Fausta Chiesa, Style 3/2015, 25 febbraio 2015
LO SCIENZIATO: ROBERTO CINGOLANI
«La tecnologia aiuterà a creare un futuro per chi vuole restare sulla Terra e a costruire un mezzo per chi vorrà andare via, su altri pianeti». Roberto Cingolani, scienziato, dirige da quando è attivo, nel 2005, l’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit), fiore all’occhiello della ricerca italiana, strutturato secondo gli standard dei grandi istituti europei. Nei laboratori del centro di ricerca, che ha la sede principale in un ex edificio dell’Agenzia delle entrate nel quartiere Bolzaneto a Genova, il fisico milanese esperto di nanotech è impegnato assieme a 1.400 ricercatori a trovare soluzioni per quegli uomini che resteranno sulla Terra. Ed è «imitando» i meccanismi dell’evoluzione della vita che Cingolani è convinto di trovare le risposte ai problemi di domani: sovrappopolamento, invecchiamento, carenza di acqua, scarsità di cibo e depauperamento delle risorse energetiche.
Come è avvenuta la selezione per dirigere l’Iit?
È stata fatta da un board con sei premi Nobel, che aveva il compito di decidere che cosa l’istituto avrebbe dovuto fare. Io, che all’epoca dirigevo il Laboratorio Nazionale di Nanotecnologia dell’Infm a Lecce, ho partecipato con un progetto che prevedeva lo sviluppo di tecnologie umanoidi sulla base di una nuova visione interdisciplinare.
Cosa può fare la scienza per aiutare l’essere umano?
Guardare ai processi evoluzionistici, perché è difficile essere più furbi dell’evoluzione. È quello che facciamo all’Iit: prendere soluzioni bioispirate e trasferirle alle tecnologie di tutti i giorni. Una visione che ha grandi possibilità applicative. Ad esempio prendendo spunto dalle piante: pensiamo all’apparato radicale, che cresce seguendo la strada più conveniente. Così si può creare un endoscopio che funzioni come una radice.
Quali sono le innovazioni che si potranno utilizzare a breve?
Molti risultati sono già in fase di trasferimento. Nella robotica c’è iCub. che è diventato lo standard di riferimento dei robot umanoidi. Nel mondo ce ne sono 30 sui quali si stanno sviluppando sia il corpo sia l’intelligenza artificiale. Queste tecnologie robotiche sono già in fase di test per la riabilitazione in ospedale. Tra 15 anni l’umanoide costerà come uno scooter e saprà stirare, cucinare, gestire la domotica di casa, assistere gli anziani, guidare. Poi ci sono le nanotecnologie sui materiali, che hanno sviluppato metodologie per utilizzare la carta riciclata per fare il food-packaging o creare plastiche totalmente biodegradabili dallo scarto vegetale.
Ci può descrivere iCub?
È un robot umanoide dalla forma e dimensioni di un bambino di quattro anni, che nasce all’Iit grazie a un lavoro interdisciplinare. È diventato il robot cognitivo più avanzato al mondo e la piattaforma open source su cui ormai oltre 30 laboratori sono impegnati per gli studi sull’intelligenza artificiale. Per l’Iit rappresenta una palestra dove provare nuove e diverse soluzioni tecnologiche: dai materiali soffici per i muscoli artificiali allo sviluppo di batterie portatili per renderlo autonomo, all’ideazione di sistemi di visione avanzati simili alla vista umana. L’obiettivo è realizzare un robot «collaboratore» che potremo avere nelle nostre case per assistere i malati o per compiere azioni pericolose. Inoltre, la tecnologia che rende il suo corpo flessibile può essere utilizzata nel campo della protesica, per costruire arti robotici o esoscheletri.
L’istituto eccelle nella robotica umanoide, nella materials science e nella nanotecnologia. Come fate?
Premesso che gli standard internazionali più alti sono ancora lontani, abbiamo raggiunto gli indicatori dei posti migliori. E siamo riusciti a farlo sia perché abbiamo creato una grande infrastruttura di ricerca, con laboratori avanzati, dalla quale non si può prescindere, ma soprattutto perché abbiamo investito sulle persone. Abbiamo scienziati interdisciplinari, 18 profili di ricercatore. Ma conta anche la governance.
In che senso?
L’istituto è una fondazione di diritto privato e ha un sistema organizzativo e di governance più simile a quello di una società quotata rispetto a un’università, il che lo rende più agile. C’è un consiglio di sorveglianza e uno di amministrazione. Abbiamo un piano strategico che deve essere approvato dal consiglio scientifico e, per la parte finanziaria, dal board. Sulla base delle linee del piano, cerchiamo i profili che servono. Attualmente abbiamo 1.400 persone, la cui età media è 34 anni; il 43 per cento viene dall’estero.
Come è finanziato l’istituto?
Dallo Stato arrivano 95 milioni di euro all’anno. Poi c’è l’attività di raccolta fondi, attraverso progetti europei e internazionali, e la componente industriale che comincia a essere importante. Dal 2009 abbiamo avuto 120 commesse industriali. Delle 1.400 teste nell’istituto, 250 sono pagate da progetti esterni.
Con i vostri brevetti create occupazione?
Abbiamo fatto richiesta di predisporre una norma che consenta a Iit di partecipare direttamente a start up e spin off generate dai nostri brevetti (come già avviene nella ricerca pubblica), con l’obiettivo di creare nuova impresa e nuova occupazione.
Qual è lo stato della ricerca in Italia?
In base alle statistiche internazionali l’Italia ha sempre una produttività scientifica individuale molto alta, soprattutto in relazione agli euro investiti. Il lavoro in alcuni casi è eccellente e in altri buono. Spesso ci lamentiamo della fuga dei cervelli, ma se accade questo significa che i cervelli stessi sono appetibili e che qualcuno li vuole. «Produciamo» ancora buoni giovani. Il problema però è farli rientrare e attrarne altri. Abbiamo ancora un vantaggio culturale, ma non durerà in eterno.
Quindi che cosa si potrebbe fare?
Meno burocrazia e una migliore organizzazione. Il problema è mettere regole che siano più simili a quelle presenti in altri Paesi, perché quello della ricerca è un mondo competitivo. Certo, ci vorrebbero anche più finanziamenti, ma a parità di risorse serve cambiare le norme.
Con il nuovo governo c’è possibilità di cambiamento?
Spero. Anche le università stanno cercando di attrarre dall’estero i ricercatori. C’è una riflessione, non sono più problemi «Cenerentola». Il premier Matteo Renzi è venuto nel nostro istituto e ha mostrato grande sensibilità nei confronti dei giovani e sul rientro dei cervelli.
Come si fa a diventare come lei?
Ho 53 anni, mi sono laureato in Fisica a Bari, mi sono perfezionato alla Normale di Pisa, ho studiato e viaggiato molto. Ho lavorato in Germania, Giappone e negli Stati Uniti. Sono tornato in Italia e sono diventato professore universitario. Oggi lavoro sette giorni alla settimana.
Bisogna anche «sapersi muovere» a livello politico?
Il mondo della scienza non è appealing per la politica. Nella ricerca non esiste carriera per ragioni politiche.
Chi è Roberto Cingolani nella vita privata?
Un uomo normale, che trascorre il poco tempo libero con la famiglia. Ho una moglie greca, scienziata, e tre figli maschi. Vado a correre quando posso, sono stato molto sportivo da giovane. Mi piace disegnare e sono un appassionato di biciclette e moto.