancora lì a nascondersi dietro il suo Flaubert e non saprebbe riconoscere la vita vera nemmeno trovandosela davanti, – dice. – Di cosa mai pensava che avrebbe scritto, se non conosceva niente e non credeva in niente a parte quello che aveva letto nei libri?” Una linea di pensiero che Roth riprenderà quattordici anni più tardi, quando nei Fatti dichiarerà di essere rimasto con Maggie tutto quel tempo forse perché lei si era rivelata “nientemeno che l’insegnante di creative writing più grande di tutti, la specialista par excellence nell’estetica della fiction più estremista”».
• Ancora di recente, parlando della prima, “terribile” moglie, Maggie Williams, ha ammesso: «Come scrittore, devo tutto a Maggie». Già nel 1988, però, nella lettera che chiude I fatti, aveva fatto sentenziare dal suo fido personaggio Nathan Zuckerman che «è lei la vera eroina della sua vita, quella che stava cercando: “la psicopatica grazie al cui intervento ti sei affrancato dall’obbligo di essere un bravo ragazzo, simpatico, analitico e affettuosamente impiccione, che non sarebbe mai diventato un grande scrittore”. Senza di lei non ci sarebbe stata rabbia divorante e senza rabbia non ci sarebbe stato psicoanalista né Lamento di Portnoy, così come nessuno degli esiti reali e letterari del libro. In breve, le doveva tutto».
• Nei primi anni Settanta Roth prese a frequentare assiduamente Praga, ove conobbe molti tra i più importanti scrittori cecoslovacchi, perseguitati dal regime comunista che pochi anni prima aveva represso con i carri armati la famosa Primavera. Quando, al termine del secondo viaggio, nel 1973, chiese loro di che cosa avessero bisogno, «la risposta fu chiara e semplice: “Soldi”. Roth si fece dare un elenco di quindici scrittori bisognosi di aiuto e una volta a New York mise a punto un piano. Aprì un conto chiamato Ad Hoc Czech Fund, quindi trovò quattordici amici scrittori disposti a versare insieme a lui cento dollari al mese e abbinò a ciascuno un collega di Praga. “Se al posto di un fondo vedevano un nome, si sentivano più coinvolti sul piano personale”, spiega. Ad Arthur Schlesinger accoppiò così uno storico e ad Arthur Miller un drammaturgo; altri scrittori assoldati erano John Updike, Alison Lurie, John Cheever, William Styron e John Hersey. Sul versante ceco, Klìma fece parte della lista del primo anno ma il secondo se ne tirò fuori, non appena la sua situazione migliorò. Kundera, descritto come un irriducibile “lupo solitario”, non fece mai parte del progetto».
• «Ma aveva anche un’altra idea su come aiutarli, e un’idea di portata assai più ampia: far sì che quegli scrittori venissero letti. Se in Cecoslovacchia era impossibile, in America c’era speranza. (…) A New York, armato (…) di un elenco di opere che ammirava, si presentò da un editor di Penguin Books. Il risultato fu la collana “Writers from the Other Europe” (‘Scrittori dell’altra Europa’), che cominciò a pubblicare nel 1974 e proseguì per diciassette volumi, fino alla Rivoluzione di velluto del 1989 e alla conquista delle concomitanti libertà».
• «A metà degli anni Settanta i suoi viaggi per e dall’Europa erano ormai così frequenti che cominciò ad attirare l’attenzione. A Praga lo avevano sempre seguito, ma un giorno, mentre girava tallonato dal suo “solito” uomo in borghese, fu improvvisamente avvicinato da due agenti in divisa. “Mi ordinarono di seguirli, ma non mi toccarono. Quando gli mostrai il passaporto, la cosa non parve interessarli. Eravamo vicini a una fermata del tram, così mi misi a gridare in francese e in inglese a quelli che aspettavano che ero un cittadino americano e che se mi arrestavano dovevano andare a dirlo all’ambasciata”. Poi, mentre i due si allontanavano per consultarsi con il collega in borghese, lui ne approfittò per saltare sul primo tram che passava. “Ci rimasi per dieci minuti, poi scesi e saltai su un altro che andava in tutt’altra direzione – racconta. – Quando arrivai in un punto che mi sembrava di riconoscere, scesi, cercai una cabina telefonica e chiamai Ivan Klìma, e lui disse: ‘Stanno solo cercando di spaventarti, Philip’. Be’, ci riuscirono”. Ma la cosa non finì lì. “Quella sera arrestarono lui. Portarono Ivan alla stazione di polizia, ma lui sapeva come comportarsi. Quando gli chiesero: ‘Perché ogni anno Philip Roth viene a Praga?’, lui diede la risposta perfetta: ‘Non avete mai letto i suoi libri? Viene per le ragazze’”».
