Fabrizio Salvio, SportWeek 21/2/2015, 21 febbraio 2015
COM’È DURA LA GERMANIA
[Ciro Immobile]
(due pezzi)
Jessica ha uno zio che vive a Stoccarda «e per tutta la vita non ho fatto altro che ripetergli: ma come fai a stare in un posto simile? E adesso guarda Ciro dove mi ha portata». Beh, l’ha portata in campagna, a Unna, lontano ma non troppo dal traffico di Dortmund, in un edificio basso che non è villa ma fatichi a chiamare soltanto casa, la facciata bianca ed enormi porte finestre, 600 metri quadri giardino compreso, due piani, un salone dalle misure di un campo da calcio e una cucina che Cracco se la sogna.
Alla sistemazione della famiglia di Ciro Immobile, che comprende la giovane moglie in attesa di una bambina (nascerà a luglio) e Michela, la figlia di quasi 2 anni che ora sgambetta sul pavimento, ha provveduto il figlio di Jürgen Klopp, l’allenatore del Borussia Dortmund dove l’attaccante napoletano ex Toro si è trasferito in estate. Ma, poiché anche un castello fatato diventerebbe triste e spento se le sue sale fossero vuote e silenziose, Jessica chiama continuamente a raccolta genitori, consuoceri, fratelli e cognati, amici (suoi e del marito), insomma chiunque l’aiuti a riempire le giornate e a sentire meno la solitudine. Altrimenti va con Michela in piscina. «Tanto è mia figlia, la mia amica qui».
Immobile, è così difficile integrarsi in Germania?
«Le racconto un episodio. Quando, l’anno scorso, a Torino Jessica conobbe la moglie di Farnerud, svedese mio compagno di squadra appena arrivato in Italia, e vide che era incinta, si offrì subito di aiutarla. “Per qualsiasi cosa, io ci sono”, le disse. Qui, a inizio stagione, il club ha organizzato una specie di festa tra i giocatori e le loro famiglie. Jessica è rimasta col suo pancione seduta in un angolo per tutta la serata. Ci fosse stata una delle mogli dei miei compagni che le si sia avvicinata per chiederle almeno come stava».
Per rompere il ghiaccio non potrebbe invitare lei qualche compagno a casa?
«Lo straniero sono io, non loro».
I tedeschi si fanno gli affari loro, ma può essere un bene. La squadra va male, eppure lei gira tranquillo per strada, nessuno si permette un insulto o una contestazione.
«A Dortmund il calcio è tutto e per capirlo basta venire una volta allo stadio: sempre pieno, con un tifo bollente. Ma è perché non hanno molto altro. È concepito quasi come uno svago per le famiglie. Siamo in zona retrocessione eppure ci siamo ritrovati gli ultras al campo d’allenamento una sola volta, dopo la sconfitta con lo Schalke, rivale storico. Erano in sei, hanno chiesto di parlarci. Mi sono avvicinato anch’io. “Ci aspettavamo di più”, hanno detto, e se ne sono andati».
In quel catino infernale che è il vostro stadio ha portato i suoi genitori?
«Come no. Dopo una partita mio padre mi disse: “Ho conosciuto il papà di Reus. Simpatico”. Che cosa si siano detti e come abbiano fatto a capirsi non lo so e non lo voglio sapere».
E a lei è mai successo di capire il contrario di quello che le dicessero?
«Parecchie volte fuori dal campo. Mi confondo soprattutto sugli orari, su come ci si deve vestire per le occasioni ufficiali. Una volta, contro lo Stoccarda in casa, la sveglia era alle 8.30 per fare colazione alle 9. Io ho capito che mi dovevo svegliare alle 9 per fare colazione alle 9.30».
Ma ha imparato un po’ di vocaboli?
«Sì, sì. Parecchi. Non riesco a fare un vero e proprio discorso, ma riesco a mettere insieme qualcosa».
Pure le parolacce?
«Eh... Un paio sì. Arschloch, per esempio. Vuol dire stronzo, coglione... Si può usare per tantissime cose».
Quante volte l’ha usato coi suoi compagni?
«Loro li insulto in italiano».
E con gli arbitri?
«Ci sto attento. A uno ho urlato “rotkarte, rotkarte!”, cartellino rosso, quella volta che c’era stato un fallo da ultimo uomo sul mio compagno Aubameyang e l’azione era proseguita».
E l’arbitro?
«Capiva e mi rispondeva: sì, sì. Tanto è vero che ha cacciato il difensore».
E Grosskreutz, il suo compagno al quale in un video che ha spopolato su YouTube insegna gli insulti in napoletano, ha proseguito con l’apprendimento?
«Sì. La cosa è nata dal fatto che le tifoserie del Napoli e del Borussia sono gemellate, quindi lui in qualche modo si sente legato alla mia città. Perciò un giorno venne da me e mi disse: “Se qualcuno insulta Napoli o il Napoli, io gli voglio rispondere. Insegnami una parola brutta, ma brutta proprio”. E io gliel’ho insegnata. Adesso dice sempre vaffanculo, anche quando non c’entra niente».
Se lo ricorda il primo giorno al Borussia?
«Mi hanno fatto cantare. Il pezzo lo hanno scelto loro: Notti magiche, la sigla di Italia 90».
E col cibo come andiamo? Ha assaggiato qualche piatto tedesco?
