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 2015  febbraio 26 Giovedì calendario

MICHELE SINDONA


QUANDO: 20 marzo 1986.
DOVE: a Voghera (Pavia), quinto reparto del carcere femminile.
VITTIMA: Michele Sindona, 66 anni, muore in cella, avvelenato da un caffè al cianuro. Da Patti (Messina), era arrivato a Milano negli anni Cinquanta. Aveva creato la sua fortuna, grazie agli agganci con il Vaticano, il mondo politico e la mafia. Nel 1974, il crack: la Banca Privata Italiana fallisce; Sindona perde il controllo della Franklin Bank di New York ed è accusato di bancarotta fraudolenta.
MOVENTE: due giorni prima di morire, il finanziere riceve la notizia della condanna all’ergastolo come mandante per l’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli. Sindona è un testimone pericoloso, che personaggi importanti vedono ormai come una minaccia.
La sua fine è ancora avvolta dal mistero: suicidio o omicidio?
IL CASO È: archiviato, il 23 luglio 1987. La conclusione della magistratura di Pavia è: “suicidio attraverso la simulazione di un omicidio”.


TUTTI I PASSI FALSI DEL BANCHIERE–
Aldo Santini – L’Europeo 1974 n.34

L’avventura di Michele Sindona è al punto più basso. La crisi economica lo ha travolto, ponendo in drammatica evidenza i suoi errori. Il finanziere siciliano, considerato fino a ieri il protagonista più abile del mondo degli affari, è caduto in ginocchio. Dall’Italia aveva allargato il suo impero negli Stati Uniti, il suo mito luccicava d’oro anche a Wall Street, pareva che la sua scalata al successo dovesse stupirci ancora a lungo e che la sua firma costituisse una garanzia a prova d’inflazione. La statura di Sindona era ormai fuori della norma. Questo spiega il fragore del suo crollo. Ma non è tutto. Da oggi l’avventura di Sindona ci riguarda da vicino perché il declino del suo impero ha chiamato in causa l’Italia e gl’interessi del Paese, cioè i nostri quattrini.
Per capire la storia di Sindona bisogna partire dall’autunno 1971, quando l’affarista siciliano dà l’assalto alla Bastogi e il suo nome appare sulle prime pagine dei giornali. Gli italiani non lo conoscono, Sindona non era mai uscito dal limbo delle cronache economiche, e d’un tratto il Paese apprende che quest’uomo misterioso sfida i gruppi più potenti della finanza nazionale riuniti nella Bastogi: Montedison, Fiat, Italcementi, Borletti, Smec, Monte dei Paschi. La Borsa sembra colpita da un sisma. In Italia non si parla d’altro. Chi è Sindona? Chi c’è alle sue spalle? Sindona è nato a Patti (Messina) nel 1921, ha sposato una compagna delle scuole elementari, ha tre figli, si è laureato in legge a Messina, ha fatto i primi soldi con un camion Usa nel dopoguerra, trasportando arance. Sale a Milano nel 1947, dice di essere un esperto di problemi fiscali, collabora al quindicinale dell’Unione commercianti. Franco Marinotti lo prende alla Snia Viscosa e scopre che ha la stoffa del finanziere all’americana, nemico degli schemi e delle mosse codificate, un inventore di strategie. Lo mette nel consiglio della Snia e gli dà la vicepresidenza della Banca Privata Finanziaria, creata per le imprese disinvolte che diverrà lo strumento della potenza di Sindona. Marinotti non si sbaglia.