• «Nel 1977 il governo cecoslovacco gli rifiutò il visto turistico. Era diventato persona non gradita, e nonostante l’interesse inalterato per gli scrittori locali non riuscì più a rimettere piede a Praga fino al 1990, dopo la Rivoluzione di velluto».
• Da quei viaggi Roth trasse ispirazione per L’orgia di Praga (1985), romanzo il cui protagonista è Nathan Zuckerman, storico personaggio rothiano e alter ego dell’autore, «uno scrittore americano ricco e famoso che trae vantaggio da tutto ciò che il sistema, invero piuttosto pacchiano, offre, e che si ritrova alle prese con la povertà e la persecuzione dei suoi omologhi cecoslovacchi. Nathan però non è a Praga per aiutare altri scrittori: in una nuova svolta jamesiana, sta cercando di mettere le mani sui racconti inediti di un ebreo ceco morto sotto i nazisti e che passa per il Flaubert in lingua yiddish. Come nel Carteggio Aspern, il manoscritto è in possesso di una donna che non ha alcuna intenzione di cederlo. Nondimeno Olga, questo il suo nome, è diversissima dai personaggi di Henry James: “Tutte le grandi figure internazionali vengono a Praga a vedere la nostra oppressione, ma nessuna vuole fottermi”, si lamenta. “Quello che salverebbe la Cecoslovacchia sarebbe fottere con Olga”. (…) Roth frequentava feste del genere da cui il libro prende il titolo: se non proprio le orge millantate dai partecipanti quasi in sfida alle loro famose quanto “virtuose sofferenze politiche”, di certo eventi piuttosto dissoluti. Come ribadisce l’ostinata Olga, “Farsi fottere è l’unica libertà che resta in questo paese”. Vale la pena di sottolineare che, con sua grande delusione, per tutto il libro Zuckerman non si cala mai i pantaloni». Alla fine Zuckerman riesce a recuperare il manoscritto, ma la polizia ceca glielo sequestra, costringendolo infine a lasciare il Paese.
• «“La prima stesura equivale un po’ a infilarmi un pavimento sotto i piedi, – spiega agli studenti dell’amico Benjamin Taylor, alla Columbia. – Quel che voglio fare è buttare giù la storia e capire che cosa succede”. Poi comincia a prendere forma il linguaggio, e inevitabilmente la storia si fa più complessa. “È proprio attraverso la riscrittura che il libro inizia davvero a vivere”, e qui lui ci dà dentro più che può. Arrivato a un punto oltre il quale non riesce più ad andare, sottopone il manoscritto ad alcuni lettori di fiducia, “gente che so di avere dalla mia, ma capace di parlare fuori dai denti”. (…) A parte le loro osservazioni puntuali, dice, “mi forniscono sguardi che io non ho avuto”. Nella prima stesura si attiene a un mantra: “Quel che succede non ti riguarda”, nel senso che le “tematiche” non gli interessano. A lui spetta solo di rendere il tutto convincente. “Non è questione di fare il finto ingenuo, – mi spiega al termine della lezione. – Alla terza stesura ormai ho piuttosto chiaro con che cosa sono alle prese”. Però sentirsi dire dagli amici “di che cosa tratta il libro” gli torna sempre utile, e a volte lo sorprende».
• Secondo Roth «uno scrittore deve essere insofferente di qualcosa per poter vedere. Uno scrittore ha bisogno di veleni», perché «spesso l’antidoto ai veleni è un libro».
