AA.VV., L’Europeo: Cronaca Nera, n.4 2006 - anno V, 26 febbraio 2015
GIORGIO MANES
[due pezzi]
QUANDO: 25 giugno 1969.
DOVE: a Roma, a palazzo Montecitorio.
VITTIMA: Giorgio Manes, generale, vicecomandante dell’Arma dei carabinieri, 63 anni, ha appena bevuto una tazzina di caffè, quando viene colpito da infarto. Si accascia su un divanetto della Camera dei deputati. E muore. Di lì a poco, avrebbe dovuto deporre dinanzi alla commissione d’inchiesta sul presunto tentativo di colpo di Stato del 1964, attribuito al generale Giovanni De Lorenzo: il progetto, ribattezzato “Piano Solo”, avrebbe dovuto dare il controllo dello Stato all’Arma dei Carabinieri.
MOVENTE: nel maggio 1967, Manes riceve dal comandante generale dei Carabinieri, Carlo Ciglieri, l’incarico di scoprire chi, all’interno dell’Arma, abbia passato le informazioni sul Piano Solo a L’Espresso, che, nel numero del 14 maggio dello stesso anno, ha scritto dei presunti di De Lorenzo. Manes sostiene l’esistenza della trama eversiva, nel suo rapporto. Il generale viene però isolato politicamente e subisce anche l’accusa di abuso di potere, per aver travalicato i confini del proprio mandato. Da quel momento, la sua salute s’indebolisce: un primo infarto colpisce Manes nel 1968, un secondo l’anno successivo. L’ultimo attacco di cuore è fatale. E arriva prima di una deposizione scomoda, forse troppo. Il rapporto è censurato dal presidente del Consiglio, Aldo Moro, con 72 omissis, che saranno rivelati solo nel 1990.
IL CASO È: chiuso. L’inchiesta è archiviata una prima volta, nonostante i familiari sostengano l’ipotesi dell’omicidio.
Nel 1990, anche per le pressioni del figlio del generale, l’indagine è riaperta, ma viene di nuovo archiviata, l’anno seguente. Resta però un dubbio: perché non è mai stata disposta l’autopsia sul corpo di Manes?
COME SI UCCIDE UN GENERALE–
Renzo Trionfera – L’Europeo 1970 n.25
Nella recente campagna elettorale, a differenza di quel che fece alle “politiche” del 1968, il generale Giovanni De Lorenzo, deputato monarchico in Parlamento, s’è tenuto prudentemente in disparte. Niente comizi, nessuna strumentalizzazione del suo fascinoso monocolo, niente strizzate d’occhio allusive all’esplosivo archivio personale del “primo carabiniere d’Italia”, come ormai viene ironicamente chiamato l’ex capo dei nostri servizi segreti, per via d’una sua spassosa lettera, che circola in questi giorni negli ambienti militari. Il generale ha accusato un colpo duro. Duro e inatteso.
La sentenza del tribunale di Roma, che ha dato partita vinta al suo più tenace e risoluto avversario, il generale di corpo d’armata Paolo Gaspari (assolto insieme con i giornalisti Gianni Corbi e Ugo Gregoretti), lo stesso strano comportamento del pubblico ministero, il quale dopo aver incautamente sposato la sua causa in aula non ha poi ricorso contro le assoluzioni, hanno evidentemente scosso la fiducia di De Lorenzo.