LA SCALATA
Le prime operazioni di Sindona dimostrano che l’uomo ha il tocco di Mida, trasforma in successo anche le manovre meno consigliabili. Sindona capisce prima degli altri che il capitale americano guarda con interesse al mercato italiano e realizza i suoi primi colpi. In Borsa cominciano a temerlo e ad ammirarlo. «È un gladiatore», dicono. «È un avventuriero». Ottiene una quotazione professionale anche allo Stock Exchange di New York. E nel 1968, quando il Vaticano cambia politica di investimenti e vende gran parte delle aziende dell’era Pacelli, è Sindona ad acquistare il 53 per cento della Generale Immobiliare, la società dello scandalo di Roma che negli Usa ha costruito il Watergate. Sindona acquista altri titoli del Vaticano, per venderli e guadagnarci. Esempio: ottiene la maggioranza delle Condotte d’Acqua e la cede all’Iri affidandone l’incarico all’agente di cambio Marzollo, del quale le banche di Stato avevano piena fiducia. Nel corso delle trattative, le azioni delle Condotte salgono di 200 punti. Firmato l’accordo precipitano. Poi Sindona rileva dal conte Vittorio Cini il pacchetto della Ciga (alberghi di lusso) e della Società Finanziaria di Sviluppo, una banca d’affari che insieme alla Privata gli consentirà una capacità di interventi proporzionati alla sua ambizione. Dietro Sindona ci sono gli Hambro inglesi che hanno finanziato il varo del regno d’Italia. C’e il gruppo Banque de Paris et des Pays Bas. C’è la Gulf & Western. C’è la Continental Illinois Bank di Cicero, molto legata al Vaticano e anche al Msi, che raccoglie i capitali dell’industria bellica Usa: il suo presidente è David Kennedy, ministro del Tesoro di Richard Nixon.
Sindona è già un big. Realizza affari maiuscoli (Rossari e Varzi, Pacchetti, Talmone-Venchi Unica) e, sostenuto dalla Hambro, abborda la Centrale, la ex elettrica che con i miliardi della sciagurata nazionalizzazione ha combinato molti disastri. Ora la Centrale è con l’acqua alla gola, il suo sindacato di controllo (Pesenti, Agnelli, Pirelli, la Bonomi Bolchini, Banca d’America e d’Italia) sa che venderla a Sindona è rischioso perché lo renderà troppo forte, ma non ha scelta. Con la Centrale in pugno, difatti, Sindona tenta il colpo della Bastogi, altra ex elettrica, diventata una holding di potenze multiple.

LA SCONFITTA CON LA BASTOGI
L’acquisto della Bastogi permetterebbe a Sindona: 1) di costituire una finanziaria Centrale-Bastogi da contrapporre all’intesa italo-francese-tedesca formata dal Banco di Roma-Commerzbank-Credit Lyonnais; 2) di puntare alla Montedison; 3) di cedere a Carlo Pesenti le azioni Italcementi del portafoglio Bastogi per trattare, in cambio, la sua squadra di banche. L’impero Sindona è già vasto. La Bastogi ne farebbe un colosso. Sappiamo quello che è accaduto. Sindona ha cominciato a rastrellare azioni Bastogi. Nel luglio 1971 ne aveva il 21,6 per cento. Il sindacato di controllo ne possedeva solo il 16. Ma il siciliano Enrico Cuccia, amministratore delegato di Mediobanca, artefice del matrimonio Montecatini-Edison, ha studiato con Eugenio Cefis una contromanovra e insieme hanno proposto la creazione di una grande Bastogi, incorporando tre ex elettriche minori, Italpi, Ses e Sges. Il capitale, così, sarebbe salito da 60 a 137 miliardi di lire e il pacchetto Sindona sarebbe stato diluito e reso inoffensivo. Sindona tenta di bloccare la fusione con la sconvolgente offerta pubblica di acquistare 20 milioni di azioni Bastogi a un prezzo superiore di mille lire a quello ufficiale, per un valore di 60 miliardi di lire. È il terremoto. Un’offerta pubblica di acquisto (Opa) è un’operazione sconosciuta per l’Italia, anche se piuttosto normale nei Paesi finanziariamente progrediti. La Hambro sostiene Sindona con tutto il suo peso. La vittoria sembra a portata di mano. Ma l’Opa non riesce, spiegherà Sindona, «perché in Italia il controllo politico sull’economia e sulle finanze prevale sulle leggi di mercato». L’intervento di Guido Carli (Banca d’Italia) e di Cefis (Montedison) è risolutivo. La Bastogi issa il tricolore. Sindona è sconfitto. Una sconfitta non economica, perché Sindona vende il suo pacco Bastogi alla Montedison e ci guadagna sopra, ma di prestigio. Gli Hambro si ritirano dalla Centrale e Sindona finisce per cederla al Banco Ambrosiano.
Deluso, Sindona abbandona l’Italia e, facendo perno sulla Lasco, la finanziaria che agisce indisturbata nel paradiso fiscale del Lussemburgo, trasferisce i suoi affari negli Usa. Agli amici di New York dice: «I motivi per cui ho combattuto tanto per il controllo della Bastogi, e me la sono presa col governo, con l’Iri, con Mediobanca, con la Montedison, erano di carattere ideologico. Io combatto tutti coloro che sono favorevoli alla nazionalizzazione. Mediobanca vuole infilare lo Stato in ogni sua operazione e io volevo tenercelo fuori. Ho combattuto per le mie idee, non per il danaro. L’opposizione del governo e della Banca d’Italia è stata dettata da un malinteso nazionalismo ed è stata ingiusta perché ha fatto il gioco dei centri di potere conservando poltrone ai dirigenti in carica invece di tutelare gli interessi dei risparmiatori. Non solo: ma, oltre a essere sbagliata, era anche illegale». Sindona apre l’ufficio a New York e stabilisce la sua residenza a Ginevra, per sottrarsi al fisco americano. Il settimanale Time lo definisce “l’italiano di maggiore successo dopo Mussolini’’ e questo dovrebbe farci riflettere sulla qualità del giornalismo Usa.