• «Un ricordo è qualcosa di vivo. Lo scrittore lo afferra solo per consegnarlo all’immaginazione – “un macellaio spietato, brutale e crudele”, la definisce Roth: (…) “dà una randellata in testa ai fatti, gli taglia la gola e poi, a mani nude, li sventra”. Solo a quel punto l’immaginazione li restituisce alla mente, in “una massa grondante di fattualità eviscerata”». E, a proposito dell’immaginazione, conclude: «Vi garantisco che non la vorreste per amica».
• Alla figura del padre, Herman Roth, ha dedicato un intero libro, Patrimonio (sottotitolo: Una storia vera), del 1991. «Roth, che senza risparmiare sui dettagli racconta quanto da giovane avesse desiderato sostituire un padre vergognosamente ignorante con una figura più dignitosa, guarda ora a quello stesso padre come alla fonte non solo della sua forza di uomo, ma anche della sua forza di scrittore. “Mi ha insegnato il quotidiano. Era lui la lingua di ogni giorno, prosaica ed espressiva e diretta, con tutti i grossi limiti del quotidiano e tutta la sua forza duratura”. (…) La storia di Herman Roth è in fondo una storia dell’America stessa: “in tutto questo tempo penso sempre che il vero lavoro, il lavoro enorme e invisibile che ha fatto per tutta la vita, che ha fatto tutta quella generazione di ebrei, è stato questo: diventare americani. I cittadini migliori”».
• «Amata sposa Tillie. Amato marito Bernard. Amato marito e padre Fred. Amato marito e padre Frank. La mia amata moglie e nostra diletta madre Lena. Il nostro caro padre Marus. Eccetera eccetera eccetera. Nessuno che sia amato ce la fa a sopravvivere» (da Il teatro di Sabbath, del 1995: considerazioni del protagonista Mickey Sabbath mentre passa in rassegna le lapidi di un cimitero).
• «C’era la sabbia e l’oceano, l’orizzonte e il cielo, il giorno e la notte… la luce, il buio, la marea, le stelle, le barche, il sole, le nebbie, i gabbiani. C’erano i moli, le banchine, il lungomare, c’era il mare gonfio, silenzioso, sconfinato. Dove era cresciuto lui avevano l’Atlantico; si poteva calpestare l’inizio dell’America. […] D’estate, la brezza salata e la luce abbacinante; in settembre, gli uragani; in gennaio, le tempeste. C’erano gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre, dicembre. E poi gennaio. E poi un altro gennaio, la scorta dei gennai non finiva mai, e dei maggi, dei marzi. Agosto, dicembre, aprile… dì un mese qualsiasi, e te ne davano a badilate. Avevano l’infinità. E lui era cresciuto a infinità, e mamma… all’inizio erano una cosa sola» (da Il teatro di Sabbath: reminiscenze dell’infanzia nel Jersey Shore del protagonista).
• «Per me l’epiteto “scrittore ebreo americano” non ha alcun senso. O sono un americano, o non sono niente. Essere ebreo è un modo come un altro di essere americano» (Roth in un’intervista del 1997).
• «“Per la maggioranza degli scrittori davvero ambiziosi”, dice Roth, il problema è proprio “come infilare la coscienza nell’esperienza”. Nell’intervista filmata con David Remnick, realizzata dalla Bbc, prosegue: “Se trascuri la coscienza, scrivi narrativa di consumo; se hai solo la coscienza e non il peso dell’esperienza, hai l’esperimento fallito di Virginia Woolf, dove la prima domina a tal punto il romanzo da impedirgli di procedere nel tempo come ogni romanzo dovrebbe poter fare”. (…) “La narrativa inventa la coscienza”, non nel senso che esistono individui totalmente privi coscienza, ma che “nei libri essa esiste sotto forma di linguaggio compiuto”. Inutile dire che il non plus ultra di questo linguaggio è l’Ulisse di Joyce».