Richiamata la norma costituzionale che riconosce a tutti i cittadini il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, i giudici di Roma, in base all’articolo 51 del codice penale, hanno ammesso che il generale Paolo Gaspari, rivolgendo una lunga serie di pesanti accuse contro De Lorenzo, ha “esercitato un diritto” nell’ambito della legge. È bene ricordarle, quelle accuse, sia pure in forma sintetica: danno di Giovanni De Lorenzo il più impressionante dei ritratti, per di più convalidato da una sentenza non impugnabile dalla parte civile sul piano penale. Secondo Paolo Gaspari, dunque, De Lorenzo ha denunciato poco più di un anno fa 12 generali, molti ufficiali, superiori e vari funzionari, soltanto per trasformarli in imputati alla vigilia della loro deposizione dinanzi alla Commissione parlamentare di inchiesta sui “fatti del luglio 1964”; in servizio e dopo, ha dato corso a un sistematico programma di demolizione della reputazione altrui, con accuse temerarie; ha mantenuto la classe politica sotto la minaccia di gravi rivelazioni come capo dei servizi segreti, come comandante generale dei carabinieri e infine come capo di Stato maggiore dell’esercito ha “fornito repellenti ed eloquenti prove d’indegnità’’ (le più gravi delle quali, l’indagine promossa contro il generale Renato de Francesco, per accelerarne l’allontanamento dall’Arma dei carabinieri e prenderne il posto, i colpi alle spalle fatti dare dai suoi più diretti collaboratori al generale Giorgio Manes, vicecomandante generale dell’Arma); ha fatto degenerare il Sifar, riducendolo a strumento delle sue ambizioni; ha compiuto un pericoloso attentato alle pubbliche istituzioni, usurpando i poteri del ministro dell’Interno, nella famosa estate calda del 1964. Poiché non si esercita un diritto legale di critica e di censura sostenendo cose false, è ovvio che il tribunale di Roma, nel corso d’un processo che si è protratto per mesi, ha riconosciuto come “provate”, e quindi valide, tutte le accuse che Gaspari ha mosso a De Lorenzo. Né l’ex capo del Sifar può sperare nella Suprema corte per un rovesciamento della situazione. Il ricorso in Cassazione del querelante è ammesso per i soli effetti civili della sentenza, che resta immutabile nella sua portata penale.
PROCESSI BOOMERANG
Il giudizio emesso dal tribunale di Roma condizionerà in un certo senso molti altri procedimenti nei quali Giovanni De Lorenzo, per sua stessa volontà, risulta implicato. Molte iniziative giudiziarie promosse dall’ex capo dei servizi segreti, come quella intentata contro il generale Gaspari, finiranno per ritorcersi contro di lui, come altrettanti, e non del tutto innocui, boomerang.
Ma al di là dei conti che prima o poi Giovanni De Lorenzo sarà chiamato a rendere in sede giudiziaria, ci sono le azioni extragiudiziarie di chi ebbe a subire le conseguenze delle “repellenti ed eloquenti prove d’indegnità” di cui ha parlato il generale Paolo Gaspari.
E non ci riferiamo solo ai vivi, qualcuno dei quali, forse lascerà correre per ripugnanza o per quieto vivere, ma anche ai morti.
IL CASO MANES
Il “caso Manes”, la sconcertante vicenda accaduta al vicecomandante dei carabinieri al tempo del potentato spionistico-militare di De Lorenzo, non è stato chiuso da una pietra tombale come molti credono. La battaglia per la verità e quella per ottenere giustizia, che il generale Giorgio Manes interruppe drammaticamente dinanzi alla Commissione d’inchiesta sui “fatti del luglio ’64”, saranno proseguite da sua moglie Maria Manes e da suo figlio Renato. «Tra qualche giorno è un anno», dice Maria Manes. «Ricordo ogni dettaglio di quel tremendo 25 giugno 1969, quando mio marito si portò una mano al petto, davanti allo scrittoio dell’onorevole Giuseppe Alessi, nel palazzo di Montecitorio. Giorgio Manes era giunto al tanto atteso appuntamento con la Commissione d’inchiesta parlamentare stremato di forze. Si era inesorabilmente rovinato il fisico e il sistema nervoso nella lunga, estenuante lotta che aveva dovuto combattere contro un gruppo di potere spregiudicato: prima per difendere l’integrità e il prestigio dell’Arma, per poi difendere se stesso, tutti noi, da una inaudita serie di sopraffazioni e di vessazioni. Se avesse abbandonato la lotta al momento giusto avrebbe avuto una sua poltrona tranquilla al Consiglio di Stato. Gli sarebbe stato possibile accogliere il suggerimento del colonnello Luigi Bittoni, uno degli ufficiali che compaiono nel famoso rapporto Manes, il quale gli scriveva testualmente, nel marzo 1968: “... pensi alla salute, unico bene della vita, e lasci tutto il resto, che non le potrà dare che magre soddisfazioni se non addirittura dei grossi dispiaceri”. Ora che alcune verità fondamentali sono state riconosciute da un tribunale, pensiamo sia giunto il momento di intervenire direttamente anche noi in questa incredibile vicenda. Lei sa che se mio marito fosse riuscito a sopravvivere alla vita d’inferno che gli fecero fare avrebbe scritto le sue memorie, al momento opportuno».