PERCHÉ È ANDATO IN AMERICA?
Sindona abbandona l’Italia solo per la delusione dell’Opa Bastogi? Di sconfitta non è l’unica causa del suo trasferimento. «Il mercato Usa», dice il finanziere a New York, «è la scelta più logica per un investitore dinamico: il dollaro, svalutato, è disponibile in grosse quantità sul mercato europeo, e l’economia americana è ancora tra le più valide e più aperte del mondo. Io cerco delle aziende in cui investire qualche centinaio di milioni di dollari per conto dei miei clienti europei». Sindona rovescia il modello dello zio d’America. Porta negli Usa il risparmio europeo e lo investe in società che non hanno sufficiente capitale per rilanciarle e in seguito rivenderle ai grandi gruppi. Ma chi sono i clienti di Sindona che investono centinaia di miliardi in America mentre l’economia italiana è in crisi proprio per mancanza di capitali? Si parla di famosi industriali. Si parla del Vaticano. Si parla della mafia. Sindona smentisce. Ma l’ente federale che sovrintende al controllo delle transazioni e delle emissioni del mercato mobiliare non ammette il principio della segretezza. Colui che acquista una società Usa deve avere un nome e un cognome.
Sindona, che in Italia non rilasciava mai dichiarazioni e tantomeno interviste, ora che è in America parla molto spesso ai giornalisti: «Se un banchiere europeo rivelasse sul conto dei propri clienti le informazioni che i suoi colleghi Usa sono tenuti per legge a rendere pubbliche, finirebbe immediatamente in galera. Il 95 per cento di miei clienti viene da me perché sa che sono capace di mantenere il segreto». «Io ho molti amici stanchi di investire in Italia e ansiosi di investire in America. Peccato che le autorità americane siano così decise a sapere da dove vengano i soldi».
E nel 1972 comincia la sua scalata Usa. Attraverso la Fasco acquista la maggioranza della Interphoto (distribuzione di prodotti fotografici), della Argus (apparecchi fotografici), della Seawy Hotels (alberghi in Canada), della Oxford Electric e, infine, il 26,6 per cento della Franklin New York Corporation che è la holding della Franklin National Bank (negli Usa le banche non sono quotate in Borsa: possono esserlo solo le holding che le posseggono). Dopo la banca, Sindona acquista la Talcott. La stampa americana commenta: “È stato un acquisto a sorpresa e ancora una volta Sindona si è dimostrato un maestro. I dirigenti della Talcott erano esitanti e alla riunione conclusiva gli hanno chiesto: quanto tempo le occorre per mettere insieme i capitali? Sindona ha risposto: mezz’ora. E mezz’ora dopo aveva la somma”.
Sindona pare ormai al vertice della sua potenza. La rivista Fortune scrive: “Questo mitico businessman ha consegnato freddamente un assegno di 40 milioni di dollari per diventare il maggior azionista della ventesima banca Usa e nove mesi dopo, per dare un altro colpo alla meravigliata comunità finanziaria di New York, ha sborsato altri 27 milioni di dollari in un’operazione lampo che lo ha visto acquistare la maggioranza di una grande società manifatturiera, la Talcott National Company”. E aggiunge: “La sua fortuna personale è stimata in circa 350 milioni di dollari”.