• «Ci sono cento diversi modi di tenere la mano di una persona. Ci sono i modi in cui tieni la mano di un bambino, i modi in cui tieni la mano di un amico, i modi in cui tieni la mano di un anziano genitore, i modi in cui tieni le mani dei partenti, dei morenti e dei defunti. Lui tenne la mano di Dawn come un uomo tiene la mano della donna che adora, con tutta l’emozione che si riversa nella sua stretta, come se la pressione sul palmo della mano producesse uno scambio spirituale, come se l’intrecciarsi delle dita simboleggiasse ogni intimità. Tenne la mano di Dawn come se non possedesse altre informazioni sullo stato della propria vita» (da Pastorale americana, del 1997: descrizione del gesto compiuto dal protagonista, Swede Levov, subito dopo colto la moglie Dawn in flagrante adulterio).
• «I libri, come Roth è il primo a puntualizzare, sono più grandi dei loro autori. Contengono possibilità, pensieri, emozioni, varietà di saggezza e di follia che, spontanei e imprevedibili, emergono ogni volta dalla scrittura stessa».
• Particolarmente lunga e importante la relazione sentimentale con l’attrice inglese Claire Bloom (nota soprattutto per essere stata, da ragazza, la protagonista femminile di Luci della ribalta, al fianco di Charlie Chaplin), durata oltre diciassette anni, dal 1976 al 1993, e coronata da matrimonio nel 1990. Dopo il divorzio, nel 1996 la Bloom pubblicò la sua autobiografia Leaving a Doll’s House, in cui, tra l’altro, riversò una quantità di critiche al vetriolo all’ex marito, puntualmente riprese e propalate dalla stampa. Roth replicò a propria volta due anni dopo con un romanzo, Ho sposato un comunista, in cui la moglie del protagonista, autrice anch’essa di un libro di veleni contro l’ex marito, è una palese controfigura della Bloom. Lungi dal veder riscattata la propria reputazione presso l’opinione pubblica, in seguito alla pubblicazione del libro Roth si ritrovò anzi per l’ennesima volta imputato di misoginia da ampi settori della critica. «Sul “Guardian” inglese Linda Grant arrivò a dichiarare che avrebbe “preferito leggere dieci libri di una misoginia rothiana” piuttosto che “una sola pagina di Alison Lurie, Carol Shields, Margaret Atwood o Annie Proulx”, ma attenzione: “Se al mondo è mai esistito un misogino, quello è Roth”».
• «La politica è la grande generalizzatrice, e la letteratura è la grande particolareggiatrice, e non soltanto esse sono tra loro in relazione inversa, ma hanno addirittura un rapporto antagonistico. (…) Come artista, le sfumature sono il tuo dovere. Il tuo dovere è non semplificare. Anche se tu dovessi scegliere di scrivere nel modo più semplice, alla Hemingway, resta il dovere di dare la sfumatura, spiegare la complicazione, suggerire la contraddizione. Non cancellare la contraddizione, non negare la contraddizione, ma vedere dove, all’interno della contraddizione, si colloca lo straziato essere umano. Tener conto del caos, farlo entrare. Devi farlo entrare. Altrimenti produci propaganda, se non per un partito politico, per un movimento politico, stupida propaganda per la vita stessa, per la vita come essa stessa, forse, vorrebbe essere propagandata» (da Ho sposato un comunista, del 1998: lezione impartita a Nathan Zuckerman, di professione scrittore, da un giovane professore universitario).
• Nel novembre del 1998 Roth si recò alla Casa Bianca per ricevere la National Medal of Arts. «Clinton e consorte, che consegnavano di persona le onorificenze, apparivano raggianti, e la menzione letta dal presidente suonava calzante e ragionata: “Ciò che Dublino fu per Joyce o la Contea di Yoknapatawpha per Faulkner, Newark è per Philip Roth”. Ma quando lo presentò come un “grande vecchio della letteratura americana”, mentre si avvicinava per ricevere la medaglia Roth sussurrò qualcosa, e subito Clinton riferì al microfono: “Mi ha appena informato che in realtà non è così vecchio, ma Hillary gli ha spiegato che è un’espressione letteraria”».
