Valentina Strada, L’Europeo: Cronaca Nera, n.4 2006 - anno V, 26 febbraio 2015
ENRICO MATTEI
QUANDO: 27 ottobre 1962.
DOVE: a Bascapè, in provincia di Pavia.
VITTIMA: Enrico Mattei, 56 anni, di Acqualagna (Pesaro), è bordo del Morane Saulnier 760 I-SNAP, partito da Catania e diretto a Linate. Il velivolo precipita, dopo uno scoppio. Assieme al presidente dell’Eni, muoiono il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista William Mac Hale. Nel 1953 Mattei, che è stato partigiano, viene messo a capo dell’Eni.
MOVENTE: il pm di Pavia, Vincenzo Calia, ha scritto che «l’esecuzione dell’attentato venne pianificata quando fu certo che Enrico Mattei non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’Eni». Ci sono molte teorie su chi volesse morto il petroliere, ma nessuna viene dimostrata in modo inoppugnabile. Secondo il pentito Tommaso Buscetta, la mafia americana chiede a Cosa nostra il favore di eliminare Mattei, nell’interesse delle maggiori compagnie petrolifere americane. Un’altra pista punta su quei circoli politici ed economici, anche di estrema destra, che non condividono il suo ruolo di finanziatore della politica italiana e gli stretti rapporti intrecciati con Paesi come Algeria e Unione Sovietica.
IL CASO È: archiviato nel 2005 da Fabio Lambertucci, giudice delle indagini preliminari di Pavia. All’inizio le indagini avevano accreditato la tesi dell’incidente, nonostante le perizie dell’epoca indicassero due ipotesi: manomissione dell’altimetro o bomba. Dopo 32 anni, le rivelazioni dei pentiti fanno riaprire l’inchiesta. I giudici concludono che si è trattato di un attentato, meglio di un sabotaggio, reso possibile da complicità dei servizi segreti italiani e di esponenti dell’Eni. Ma gli investigatori non hanno le prove per indicare i mandanti. Archiviazione inevitabile.
E SE IL CASO FOSSE APERO?–
Valentina Strada – L’Europeo 2006 n.4
È l’intreccio di due misteri italiani. Dal processo per la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro (1970), in corso mentre questo numero de L’Europeo va in stampa, presso la Corte d’assise di Palermo (in trasferta nell’aula bunker del tribunale di Roma), potrebbero uscire notizie di rilievo anche per la soluzione di un altro inquietante mistero italiano, la morte del presidente dell’Eni, Enrico Mattei (1962).
Ricostruiamo i fatti. La sera del 27 ottobre 1962 il bireattore giallo Morane Saulnier 760 I-SNAP del presidente dell’Eni, partito alle 16.57 da Catania Fontanarossa, è diretto a Milano Linate. Nell’abitacolo a quattro posti, sotto la cupola trasparente con vista cielo, Mattei è seduto davanti; al suo fianco il comandante Irnerio Bertuzzi, pilota esperto (oltre 11mila ore di volo e 751 atterraggi a Linate al suo attivo); dietro, il giornalista americano William McHale, inviato di Time, al seguito di Mattei per quel breve viaggio in Sicilia. Piove. Ma il volo è regolare. Per il presidente dell’Eni la trasferta siciliana era stata impegnativa (incontri con autorità locali, pranzi di lavoro, un nuovo impianto da inaugurare), ma quel pomeriggio, rientrando, sente d’aver fatto qualcosa di concreto per la gente dell’isola. È soddisfatto. «Richiamate i figli emigrati», aveva pronunciato la mattina, in un discorso a braccio, davanti alla folla che lo ascoltava in piazza durante la manifestazione per l’avvio del nuovo impianto di Gagliano, in provincia di Enna. «Qui ci sarà lavoro per tutti».
Improvvisamente, alle 18.57, quando manca poco più di un minuto all’atterraggio, sotto qualche scroscio di pioggia intermittente e folate di nebbia, l’aereo scompare dai monitor della torre di controllo. Scatta l’allarme, ma i soccorritori trovano solo rottami del velivolo e resti umani sparsi ovunque tra filari di pioppi, in un campo di Bascapè, piccolo centro agricolo in provincia di Pavia.
Unico testimone, il contadino Mario Ronchi, che subito dice d’aver visto il cielo rosso come per un grande falò, con fiammelle che scendevano tutt’intorno, ma tre giorni dopo ritratterà affermando che l’aereo era sì in fiamme, ma già a terra.
