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 2015  febbraio 26 Giovedì calendario

IL PETROLIO A BUON MERCATO

Sembrava un destino inesorabile: petrolio sempre più scarso e dunque sempre più caro. Ma a sgretolare ogni certezza sono bastati pochi mesi. Dall’estate scorsa il prezzo del barile ha cominciato a scendere a precipizio, fino a perdere più del 60 per cento. Un po’ come nel 2009, solo che all’epoca i mercati finanziari erano al collasso e il mondo intero era in recessione. Oggi non si può dire che l’economia globale scoppi di salute, ma di certo le sue condizioni non sono precarie come allora. Eppure gli analisti sembrano fare a gara a chi è più ribassista: qualcuno si aspetta di veder scivolare il petrolio addirittura a 20 $ quest’anno. E quasi tutti sono convinti che il ritorno a un prezzo a tre cifre sia un traguardo molto lontano.
Che cosa è successo per capovolgere così velocemente il quadro delle previsioni? In realtà non c’è stato un singolo evento improvviso, ma una serie di fenomeni che si sono sviluppati gradualmente e che in parte erano visibili già tempo. Solo di recente sono tuttavia balzati agli occhi degli investitori: dopo anni di scommesse al rialzo, la speculazione - questo sì, all’improvviso - si è convertita a posizioni ribassiste e sul petrolio hanno cominciato ad abbattersi violente ondate di vendite, interrotte ogni tanto da fasi di “riacquisto”. La più rilevante, nelle ultime settimane, ha consentito un recupero di oltre il 30% dai minimi di dicembre, intorno a 45 $/barile. Ma la volatilità resta molto alta e sembra prematuro pensare a un’inversione di tendenza. Perché il mercato del petrolio è cambiato davvero, anche se la speculazione ci ha messo lo zampino.
La novità più clamorosa sulla scena è lo shale oil: il petrolio racchiuso in rocce argillose - o scisti - che solo da qualche anno si è scoperto come estrarre in modo efficiente, con il fracking (fratturazione idraulica) e la trivellazione orizzontale. Negli Stati Uniti il successo ha superato ogni aspettativa. Dal 2008 la produzione di greggio di Washington è cresciuta di oltre 4 milioni di barili al giorno (mbg), superando 9,2 mbg: un record da oltre trent’anni, che l’ha messa in competizione diretta con giganti petroliferi come la Russia e l’Arabia Saudita.
Negli Usa la legge limita tuttora l’export di petrolio greggio, ma la crescente autosufficienza energetica degli americani ha comunque “liberato” un’enorme quantità di forniture, in un momento in cui i consumi, persino in Cina, erano fiacchi: la domanda petrolifera mondiale l’anno scorso è cresciuta di appena mezzo milione di bg, il minimo da 5 anni. Con tanta produzione, il risultato non poteva che essere un surplus di offerta. Oggi si stima che sul mercato arrivino ogni giorno 1,5-2 milioni di barili di petrolio in più rispetto a quanto ne serva. Non a caso le scorte stanno crescendo a dismisura: negli Usa sono a livelli che non si vedevano addirittura dagli anni 30.
Nel passato, in situazioni analoghe, l’Opec spesso è intervenuta tagliando la produzione. Ma al suo ultimo vertice, il 27 novembre, ha deciso di non fare nulla: una scelta cruciale, dettata dalla convinzione che di fronte alla sfida dello shale oil fosse inutile sacrificarsi per far risalire i prezzi. Meglio lottare in difesa delle quote di mercato, ha pensato l’Arabia Saudita, trascinando dalla sua parte il resto dell’Organizzazione: lasciar crollare il petrolio provocherà la resa dei concorrenti che sopportano i costi di estrazione più elevati, come i produttori di shale oil o quelli di sabbie bituminose in Canada. Il ragionamento fila, ma forse l’Opec ha sottovalutato quanto la battaglia potesse rivelarsi lunga e dolorosa. Le compagnie petrolifere hanno già tagliato investimenti per decine di miliardi e fermato centinaia di trivelle, soprattutto negli Usa. Ma la produzione per ora non cala. E il petrolio a buon mercato, se dà sollievo ai consumatori, rischia però di travolgere economie importanti, come quella russa. Con tutte le conseguenze che potrebbero derivarne.
Sissi Bellomo