Tentiamo una sintesi. Iniziamo dall’incontro o dallo scontro iniziale tra suo marito e il generale Giovanni De Lorenzo. È il punto di partenza che s’innesta fatalmente in una vicenda più grande, più scandalosa: il Sifar.
Mio marito divenne vicecomandante generale dell’Arma dei carabinieri il 7 agosto del 1963, dieci mesi circa dopo che De Lorenzo ne era divenuto comandante generale. La carica gli spettava di diritto, non era connessa ad alcuna scelta di carattere politico o militare. Giorgio Manes, che comandava la divisione carabinieri Pastrengo, era il più anziano nel grado dei sei generali di divisione dell’Arma. De Lorenzo conosceva la sua inflessibilità, anche per quel che riguardava le attribuzioni di ogni singolo grado o incarico. Mise quindi le mani avanti. Il 2 agosto del 1963, cinque giorni prima che mio marito assumesse il nuovo incarico, l’ex capo del Sifar, con un suo ordine perentorio, modificò il regolamento organico dei carabinieri, sopprimendo con un brusco tratto di penna tutte le attribuzioni che da 11 anni venivano demandate al vice. Modificò anche la norma “Il vicecomandante sostituisce il comandante durante le sue assenze”, aggiungendovi: “quando da questi gli venga ordinato”. Creando questa situazione assurda e ridicola: se il comandante si fosse trovato all’improvviso per un qualunque fatto accidentale, nell’impossibilità di dirigere l’Arma o di “ordinare” al suo vice di sostituirlo, i carabinieri sarebbero rimasti senza alcuna guida... Forse proprio mio marito, scherzando, e riferendosi al fatto che il generale De Lorenzo si qualificava spesso come “primo carabiniere d’Italia”, aveva detto che semmai il primo carabiniere vero poteva esser considerato il vicecomandante. La battuta venne immediatamente riferita al De Lorenzo. Il quale, il 5 novembre del 1964, ritenne addirittura di indirizzare al vicecomandante e ai comandanti di divisione una circolare, per precisare, appunto, che il primo carabiniere era soltanto lui.
Conosciamo quella circolare, signora: uno dei documenti più spassosi tra i tanti che ci sono capitati tra le mani sulla vicenda Sifar-De Lorenzo. Una prosa da teatro-cabaret.
Ci sono fatti più gravi e importanti. Nell’espletamento delle sue funzioni mio marito fu sempre, sistematicamente, tenuto estraneo all’azione di comando. Parliamo di quel che accadde nella primavera e nell’estate calda del 1964. Del tempo, cioè, in cui nacque il “Piano Solo” e il Sifar distribuì le ormai famose liste di proscrizione. Ci furono riunioni, nel giugno ’64, proprio per la distribuzione delle liste e la messa a punto di un progetto di tutela dell’ordine pubblico che De Lorenzo, come la Commissione Lombardi ha inconfutabilmente dimostrato, intendeva mantenere di esclusiva competenza dell’Arma. Ebbene, mio marito non seppe mai nulla... Delle riunioni del ’64 e delle liste, Giorgio Manes ebbe notizia soltanto nel 1967, quando esplosero il caso Sifar e il caso De Lorenzo. Mi disse che De Lorenzo lo aveva tenuto estraneo al Piano Solo poiché sapeva che avrebbe altrimenti trovato in lui un durissimo oppositore. Leggo dal rapporto (uno dei molti) inviato da mio marito al generale Ludovico Donati, ufficiale inquirente al ministero Difesa, il 15 aprile del 1969: “...Esorbitante influenza del Sifar sui compiti d’istituto dell’Arma, con la diramazione di liste di persone sospette da “enucleare” rapidamente, con procedimenti particolari esulanti dalle precise norme di polizia giudiziaria. Grave estromissione degli organi specificamente responsabili dell’ordine pubblico (prefetti, questori, uffici di P.S.) dalle predisposizioni ordinate ai comandi periferici con il Piano Solo, da attuarsi con la massima segretezza e senza darne notizie ai suddetti organi del ministero dell’Interno... Si tratta di un complesso di gravi e pericolose distorsioni...”. Giorgio Manes avrebbe sollecitato l’immediata notifica del Piano Solo al ministro dell’Interno, se fosse stato informato tempestivamente.