GLI AMERICANI SI FANNO SEDURRE
Si riprende a parlare dell’impero Sindona, del miracolo Sindona, del genio Sindona. Le università americane invitano Sindona a tenere conferenze economiche. Sindona acquista il Daily American, l’unico giornale in lingua americana d’Italia, e dà un ricevimento a Roma, al Grand Hotel, per i big americani presenti sulla piazza. Intervengono anche molte autorità italiane e molti monsignori. L’American Club of Rome gli conferisce il premio “Uomo dell’anno 1973”. Il premio gli viene consegnato dall’ambasciatore Usa in Italia, John Volpe. E Giulio Andreotti, durante una colazione offerta in suo onore a New York, lo elogia per il suo aiuto alla difesa della lira all’estero. Anche gli osservatori più smaliziati riconoscono che Sindona naviga sulla cresta dell’onda e che le operazioni più temerarie gli riescono con incredibile facilità. In Italia ha creato una conglomerata sposando la Pacchetti (concerie, macchine agricole, radio, tv) al suo ultimo acquisto nazionale, la Morassutti (fabbrica e distribuzione di ferramenta). Progetta di fondere le sue banche italiane, la Banca Unione (dove il Vaticano ha il 10 per cento) alla Banca Privata (dove la Continental Illinois Bank ha il 25 percento), che a sua volta controlla la Banca di Messina e la Finabank di Ginevra. Mette le mani sul 49 per cento della Maison Cartier di Parigi (gioielli e accendini), che gli permette di far concorrenza agli accendini della Saffa di Anna Bonomi Bolchini.
Compra il 43 per cento dell’Edilcentro-Sviluppo (da Moratti, De Benedetti, gruppo Bemberg, Banca della Svizzera Italiana controllata dalla Comit, eccetera) per fonderla con la Immobiliare e darle una dimensione finanziaria. E acquista la Finambro per trasformarla nella società madre del suo gruppo italiano. La Finambro era una società da niente, capitale un milione di lire, ed era finita nella cassaforte di un altro finanziere siciliano, Cosimo Viscuso, assieme alla Banca Generale di Credito. Viscuso aveva aumentato ufficialmente il loro capitale a 500 milioni di lire. Sindona acquista società e banca, mette alla presidenza della Finambro il professor Orio Giacchi, docente di diritto, amico di Amintore Fanfani, vicino all’Opus Dei, e chiede l’autorizzazione per aumentare il suo capitale a 160 miliardi di lire. Ma Sindona è davvero sulla cresta dell’onda? La Franklin è davvero “l’anello fondamentale della catena bancaria internazionale” di cui i collaboratori di Sindona parlano? Le agenzie che distribuiscono le notizie (raccomandate) dei successi di Sindona spiegano che “la Franklin è il coronamento di decenni di attività nel campo degli investimenti e della definitiva affermazione del suo impero”. Annunciano addirittura “nuove acquisizioni di banche, forse in Giappone, da collegare all’asse Banca Privata Italiana-Franklin Bank”. A partire dall’estate 1973, però, l’America comincia a dubitare delle pubblicizzate vittorie di Sindona. E circola la storia dell’offerta a Nixon. Nel novembre 1972, poco prima delle elezioni, Sindona prese contatto con Maurice Stans, tesoriere di Nixon, e gli offrì un milione di dollari. Era l’offerta più alta mai ricevuta da Nixon. Perché Sindona l’aveva fatta? «Per testimoniare la mia fede nell’America e in un amico degli italiani», avrebbe risposto. Ma la verità sarebbe un’altra. Fin dal 1972, per tenersi a galla, la Franklin ha evaso la rigorosa legge statunitense.
Fin dal 1972 sulla Franklin ci sono delle indagini governative imbarazzanti. Sindona acquistò la Franklin nel giugno 1972, in piena campagna elettorale, e chiamò a presiederla un uomo legato a Nixon, Harold Gleason. Volle poi per consigliere David Kennedy, ex ministro di Nixon, e scelse come studio legale il Mudge, Rose, Guthrie and Alexander di New York, ove lo stesso Nixon aveva lavorato e dove lavora il figlio di Gleason. E sia Gleason sia Kennedy sia i titolari dello studio legale sono amici intimi di James Smith, “controllore governativo delle valute”. E la Franklin è al centro di spregiudicate operazioni valutarie. Nixon dichiara di non aver accettato l’offerta di Sindona. Ma il New York Times ironizza che l’inchiesta sulla Franklin sia stata insabbiata, e rileva che Sindona ha una magnifica rete di relazioni col governo. Ed è sintomatico che le prime crepe dell’impero Sindona, negli Usa, affiorino con l’aggravarsi dello scandalo Watergate. Più Nixon precipita e più chiaro salta fuori che la Franklin va male, che Sindona l’ha acquistata a buon mercato ma ha pagato troppo il denaro per acquistarla, che i suoi fiduciari hanno compiuto operazioni sbagliate e che la legge Usa da lui lodata per la sua intransigente giustizia lo obbliga a rinunciare ai "numeri” più sicuri del proprio repertorio.