La tesi dell’esplosione nel cielo sopra Bascapè verrà confermata otto anni dopo da un’altra contadina, Margherita Maroni, che, rintracciata nel 1970 dai giornalisti di Panorama, racconterà d’aver udito uno scoppio e d’aver visto scintille che cadevano dal cielo come stelle filanti, come piccole comete. «In otto anni nessuno aveva mai raccolto ufficialmente la sua testimonianza», ha scritto Sandro Provvisionato, giornalista de L’Europeo, esperto nei buchi neri della storia del nostro Paese, nel suo libro Misteri d’Italia. Cinquant’anni di trame e delitti senza colpevoli (Laterza).
Il riferimento ai misteri d’Italia non è casuale, perché a questo punto la storia di Mattei s’intreccia con quella di Mauro De Mauro, il giornalista de L’Ora di Palermo le cui tracce si perdono la sera del 16 settembre 1970 quando, subito dopo aver parcheggiato la sua Bmw sotto casa, riparte di colpo con due passeggeri sconosciuti. Da quella sera, in casa De Mauro comincia un’attesa angosciosa, snervante e lunghissima anche contro ogni legittima ma irragionevole speranza, che è andata lentamente stemperandosi in un desiderio mai sopito di giustizia. Il 4 aprile di quest’anno, infatti, presso la Corte d’assise di Palermo è cominciato finalmente, dopo 36 anni, il processo per la morte di De Mauro. Imputato: Totò Riina, in videoconferenza dal carcere di Opera (Milano).
De Mauro era un bravo “inchiestista”. Quarantanove anni, un passato da fascista e repubblichino (era stato nella X Mas di Junio Valerio Borghese e poi aveva aderito alla Repubblica di Salò), per ricostruirsi una vita, nel dopoguerra aveva cominciato a fare il cronista e verso la fine degli anni Cinquanta viene assunto a L’Ora, quotidiano di sinistra, dove chiudono un occhio sul suo passato. E lui ripaga la fiducia occupandosi con accanimento di un tema scottante: la mafia. Il lavoro gli piace ma è davvero logorante. E proprio in un momento di stanchezza professionale arriva un incarico che lo rivitalizza: il regista Francesco Rosi vuole girare un film su Mattei (Il caso Mattei, 1972) e gli affida la ricostruzione dettagliata degli ultimi due giorni di vita del presidente dell’Eni in Sicilia.
De Mauro lavora sodo, il tema lo appassiona: raccoglie molto materiale, ma non riesce a completare il lavoro per Rosi perché, come il presidente dell’Eni, anch’egli scompare in un buco nero.
La moglie di De Mauro, Elda, riferirà a Sandro Ottolenghi, inviato de L’Europeo, che il marito aveva detto a un amico di famiglia d’aver tra le mani una cosa importante «che gli avrebbe procurato una laurea in giornalismo» (L’Europeo n. 41/1970) e a Enzo Magrì, altro inviato del nostro giornale, d’aver appreso dal marito, durante le sue ricerche per Rosi, un segreto che, secondo lui, avrebbe dovuto «far tremare l’Italia» (L’Europeo n. 21/1971).
Anche Junia, una delle due figlie di De Mauro, raccontò che il padre due giorni prima di scomparire le aveva detto: «Ho scoperto che...» (L’Europeo n. 7/1972) e, più recentemente, al giornalista Felice Cavallaro, l’altra figlia, Franca, ha confermato che una sera in cucina, mentre stava sparecchiando la tavola, sentì il padre pronunciare la frase «Ho scoperto chi ha fatto fuori Mattei» (Io donna n. 17/2006). Chi ha fatto fuori Mattei? A caldo, la prima ipotesi è la più scontata: incidente aereo. Ma subito dopo, ecco altre teorie, assai più inquietanti: un attentato compiuto dall’Oas (l’organizzazione di estrema destra degli ex coloni francesi in Algeria), dallo Sdece (l’intelligence francese), dalla Cia, da Cosa nostra per conto o per fare un tacito favore alle Sette sorelle (Standard Oil of New Jersey – poi Esso – Texaco, Gulf, Socal – oggi Chevron – Mobil, Royal Dutch Shell e British Petroleum, le maggiori aziende padrone del petrolio) oppure, sempre dalla mafia, per controllare e sfruttare l’espansione dell’Eni in Sicilia. Tanti possibili mandanti, tutti con lo stesso movente: togliere di mezzo un personaggio scomodo e ingombrante come Mattei.