Parliamo dell’estate calda del ’64.
Non si voleva solo tenere mio marito estraneo a ogni effettiva funzione di comando bensì allontanarlo il più presto possibile. A succedergli, sempre per motivi di anzianità nel grado, sarebbe stato chiamato il generale Giuseppe Cento, che godeva dell’incondizionata fiducia e simpatia di De Lorenzo. Tentarono, dunque, di farlo fuori con le buone. Ci fu la prima offerta per la Corte dei conti. Mio marito disse di no. Secco. Poiché egli era generale “in soprannumero”, si richiamarono alla pratica che i soprannumerari dovessero cedere il posto a coloro che li seguivano. Il ministro Giulio Andreotti chiese il parere del Consiglio di Stato: ebbe ragione mio marito. Allora ci fu la famosa pugnalata alle spalle dei sei generali. Dei sei pari grado di mio marito, cioè. I “divisionari” Giuseppe Cento, Vittorio Fiore, Virginio Bianco Mengotti, Giovanni Celi, Domenico Javarone e Adamo Markert sottoscrissero una lettera prefabbricata nell’ufficio del comandante generale. Ne cito qualche passaggio: “Siamo da tempo a conoscenza di un tuo atteggiamento di ostilità verso S.E., il comandante generale, causato dalla tua intenzione di rimanere a ogni costo nella carica di vicecomandante. Ciò è contrario agli interessi dell’Arma e alla prassi fin qui seguita... Divenuta ormai notoria nell’Arma [l’ostilità, evidentemente], oltre a costituire marcata irriconoscenza verso S.E. De Lorenzo, che tanto ha fatto per l’Arma, dedicandole tutte le sue energie con illimitato slancio e con passione eccezionale, arreca grave discredito all’istituzione...”. I generali di divisione dell’Arma, compreso mio marito, erano otto in tutto. Sei firmarono subito, giustificandosi poi, davanti alla Commissione Lombardi, col sostenere che non sarebbe stato loro possibile opporsi a un desiderio del comandante generale. Il settimo generale, Remo Aurigo, di cui era nota la rettitudine, non venne neanche interpellato.
Quando il generale De Lorenzo lasciò il comando generale dei carabinieri, per assumere la carica di capo di Stato maggiore dell’esercito, Giorgio Manes finalmente poté respirare, dunque.
Nella prima metà di maggio del 1967, a scandalo Sifar ormai clamorosamente esploso, L’Espresso rese note alcune “voci” sui “fatti del luglio 1964 raccolte, secondo il giornale, negli ambienti stessi dell’Arma dei carabinieri. Il 18 di maggio, il generale Carlo Ciglieri affidò per iscritto a mio marito l’incarico di fare accertamenti sulla “fuga” di notizie. Come risulta dalla parte non coperta da segreto del rapporto che redasse il 15 giugno del 1967, mio marito interrogò i generali di brigata Oreste Lepore, Franco Picchiotti, Dagoberto Azzari, Cosimo Zinca, e i colonnelli Romolo Dalla Chiesa, Roberto Sottiletti e Luigi Bittoni. Durante la sua indagine, mio marito tenne quotidianamente informato il generale Ciglieri sulle dichiarazioni che andava raccogliendo. La prima clamorosa rivelazione di cui il comandante generale fu partecipe riguardò le ammissioni, tutte più o meno concordi, relative alle riunioni svoltesi al comando generale, nel corso delle quali venne discusso il Piano Solo e furono distribuite ai capi di Stato maggiore delle tre divisioni dei carabinieri, da parte di ufficiali del Sifar, le famose liste di proscrizione. Ciglieri non diede alcun contrordine né ritenne, considerata la gravità dei fatti che mio marito andava accertando, di intervenire direttamente nell’indagine. Sei giorni dopo l’inizio dell’indagine, mio marito ricevette un’altra lettera di Ciglieri che gli confermava “quanto verbalmente precisato circa gli scopi, ben delimitati, degli accertamenti affidatigli”. Veniva spessissimo il generale Franco Picchiotti. Talvolta passava dalla scala di servizio perché non era “prudente” far conoscere la sua assiduità con Manes. Una sera, ricordo, parlò della linea telefonica diretta che era stata installata nel ’64 tra l’ufficio del capo dello Stato e il comando generale. Mi colpì un particolare: il telefono collegato direttamente con il Quirinale, il generale De Lorenzo lo aveva fatto collocare nel suo stanzino da bagno. Fu ancora Picchiotti a dirci che tutte le nostre conversazioni telefoniche venivano regolarmente intercettate.