COMINCIA IL CROLLO
È vero, il crollo di Nixon coincide col crollo di Sindona, ma se Nixon non fosse caduto nell’ingloriosa trappola del Watergate, Sindona sarebbe entrato in crisi ugualmente. Semmai la crisi sarebbe stata ritardata, nulla di più. Nel maggio 1973 la Franklin è all’ultimo posto della classifica delle 110 maggiori banche Usa. Un anno prima, quando Sindona l’aveva acquistata, era al ventesimo. D’un tratto sembra che la fortuna abbandoni Sindona. Il ministro del Tesoro Ugo La Malfa blocca gli aumenti di capitale delle finanziarie per timore che vengano rastrellati risparmi utilizzabili nelle attività industriali. La Malfa vuole soffocare le speculazioni. Carli è d’accordo. Ma i collaboratori di Sindona ripetono che l’autorizzazione sarà concessa e, nell’attesa del “sì”, le banche (perfino alcune banche di diritto pubblico) raccolgono i fondi per l’aumento del capitale distribuendo agli investitori azioni che non esistono. Sindona è certo del “sì”. Ma il segretario del Pri resiste e per Sindona è un colpo micidiale. Ne verranno altri. Il 1974 sarà terribile per lui.
Per Sindona il 1974 segna tempesta. Negli Usa la Franklin sospende le quotazioni azionarie e decide di non pagare dividendi, le autorità finanziarie sono costrette a soccorrerla, il New York Times spara a zero sul tentativo di Sindona di corrompere Nixon. Alcuni analisti di Wall Street dicono: «Sindona non ha fatto guadagnare un cent ai suoi azionisti. E la Franklin, con la Talcott, gli è già costata 55 milioni di dollari». Il Banco di Roma lo salva dal crack con un prestito di 100 milioni di dollari. Ma aspettiamo a scrivere che Sindona è finito.
L’uomo ha molte risorse. Intanto sappiamo che il salvataggio è stato compiuto dal Banco di Roma di Nassau il quale, legalmente, è un istituto straniero e perciò non è soggetto al controllo della Banca d’Italia. Ma il parere di Carli è stato chiesto ugualmente. E Carli lo ha dato favorevole. Sappiamo anche che, nei posti chiave dell’impero Sindona, sono stati piazzati i controllori del Banco di Roma.