La commissione d’inchiesta dell’aeronautica militare, che si mette subito al lavoro dopo la tragedia, stabilisce frettolosamente (dopo solo sei mesi), che si è trattato di un incidente dovuto forse a un malore del pilota. L’indagine della magistratura dura un po’ di più (fino al 7 febbraio 1966), ma la conclusione è la stessa: disastro accidentale. Nessuno, forse neppure gli stessi membri delle due commissioni, crede a questa verità. Negli anni seguenti, ogni tentativo di far luce su quel che è accaduto naufragherà in un vortice di omissioni e depistaggi.
Nel 1991 l’interesse per la morte di Mattei, mai sopito del tutto, ha un sussulto quando un magistrato di Palermo chiede al tribunale di Pavia la trasmissione degli atti sulla vicenda. Ma dagli archivi giudiziari esce solo una cartellina striminzita anziché i due faldoni monumentali con allegate le perizie. “Tutto sparito. Uno degli archivisti più anziani ha ricordato che tra il 1973 e il 1974 agenti del Sid portarono via praticamente tutti gli atti”, scrive Provvisionato.
Peraltro, nessuna delle ipotesi esplorate a tutt’oggi viene provata. Quella dell’incidente aereo resta in piedi, sia pure un po’ zoppa, fino al 1994, quando un magistrato di Pavia, Vincenzo Calia, decide di riaprire le indagini. Il magistrato era stato colpito da alcune rivelazioni del boss Tommaso Buscetta e di un altro mafioso pentito, Gaetano Ianni, che aveva attribuito la collocazione della bomba nel carrello dell’aereo di Mattei ad alcuni uomini del capomafia Giuseppe Di Cristina.
Nel febbraio 2003, dopo un lavoro durato quasi dieci anni, Calia chiude con una conclusione clamorosa: l’aereo di Mattei è caduto per un attentato (l’esplosione di una bomba collocata a bordo) concepito da ignoti e compiuto con il coinvolgimento di persone interne all’Eni e di altre appartenenti a organismi di sicurezza dello Stato. Un complotto, quindi. Tutto italiano.
Un complotto che, tuttavia, nessuno riesce a provare. Le fondamentali scoperte della procura di Pavia infatti non hanno seguito e, nonostante l’ostinata ricerca della verità perseguita nel tempo da alcuni famigliari di Mattei, al sostituto procuratore Calia non resta che chiedere di archiviare tutto; archiviazione concessa l’11 aprile 2005 dal gip di Pavia, Fabio Lambertucci, che scrive così la parola fine al caso Mattei. A meno che, come si è detto, dal processo per la scomparsa di De Mauro, non escano nuove rivelazioni.
Chi era Mattei? Marchigiano di Acqualagna (Pesaro), dove era nato il 29 aprile 1906 da una famiglia modesta, Mattei era il primo di cinque figli. Crebbe tra il paese natale e Matelica, dove la famiglia si era poi trasferita. Poca voglia di studiare, molta voglia di crescere in fretta, molta voglia di autonomia, s’ingegnò a fare diversi mestieri secondo il manuale dell’uomo-che-vuol-farsi-da-sé. Levigatore, verniciatore, cameriere e attore durante una fuga giovanile a Roma, a vent’anni era operaio in una conceria e in pochissimo tempo ne diventò il direttore. Poi divenne rappresentante di commercio per l’azienda di vernici Max Meyer. Alto, elegante, capelli ben curati (aveva sempre un pettinino a portata di mano), imparò presto l’arte della trattativa, del guadagnarsi la fiducia dei clienti, del portare a casa risultati: una business school di strada.
Da piazzista a imprenditore (titolare dell’Industria chimica lombarda). Nel 1931 s’iscrisse al partito fascista. La favola del self-made man alla vigilia della guerra sembrò però interrompersi. A Milano, dopo aver preso un diploma da ragioniere studiando la sera, Mattei frequentò l’università Cattolica, dove incontrò Ezio Vanoni e il conterraneo (di Matelica) Marcello Boldrini, che diventarono i suoi mentori.
Cattolico per formazione, dopo essere uscito dal partito fascista, Mattei viene attratto dal partito popolare (1943) e dal dibattito interno sui valori del cattolicesimo democratico e la responsabilità sociale dell’imprenditore cristiano. Così, quando la Resistenza chiama tra le sue fila anche i partigiani “bianchi”, Mattei è pronto.