• Nel 1998 Roth iniziò a scrivere un nuovo libro, ispirato dal clamore sollevatosi in quei mesi intorno allo scandalo Clinton-Lewinsky. «Come scrive all’inizio della Macchia umana, pubblicato due anni più tardi, “se non siete vissuti nel 1998 non sapete cos’è l’ipocrisia”. Il romanzo si svolge in gran parte nell’estate di quell’anno, “l’estate di un’orgia colossale di bacchettoneria, un’orgia di purezza nella quale al terrorismo – che aveva rimpiazzato il comunismo come minaccia prevalente alla sicurezza del paese – subentrò, come dire, il pompinismo”, quando “la vita, in tutta la sua invereconda sconcezza, ancora una volta disorientò l’America”. Nathan Zuckerman sogna uno striscione “teso come uno degli involucri di Christo da un capo all’altro della Casa Bianca, con la scritta QUI ABITA UN ESSERE UMANO”».
• «Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui. Nulla a che fare con la disobbedienza. Nulla a che fare con la grazia o la salvezza o la redenzione. È in ognuno di noi. Insita. Inerente. Qualificante. La macchia che esiste prima del suo segno. Che esiste senza il segno. La macchia così intrinseca che non richiede un segno. La macchia che precede la disobbedienza, che comprende la disobbedienza e frustra ogni spiegazione e ogni comprensione. Ecco perché ogni purificazione è uno scherzo. Uno scherzo crudele, se è per questo. La fantasia della purezza è terrificante» (da La macchia umana, del 2000: le riflessioni del narratore Nathan Zuckerman).
• Sorprendente, nella Macchia umana, è «una scena in cui un gruppo di veterani invalidi e tremanti si reca in un ristorante cinese. Roth rammenta quanto lo turbò apprendere di quella prassi da un amico che lavorava in un programma di riabilitazione per ex combattenti affetti da disturbo post-traumatico da stress. Come terapia gli sembrava ridicolmente prosaica, eppure è difficilissima da mettere in pratica: lo scopo principale, infatti, non è mangiare ma conservare la calma. Nella scena in questione i veterani devono sostenere l’ultimo arrivato del gruppo, un soggetto grezzo e incorreggibilmente violento, e aiutarlo a restare seduto tranquillo sulla sedia nonostante la folla di asiatici che lo circonda e il cibo orientale che non sopporta. (“La tortura del vapore. La tortura degli odori”). Vittoria significa riuscire a reggere tutto il tempo della cena senza scappare, senza andare in bagno a vomitare e senza cercare di ammazzare il cameriere che si avvicina in punta di piedi per riempire di nuovo il bicchiere».
• «La palpata la davi a tradimento. Lo rubavi, il sesso. Blandivi, imploravi, adulavi, insistevi… Per il sesso dovevi lottare contro i valori, se non contro la volontà della ragazza. Le regole: ecco perché dovevi imporle la tua volontà. Era il modo in cui le insegnavano a mettere in scena lo spettacolo della sua virtù. Una ragazza comune, se avesse deciso volontariamente, senza essere asfissiata dalle insistenze, di violare il codice e compiere l’atto sessuale, mi avrebbe gettato nella massima confusione. Perché nessuno, maschio o femmina che fosse, era cosciente di avere un qualche diritto all’erotismo. Assolutamente» (da L’animale morente, del 2001: la formazione sessuale del protagonista, David Kepesh, prima della “rivoluzione” degli anni Sessanta).
• «L’universo di Kepesh non conosce amore erotico a lungo termine, condizione altrimenti denominata matrimonio felice. E Roth? Lui crede che esista? “Sì, – mi risponde, – e c’è anche gente che suona il violino come Isaac Stern. Ma sono casi rari”».
• «Questi erano ebrei che non avevano bisogno di grandi termini di riferimento, di professioni di fede o di credenze religiose, per essere ebrei, e che sicuramente non avevano bisogno di altre lingue: ne avevano già una, la lingua del loro paese natale, la cui espressività vernacolare esercitavano senza fatica e, sia al tavolo da gioco sia nel pistolotto di un venditore, con l’indulgente padronanza della popolazione indigena. E l’essere ebrei non era né una disgrazia né una sfortuna né una cosa di cui andare “fieri”. Ciò che erano era ciò di cui non potevano liberarsi: ciò di cui non avrebbero mai neanche potuto pensare di liberarsi. L’essere ebrei derivava dall’essere se stessi, come l’essere americani» (da Il complotto contro l’America, del 2004: ritratto della generazione di ebrei americani a cui appartenevano i genitori di Roth).