Fu anche l’epoca, peraltro, in cui, sulla base del “rapporto Manes”, il ministro della Difesa Tremelloni affidò al generale di corpo d’annata Luigi Lombardi il compito di svolgere un’inchiesta formale sugli avvenimenti del ’64.
Esatto. E i risultati di quell’indagine sono noti: gli accertamenti fatti da mio marito furono puntualmente confermati. Le risultanze dell’inchiesta Lombardi furono puntualizzate nella successiva inchiesta disciplinare promossa dal ministero contro De Lorenzo. Resta incomprensibile, allora, il fatto che il generale Lombardi nelle conclusioni della sua relazione, dopo aver chiesto di sottoporre a inchiesta disciplinare De Lorenzo, chiedesse un’identica misura anche per Giorgio Manes. .. Incomprensibile o inaudito? Fu nel luglio del 1968 che mio marito apprese dalla televisione che anch’egli sarebbe stato sottoposto a inchiesta disciplinare. Stavamo in campagna: lui aveva lasciato l’ospedale militare del Celio poche settimane prima. Fu un altro colpo alle sue spalle, quello. «Roba da infarto», disse allibito mio marito, nell’apprendere quella incredibile decisione. E l’infarto puntuale venne, purtroppo. Altri mesi di ospedale militare, dal quale, ai primi di ottobre del ’68, uscì non guarito, bensì morente. Fu trasportato in una clinica privata, dove restò immobilizzato fino al 18 dicembre di quello stesso anno. Intanto, vicecomandante dei carabinieri era diventato il generale Celi: uno dei sei firmatari della famosa lettera. E l’interessamento più costante, più pressante del comando generale non fu per la salute di mio marito. Iò comandante generale Luigi Forlenza lo chiamò un giorno al telefono, ma solo per chiedergli quando avrebbe lasciato l’alloggio di rappresentanza di viale Romania. Mio marito gli disse di non essere in grado di farlo, inchiodato com’era in una clinica, ma si sentì rispondere che al trasloco avrebbero potuto provvedere sua moglie e suo figlio. Il suo ultimo Natale, Giorgio Manes lo passò in casa. Aveva avuto sei mesi di licenza di convalescenza; non era quasi in grado di muoversi: ossigeno, medici, medicine e ancora vessazioni furono il suo pane quotidiano. Le pressioni per farci sloggiare divennero incalzanti. Al comando generale presero addirittura in esame l’opportunità di trasportare in un’altra casa, con la barella, il generale che fino a qualche mese prima era stato vicecomandante generale. Ce ne andammo nel marzo del ’69. Le pene non erano finite. Ora, a incalzare con imposizioni perentorie, con interrogatori era il generale Ludovico Donati, incaricato di svolgere l’inchiesta disciplinare: quella sollecitata da Lombardi.
L’INTIMIDAZIONE
«Se avesse voluto, mio marito avrebbe potuto rifiutarsi di presentarsi, per tutto il periodo della convalescenza. Rinunciò spontaneamente a quel diritto. Subì interrogatori lunghissimi, col medico fuori della porta, che di tanto in tanto andava a sentirgli il polso. Passò nottate e nottate tra le sue carte, a riordinare, a prendere appunti, a scrivere le sue relazioni difensive. Lo stavano distruggendo giorno per giorno. Arrivò il momento di un nuovo collasso. Il medico del comando generale gli impose cinque giorni di immobilità a letto: due giorni dopo, d’ordine del ministro della Difesa, si presentarono in casa nostra i membri d’una commissione medica di controllo. Non si fidavano del malanno notorio e documentato che accusava un generale che per trentatré anni aveva servito con dedizione assoluta l’Arma dei carabinieri. I commissari proposero un riposo di tre mesi, l’inquirente diede un termine di cinque giorni. Mio marito compì ancora il suo dovere, rispettando quei termini spietati. Consegnò la sua relazione finale il 23 giugno 1969. Due giorni dopo fu chiamato a deporre dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti del ’64. Ancora una volta non volle sottrarsi al suo dovere. E il 25 giugno la sua voce si spense per sempre, nel palazzo di Montecitorio».