Molto attivo nella lotta, diventa comandante del Corpo volontari per la libertà e, dopo la liberazione di Milano, può sfilare in testa al corteo del 6 maggio 1945, a fianco di Luigi Longo, Ferruccio Parri e Raffaele Cadorna.
Mattei sembra ormai preso da passione politica quando, altra sterzata, accade che i suoi amici di partito (tra cui Cesare Merzagora), un po’ per il contributo dato alla Resistenza, un po’ perché era già del mestiere, lo facciano nominare commissario della Snam e dell’Agip (1945) col compito di liquidare le attività di quest’ultima, l’azienda statale per il petrolio fondata da Mussolini nel 1926, un “carrozzone” costoso che aveva scavato pozzi ovunque e trovato nulla.
La fine dell’Agip era fortemente voluta da gruppi privati, come la Edison e la Montecatini, e dai petrolieri del cartello delle Sette sorelle. Ma Mattei è persona lungimirante, capace di cogliere al volo buone opportunità e poco incline a essere comandato. Quindi disobbedisce. Il suo nuovo sogno è quello di dare al Paese l’energia sufficiente per i bisogni delle famiglie e delle imprese a prezzi inferiori rispetto a quelli condizionati dai potenti oligopoli internazionali.
Per fare questo occorre recuperare lo svantaggio rispetto alla concorrenza internazionale e creare un’impresa nazionale per l’energia. Quindi l’Agip riprende le trivellazioni abbandonate a causa della guerra e a Caviaga, in Val Padana, trova il metano. Per l’industria quel gas era una risorsa pressoché sconosciuta, quindi nascono alcune perplessità sul suo impiego; alla fine se ne avvantaggiano proprio le imprese, ma anche le famiglie italiane cominciano a preferire la bombola a gas invece della vecchia stufa a legna e carbone.
Inoltre, colpo di teatro (forse orchestrato con astuzia dallo stesso Mattei, gran comunicatore), a Cortemaggiore il 12 giugno 1949, proprio durante la visita ufficiale di Ezio Vanoni, allora ministro delle Finanze, da un pozzo zampilla improvvisamente il petrolio. I giornali suonano la grancassa. La quantità è scarsa, in verità, ma basta per dare il via alla storia di Mattei petroliere.
L’esigenza di ricostruire il Paese, devastato dalla guerra, accende in quegli anni un confronto molto animato sul ruolo dello Stato imprenditore. Vincendo le resistenze di chi spingeva per favorire l’iniziativa privata, nel 1953, grazie soprattutto a Ezio Vanoni e con la benedizione di De Gasperi, nasce l’azienda statale Eni, Ente nazionale idrocarburi, che incorpora l’Agip.
Italo Pietra, nella biografia dedicata al presidente dell’Eni (Enrico Mattei, la pecora nera, Sugarco, 1987), ha scritto: “L’Eni pone inizio al sistema delle partecipazioni statali e affida a Mattei uno strumento mai visto, che ha l’autonomia di una holding privata e che è indubbiamente la punta della lancia pubblica. Agli occhi dei profani assomiglia All’Iri, ma è un’altra cosa. Può operare direttamente e non solo attraverso le società dipendenti; può provvedere al fabbisogno di capitali emettendo obbligazioni; può contare sul cospicuo autofinanziamento assicurato dalla produzione del metano”. Mattei ha 47 anni e si dimette da deputato (era stato eletto nel 1948 nelle file del Partito popolare nella circoscrizione Milano-Pavia) per occuparsi a tempo pieno della sua nuova creatura. Lo definiscono: sovrano autorevole e autoritario, incorruttibile corruttore, “pragmatico visionario”, corsaro del petrolio, opportunista, populista, “uno che non badava al sottile quando voleva raggiungere i suoi scopi e che si liberava con ogni mezzo degli impacci che lo frenavano” (Luigi Barzini a Enzo Biagi, L’Europeo n. 7/1972).