• «Che cos’è la scrittura ebraica? Ed esiste una cosa del genere? Roth aveva provato a rispondere a queste domande nell’intervista rilasciata a metà degli anni Ottanta alla “Paris Review”, negando che “la qualità ebraica dei libri” fosse una questione di contenuto. Semmai si trattava di una forma di sensibilità riconoscibile e particolare: “il nervosismo, l’eccitabilità, la vis polemica, la drammatizzazione, l’indignazione, l’ossessività, la permalosità, la teatralità, ma, soprattutto, la verbosità”, disse, palesemente divertito nell’enumerare le prerogative stilistiche della Lezione di anatomia, allora il suo ultimo libro pubblicato. “A rendere ebraico un libro non è ciò di cui parla, ma il fatto che non la smetta mai di parlare”».
• Per Saul Bellow, invece, «i racconti ebraici erano quelli in cui “il riso e il tremore si mescolano in modo così insolito, da rendere arduo il tentativo di definire la loro relazione reciproca” – in altre parole, sono un racconto di Bellow».
• Nel 2004 Roth dichiarò di considerare l’allora presidente George W. Bush «un uomo inadatto a gestire un negozio di ferramenta, figurarsi a guidare una nazione come questa»».
• Anche grazie alle sue implicazioni con l’attualità, nel 2004 Il complotto contro l’America suscitò grande interesse, rivelandosi uno dei maggiori successi di Roth. «Dopo due National Book Awards (Goodbye, Columbus e Il teatro di Sabbath), due National Book Critics Circle Awards (La controvita e Patrimonio), due Pen/Faulkner Awards (Operazione Shylock e La macchia umana), un Best American Novel of the Year del “Time” (Operazione Shylock), un Pulitzer (Pastorale americana), una National Medal of Arts, un WH Smith Literary Award per il miglior libro dell’anno nel Regno Unito (La macchia umana), un prix Médicis étranger per il miglior libro straniero dell’anno in Francia (ancora La macchia umana), le lauree honoris causa conferite da Harvard e dall’Università della Pennsylvania, e dopo una miriade di altri premi e onorificenze, per la prima volta dai tempi di Lamento di Portnoy (che non aveva vinto niente) Roth riconquistava dunque la vetta della classifica dei best seller, alle spalle di Stephen King e Dan Brown. Ma ad attenderlo c’era un riconoscimento assai più duraturo: la pubblicazione delle sue opere complete nella collana della Library of America e l’ingresso nell’illustre canone della letteratura americana, in compagnia di nomi come Herman Melville, Henry James, Edith Wharton, William Faulkner, James Baldwin, Eudora Welty e Saul Bellow».
• «La vecchiaia non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro» (da Everyman, del 2006).
• Nel romanzo Il fantasma esce di scena (2007), quando, alla sua cena di compleanno, chiedono a Nathan Zuckerman come ci si senta ad avere settant’anni, il protagonista si alza e dice: «“Pensate all’anno 4000”. Sorrisero, come se io stessi per raccontare una barzelletta, e allora soggiunsi: “No, no. Pensate seriamente al 4000. Immaginatelo. In tutte le sue dimensioni, in tutti i suoi aspetti. L’anno 4000. Metteteci tutto il tempo che volete”. Dopo un minuto di sobrio silenzio, senza alzare la voce soggiunsi: “Ecco come ci si sente a settant’anni”, e tornai a sedermi”».
• «Anche l’arte è vita, capisce? Isolamento è vita, meditazione è vita, fingere è vita, fare congetture è vita, contemplare è vita, la lingua è vita. C’è forse meno vita nel rigirare frasi che nel produrre automobili?» (Roth intervistato dal «Nouvel Observateur», nel 1981).
• «Il non vissuto, la supposizione, impressa per esteso sulla carta, è la vita il cui significato arriva a contare di più» (da Il fantasma esce di scena, del 2007: considerazioni del protagonista, Nathan Zuckerman).
• Per Roth, col passare degli anni, scrivere è diventato sempre più faticoso. «Sulla parete del suo studio in Connecticut ha appeso un tabellone dell’alfabeto “per ricordarmi che sono soltanto lettere, santo cielo… Lettere che conosco benissimo e che formano le parole”. Ma, prosegue, “per la fluidità e la scorrevolezza devo lottare, a ogni frase e a ogni paragrafo”».