IL GIALLO CIGILERI–
Corrado Incerti - L’Europeo 1974 n. 6
La giornata è calda, afosa, fin troppo per essere alla fine di aprile. Manca un quarto d’ora a mezzogiorno. La Giulia 1600 del generale Carlo Ciglieri, un’auto civile targata Roma A 58988 intestata al Comando della III Armata, percorre la statale 47 tra Cittadella e Padova. Improvvisamente la Giulia sbanda a destra, tocca due paracarri, si impenna contro un platano, si rovescia in aria e rovina sul ciglio sinistro della strada. Il generale, sbalzato fuori dall’auto, giace riverso sull’asfalto. Morirà quattro ore dopo all’ospedale di Campo San Martino. È il 27 aprile del 1969, domenica, giorno di festa.
Già in passato L’Europeo ha rivelato alcuni particolari sul misterioso scioglimento della III Armata di Padova e sulla altrettanto misteriosa morte di quello che era il suo comandante nel 1969, il generale Ciglieri. Dunque, il generale Ciglieri, uno dei cinque massimi capi militari italiani, viaggiava quel giorno in borghese, senza autista, senza documenti, con in macchina una borsa di soldi. Sull’asfalto non furono trovati segni di frenata. E nessuno ha saputo dire da dove il generale venisse. Molti dissero che il generale amava correre forte con la macchina e che usava guidare di persona quella del Comando. Andava dunque forte, quel giorno, sulla statale 47, il generale Ciglieri?
Alla trattoria Serena c’è chi ricorda bene l’incidente. Un giovane ha anche visto l’auto del generale che arrivava. «La Giulia viaggiava tranquilla. No, non andava forte. Massimo, 70 all’ora. Di colpo ha virato a destra contro il platano ed è volata in aria. Sì, o malore improvviso o guasto meccanico su qualcosa a destra».
La Giulia del generale, dunque non andava forte né è vero che il generale la guidava spesso da solo. E non è che i documenti il generale Ciglieri non li avesse del tutto. Erano (ed è un nuovo grave punto interrogativo che si aggiunge alla vicenda) in un sacchetto di nailon nascosto nel portabagagli della Giulia. Nella macchina rovesciata, portabagagli spalancato, il sacchetto, ben visibile, era rimasto appeso al pianale. Lo si vede in quella fotografia pubblicata il giorno dopo dal Gazzettino. Fotografia il cui originale è scomparso: il giornale nei suoi archivi non ce l’ha più, né ce l’ha più l’archivio della Stradale di Padova. Nella foto si intravede accanto alla macchina rovesciata una grossa borsa. Conteneva soldi oppure quella borsa conteneva documenti dell’inchiesta sul Sifar sulla quale il generale avrebbe dovuto rendere testimonianza di lì a poco alla Commissione parlamentare d’inchiesta? Ciglieri nella sua carriera aveva comandato numerosi corpi di alpini, e mai aveva disertato un raduno nazionale. Nel 1969 il raduno nazionale si svolgeva proprio quella domenica mattina, a Bologna. Ma in via Irnerio mancava il più qualificato esponente del mondo militare alpino.
Una questione ben urgente doveva quindi aver spinto Ciglieri a disertare Bologna e a prendere invece, in quelle condizioni di clandestinità, la strada che porta al Grappa e al Montello. Sentiamo cosa dice l’ufficiale d’ordinanza di Ciglieri, il capitano degli alpini Dalgeggio: «Il generale avrebbe voluto andare a Bologna per il raduno degli alpini. Poi ci ripensò: sarebbe andato a Bassano del Grappa per la ricognizione di una villa nella quale avrebbe dovuto essere trasferito nell’estate il comando della III Armata».