Lo “stile Mattei” ha due facce: quella dell’imprenditore illuminato, un po’ paternalista e generoso, e quella del capitalista spregiudicato e senza regole. La prima è stata ben descritta da Luigi Barzini (L’Europeo n. 44/1962): “Diede lavoro dignitoso a migliaia di persone, sviluppò iniziative e attività sconosciute da noi, portò la prosperità in zone miserabili, assunse giovani scienziati capaci, creò città nuove dal nulla, seminò a piene mani stazioni di servizio, motel, fabbriche, laboratori, aziende, uffici. Creò impianti esemplari, aziende sussidiarie, compagnie di navigazione, di costruzione di pipelines, società petrolchimiche. Diede all’Italia un nuovo volto giovane, ottimista, prospero”. Un esempio? Quando Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, dicendosi “ispirato dallo Spirito Santo” per far leva sulla religiosità di Mattei, gli chiede di accollarsi la fabbrica meccanica Pignone, in crisi irreversibile con conseguenze gravissime per le famiglie del territorio, Mattei la rileva e la rimette in grado di marciare a pieno ritmo. A Enzo Biagi, che lo incontra a Metanopoli (San Donato Milanese) nel 1958 per un’intervista, dice compiaciuto, mostrando dall’alto del palazzo la pianura sottostante: “Vede, ho voluto una città intera per i miei operai. Hanno tre camere e il bagno, come gli impiegati, e campi da tennis, piscine, stadio, chiesa. Qui siamo tutti uguali e, quando il lavoro è finito, ognuno deve potersi mettere una camicia bianca”.
Quanto alla spregiudicatezza, Mattei è un maestro. Lui stesso si vantava d’aver violato più di 8mila leggi e ordinanze. Accusato di dare quattrini ai partiti in cambio di favori (guadagnandosi la fama di “inventore della corruzione politica in Italia”) e di finanziare così anche i fascisti del Movimento sociale italiano, rispondeva secco: «Io uso i partiti come un taxi. Salgo, pago la corsa e scendo».
Neocommissario dell’Agip, non esita a mandare squadre di operai su terreni privati e comunali perché scavino senza autorizzazioni, di nascosto, di notte, lunghe trincee per interrarvi chilometri di tubazioni di nuovi gasdotti abusivi (quand’era necessario, ricorreva al “fatto compiuto”). Accadde, per esempio, a Cremona dove, la mattina dopo gli scavi, il sindaco della città, stizzito, chiese che ricoprissero alla svelta la trincea (intanto i tubi erano stati stesi) e che andassero tutti al diavolo. Mattei spesso la faceva franca; quando qualcuno protestava, gli offriva come risarcimento una stazione di servizio, un posto di lavoro, una raccomandazione. «Ero deputato e non potevano mettermi in prigione», spiegava amabilmente. Le leggi ad personam non erano ancora di casa in Parlamento, ma l’illegalità era già ben tollerata. Mattei non aveva tuttavia un tornaconto economico personale, anche i suoi nemici gliene davano atto: lui amava soprattutto il potere.
Dei soldi gli importava solo che gli dessero da vivere. Il suo stile di vita era sobrio, quasi francescano. Non cercava di nascondere la sua passione per le donne (fu sfiorato dallo scandalo delle “squillo” di Mary Fiore scoppiato nel 1961 a Roma). Viveva nella capitale, con la moglie Margherita (detta Greta) Paulas, ex ballerina viennese, in un piccolo appartamento dell’hotel Eden. Non aveva figli: l’unico era nato prematuro e non era sopravvissuto. Beveva un bicchiere di vino ogni tanto, non fumava, spesso andava in ufficio guidando personalmente la sua Giulietta Alfa Romeo.
I collaboratori che “l’ingegnere” (Mattei aveva ricevuto più di una laurea honoris causa) mano a mano reclutava, tutti giovanotti al massimo trentacinquenni, potevano naturalmente dire la loro, ma poi si dovevano adeguare al “Vangelo secondo Mattei”. Qualcuno era suo conterraneo e per questo accadeva che l’acronimo Snam (Società nazionale metanodotti) venisse tradotto scherzosamente in “Siamo nati a Matelica”. Per i giovani aveva creato scuole di formazione a ogni livello, da quello per specializzare operai a quello dirigenziale. Quando le moderne business school erano di là da venire, essere manager all’Eni equivaleva al più prestigioso dei titoli accademici.
Innovatore a 360 gradi, Mattei è stato tra i primi a credere nella comunicazione. Finanziò la nascita de Il Giorno, uscito a Milano il 21 aprile 1956, quotidiano innovativo nei contenuti, nel linguaggio e nella grafica, cui affidare, quando occorreva, l’immagine e gli interessi dell’Eni in Italia e all’estero. Così poteva rispondere ad attacchi come quelli di una campagna di stampa violenta e allarmistica che lo aveva accusato di mettere in pericolo la Val Padana e la sua agricoltura con tutti quei pozzi nelle campagne.