• «Roth imita alla perfezione Marlon Brando nel ruolo di Marco Antonio. In un pomeriggio di sole, mentre passeggiamo per Midtown, improvvisamente si mette a declamare: “Amici, romani, concittadini…”. La concione al popolo romano dura da un po’ ma, stranamente, si voltano in pochissimi».
• «Nessuno degli altri destinatari dell’onorificenza può essersi sentito più onorato di Roth, nato sotto Francis Delano Roosevelt e da sempre elettore democratico, quando nel marzo del 2011 ha ricevuto la National Humanities Medal dalle mani del presidente Obama in persona. Ancora entusiasta mi mostra il video della cerimonia. (…) Dal palco Roth passa in rassegna il pubblico, quasi volesse imprimersi nella memoria quel momento. Poi il presidente, mentre gli infila sulla testa china il nastro rosso con la medaglia, gli sussurra qualcosa in privato. Adesso Roth mi svela l’arcano. “Non è vero che sta perdendo colpi”, gli ha detto Obama. E lui: “Invece sì, signor presidente, ne sto perdendo eccome”».
• «Per un po’ è andato in crisi. Terminato Nemesi, per la prima volta in più di mezzo secolo si è ritrovato “scatenato” dal suo talento. Ha stilato elenchi di possibili nuovi soggetti, ma nessuno lo convinceva e temeva di cadere in depressione, di soffrire l’inattività, di non essere in grado di far fronte alla vita senza l’applicazione quotidiana alla pagina scritta. Invece nessuna di queste cose è accaduta, e con sorpresa ha scoperto di sentirsi libero».
• «Le gioie di una vita che non contempla la scrittura: telefonate e lettere agli amici, un po’ di esercizio fisico, lettura di saggi politici e di biografie. (…) Certo sulla stampa di settore ha sollevato un bel polverone, quando ha dichiarato di non leggere più narrativa, ed è vero che ormai dedica gran parte del suo tempo alla saggistica. In realtà però legge anche romanzi, o meglio rilegge i romanzi che hanno segnato la sua giovinezza: “Mi chiedevo come avrei potuto non riprendere più in mano Conrad”. Rilegge anche Turgenev, lettere e biografie comprese; Faulkner, perché Mentre morivo è “il miglior libro americano della prima metà del Novecento” e perché dopo le prime cinquanta pagine di Assalonne, Assalonne! “ti ritrovi come un gattino ingarbugliato nel filo di un gomitolo”. E poi ovviamente Hemingway, In Our Time (“Magia? Quella sì che è magia”) e Addio alle armi: “Un libro quasi perfetto. Anzi, un libro perfetto. Trovo straordinarie la combinazione tra guerra e storia d’amore e quelle punzecchiature aggressive tutte maschili, una specie di eco del conflitto. In realtà è la storia d’amore a farmi impazzire, quel minuetto iniziale fino a dove lei dice: ‘Dobbiamo continuare a chiacchierare a questo modo?’”. Ma anche l’ultimo Hemingway, troppo sottovalutato».
• «Le vecchie abitudini sono dure a morire. Roth non passa più tutto il tempo a scrivere, ma le pagine si accumulano lo stesso. La differenza è che non si tratta di pagine di narrativa. Dice di non avere più la forza necessaria “per tirare ancora fuori qualcosa dal nulla”. Si tratta piuttosto di appunti, pensieri, correzioni: su di lui sono state scritte tante cose, molte delle quali sbagliate, e tutte stanno già passando alla storia. Queste che lascia sono testimonianze per il futuro».
• «Sia il suo agente sia il “New York Times” hanno cercato di nascondergli la vera ragione di una recente intervista, ma lui ha mangiato subito la foglia: il quotidiano stava aggiornando il suo necrologio. L’idea non lo sgomenta per niente, non è che non abbia mai pensato a quanto lo aspetta. Il punto è un altro. Ovviamente il “New York Times” intende usare le proprie recensioni per riassumere la sua carriera. “Ti stroncano anche da morto!”».