Ciglieri, cioè, diserta il raduno nazionale degli alpini per andare a compiere, da solo, in borghese, in incognito, un’ispezione non urgente. È credibile questa versione? Ben poco. O non è più credibile che una chiamata lo abbia spinto a disertare Bologna e a trovare la morte sulla statale 47? Una chiamata di chi? E ancora: se è vero che Ciglieri si portava dietro i suoi documenti Sifar, chi li ha fatti sparire dalla macchina? Carlo Ciglieri, il 1° febbraio 1966, era stato nominato comandante generale dell’Arma dei carabinieri, al posto del generale Giovanni De Lorenzo. E con quella carica divenne l’inquirente militare più importante sulla vicenda Sifar.
Il 18 maggio 1967, dopo le rivelazioni di stampa sul luglio 1964, il ministro della Difesa Roberto Tremelloni incaricò Ciglieri di condurre un’indagine e di raccogliere “tutti gli elementi possibili per appurare se il comportamento dell’Arma in quella primavera-estate 1964, fosse stato anomalo o in ogni caso non conforme alle norme istituzionali dell’Arma”. Lo stesso giorno Ciglieri affida al suo vice, generale Giorgio Manes, il compito di condurre un’indagine nell’Arma sulla fuga di notizie.
LE “COLPE” DI CIGLIERI E MANES
Manes chiese relazioni scritte e firmate agli alti ufficiali dei carabinieri. Questi si lamentarono e Ciglieri intimò a Manes di limitare l’indagine, orale, alla fuga di notizie. Il 23 maggio inviò un appunto al ministro Tremelloni in cui, sostanzialmente, affermava che il comportamento dell’ex comandante generale (De Lorenzo) era consono ai compiti istituzionali dell’Arma. Ma aggiunse di avere notato “una tendenza, per motivi di sicura applicazione delle predisposizioni in ogni evenienza, a renderle attuabili in modo autonomo, al di fuori cioè dell’inserimento delle altre forze normalmente impiegabili in tali evenienze”, e precisa che è vera la presentazione, da parte del Sifar, di elenchi di “estremisti” contro i quali intervenire in caso di sommossa o di avvenimenti gravissimi. Tremelloni al Parlamento riferì che nel luglio del 1964 non era successo nulla di preoccupante... Mesi dopo, Manes presentò il tutto a Ciglieri e questi non trasmise il rapporto al ministro della Difesa. Perché? Ciglieri riteneva di aver già risposto al ministro (e gli aveva accennato a cose ben preoccupanti: un piano, le liste del Sifar) e aveva interpretato il silenzio dei politici come una volontà di far morire la cosa. Ma quando, alla fine del 1967, al processo De Lorenzo-L’Espresso saltò fuori l’esistenza del rapporto Manes, fu Ciglieri a pagare. E fu anche Manes. Il primo venne rimosso dal comando dell’Arma e mandato a Padova alla III Armata, il secondo fu sottoposto a procedimento disciplinare per essere andato, nella sua indagine, oltre il compito affidatogli. In pratica, per aver indagato troppo.
Il generale Ciglieri inviò al tribunale l’intero rapporto Manes il 22 dicembre 1967. Non pensò a “omissis”, quindi. Ma il giorno dopo chiese per lettera al tribunale di non renderli pubblici “per ragioni di principio”. Il 13 gennaio 1968 chiese al tribunale gli allegati del rapporto Manes per cancellazioni di carattere militare. Alla fine gli “omissis” furono 72 e per nulla attinenti al segreto militare.
Il caso Sifar, allora, finì in una bolla di sapone e per tutto il 1968 le richieste di costituire una Commissione parlamentare d’inchiesta furono respinte fino al 1969. La commissione fu costituita. Ma alla Commissione parlamentare d’inchiesta Ciglieri non riuscì mai a testimoniare: morì quella domenica d’aprile sulla statale 47. Due mesi dopo, il suo vice, il generale Manes, mentre si preparava a testimoniare davanti alla stessa commissione, si accasciò su una sedia e morì.
Crepacuore. Tre settimane dopo, l’ufficiale a lui addetto, il tenente Remo d’Ottavio, si sparò al cuore. Un anno prima, il suicidio di un ex potente del Sifar, il colonnello Renzo Rocca, aveva dato adito a pesanti sospetti, mai sopiti. Nemmeno oggi.