Quanto all’immagine dell’Eni, Mattei aveva punte di pignoleria così estreme da andare talvolta perfino a controllare di persona la pulizia delle toilette e l’efficienza delle pompe di benzina Agip nelle stazioni di servizio, che aveva voluto sul modello di quelle viste negli Stati Uniti. Gli piaceva molto lo stile di vita americano. Dall’America importò anche l’idea dei MotelAgip. Proprio un mese prima della sua morte era stato inaugurato il penultimo tratto dell’Autostrada del Sole (Frosinone-Caserta), opera che, con “Supercortemaggiore, la potente benzina italiana” del cane nero a sei zampe, accorciava le distanze nel nostro Paese diventando uno dei simboli della motorizzazione e del boom economico. In Italia, verso Mattei s’erano formati sentimenti opposti: di gratitudine, di tolleranza, di ostilità. “L’ingegnere” aveva fatto molte cose buone. Ma la sua smania per il potere e la spregiudicatezza nel gestire la politica industriale dell’Eni, in Italia e fuori, gli avevano procurato nemici ovunque. Uno era di casa: Eugenio Cefis, vicepresidente della Snam, anch’egli ex partigiano.
Cefis aveva idee diametralmente opposte a quelle di Mattei, soprattutto sulla chimica, e diceva che Mattei era entrato in quel settore più per creare occupazione e acquisire benemerenze presso la classe politica, che per autentica vocazione imprenditoriale (da un’intervista rilasciata a Dario Di Vico, del Corriere della Sera, nel dicembre 2002).
Ma anche i “palazzi” della politica e dell’imprenditoria privata gli creavano qualche preoccupazione. A Roma, per esempio, le Sette sorelle cercavano di sfruttare ogni brezza a lui contraria grazie a Gare Boothe Luce, la potentissima ambasciatrice di Washington nella capitale, donna di cultura, ma anche di trame politiche e di business. Democristiano di sinistra, Mattei aveva imparato a destreggiarsi tra le diverse anime centriste. Non tutte lo amavano. Anche la Confindustria gli era ostile. Tre mesi prima della morte aveva dovuto subire, per esempio, gli attacchi pesanti che gli aveva lanciato Indro Montanelli dalle colonne del Corriere della Sera, voce della grande borghesia industriale e finanziaria milanese. Quando è accaduto “l’incidente” di Bascapè, Mattei, il cui potere alla testa dell’Eni ultimamente era messo in discussione, aveva davanti ancora pochi mesi di incarico, e si sapeva (i suoi avversari, soprattutto) che egli non aveva alcuna intenzione di mollare. Lo sapevano le Sette sorelle, che aveva fortemente irritato, prima contrastando la loro espansione in Italia, poi con la sua politica mediorientale, terzomondista, e vicina all’Unione Sovietica (per quest’ultima era inviso anche alla Cia, che ne sorvegliava ogni mossa). Era andato a cercare petrolio in Libia, Egitto, Giordania, Unione Sovietica, offrendo a quei Paesi condizioni contrattuali molto più favorevoli di quelle stabilite dal cartello anglo-americano delle Sette sorelle. In Tunisia, Marocco e Algeria aveva fatto anche di più: si era intromesso nei loro affari interni e internazionali raccogliendo onori, ma anche molte critiche. Aveva appoggiato, per esempio, il Fronte di liberazione nazionale algerino nella lotta per l’indipendenza contro la Francia di Charles de Gaulle.
Con la Persia di Reza Pahlavi, per consolidare ulteriormente l’alleanza commerciale dicono che, oltre a più sostanziose royalties, avesse osato perfino mettere sul piatto della bilancia anche il matrimonio combinato fra lo Scià, ossessionato dal problema dinastico, e la principessa Maria Gabriella di Savoia. Prevedendo la crisi energetica futura, aveva fatto anche i primi passi nel campo del nucleare, facendo costruire la centrale di Latina. Un infaticabile globetrotter che, appena gli impegni glielo permettevano, si rifugiava in alto Adige, ad Anterselva, pochi chilometri da Brunico, dove aveva la sua unica casa di proprietà in un grande parco in cui, nel fine settimana, gli piaceva accudire personalmente gli animali. E praticava l’altra sua grande passione, la pesca alla trota (quando aveva voglia di prede più grosse andava a pescar salmoni in Canada o in Irlanda). Talvolta era suo ospite il comandante Bertuzzi, pilota dell’aereo dell’Eni che, senza darlo a vedere, con la lenza non si impegnava troppo. Mattei voleva sempre vincere.