«Questo mai. La Germania è una bella nazione, ma il cibo non è cosa loro. Per fortuna abbiamo trovato un ristorante napoletano, Acqua Pazza, vicino allo stadio. Una domenica ci hanno fatto il ragù, le polpette, le melanzane alla parmigiana...».
Allora si fa arrivare la mozzarella da Napoli?
(rivolto alla moglie) «Amo’, qua non l’abbiamo ancora mangiata, vero? La mozzarella di bufala deve fare un viaggio breve, 5-6 ore al massimo, se no si guasta. Ci rifacciamo con i prodotti che ci portano i nostri genitori. Ma mo’ nun me fa parla ’e mangiare, ca m’vene fame».
Altri italiani che ha conosciuto qua?
«Il magazziniere del club è napoletano. Si chiama Ciro pure lui. Poi un cugino della moglie di mio cugino lavora qua. È di Torre Annunziata come me».
In che cosa i tedeschi sono migliori di noi?
«Sono più organizzati, più precisi... Ma anche la precisione, se portata all’eccesso, diventa un difetto».
Quando?
«Era una delle prime volte che Jessica prendeva l’auto. Non conosceva la strada, doveva parcheggiare, non trovava posto, era con la bambina, insomma si trovava in difficoltà e ha accostato dove non poteva per orientarsi. Il tempo di fermarsi e un vecchietto era già là. Mica per aiutarla, per prendere il numero di targa!».
Gli italiani sono meglio dei tedeschi in...
«Siamo più estroversi, allegri, solari. Qua fanno più fatica».
Cosa le manca dell’Italia?
«Il calore della gente. A Torino io e Jessica ci sentivamo amati».
Facciamo giustizia della storia del tosaerba per il quale secondo i giornali tedeschi è intervenuta addirittura la polizia.
«Balle. Era domenica, io non c’ero nemmeno. Mia moglie era con suo fratello e il mio. Abbiamo questo tosaerba che non era ancora stato messo in funzione. Sono andati in garage e lo hanno acceso solo per provarlo. È arrivata una vicina, gentile, che li ha informati sul divieto in Germania di fare rumori alla domenica, perché è giorno di riposo. “State attenti”, ha detto, “perché un’altra volta potrebbe venire la polizia”. Qualcuno ha voluto ricamarci sopra».
Ma alla fine, il tosaerba funziona?
«Certo. Una ditta mi ha offerto pure di fare pubblicità al suo modello».
FACCIO FATICA, MA NON TORNO–
Rilassato e spiritoso in casa, circondato dall’affetto delle sue donne. Quasi di cattivo umore fuori, sul lavoro. È un Immobile diverso, quello che incontriamo in un altro momento della nostra giornata a Dortmund, e non potrebbe essere altrimenti: reduce dalla panchina contro il Friburgo in campionato, e più in generale da una lunga crisi che coinvolge il Borussia prima ancora che lui, il sospetto è che Ciro, 25 anni ieri, non abbia voglia di parlare di calcio. E invece.
«Cominciamo», dice, e attacca. A testa alta, come il centravanti capace di 22 gol in 33 partite di campionato col Toro nella scorsa stagione, tanto da conquistare il Mondiale e fare il salto di qualità nel Dortmund. Parla, soprattutto, come chiunque sia partito dal niente, dalla polvere della C, e adesso non si rassegna a perdere tutto.
Alla vigilia del primo confronto diretto con la Juventus, martedì prossimo a Torino per gli ottavi di Champions, ecco le sue verità.
Se lei fosse una carta del tempo, in questo momento come sarebbe il suo stato: perturbato, molto nuvoloso, in graduale miglioramento?
«Io sono abituato a trovare il lato positivo anche in una situazione difficile a livello ambientale, personale e di squadra come questa. Perciò uno spiraglio di sole lo vedo pure adesso».
E dove, esattamente?
«Negli otto gol fatti. Non sono tanti, ma quattro li ho segnati in Champions, alla prima esperienza. In campionato sono fermo a tre, però non ho giocato molto nel girone d’andata e in ogni caso un attaccante deve essere sostenuto dalla squadra. Io corro come sempre: tra i 10 e gli 11 chilometri a partita. Ma se la palla non arriva, o arriva tardi...».
I compagni non giocano per lei?
«Non dico questo. È che, quando una squadra ha molti problemi, non può concentrarsi su quelli di uno solo».
Ha mai avuto la sensazione che qualcuno sia geloso di quanto è costato (18 milioni e mezzo) e faccia apposta a non darle il pallone?
«Apposta no, forse hanno poca fiducia. Erano abituati a Lewandowski, uno che ha segnato e vinto tanto. Io sono quello che ha preso il suo posto...».
Ma com’è possibile che una squadra che due anni fa giocava la finale di Champions League col Bayern sia ridotta così male?
«È una questione mentale. Klopp dice che in allenamento ci vede bene, poi in partita non riusciamo a ripeterci».
Sindrome da pancia piena? Molti hanno vinto tanto, con questa maglia.
«Semmai è stata la vittoria al Mondiale a distrarre un po’ tutti. Poi, quando perdi due, tre partite di fila in casa, la tensione sale».
È lei a non capire il Borussia o è il Borussia a non capire lei?
«Un po’ e un po’. Io devo adattarmi a un calcio più fisico, più veloce. Loro, all’inizio, forse pensavano che fossi il classico italiano che non ha voglia di lavorare, poi si sono accorti che sono uno che si fa il mazzo tutti i giorni per imparare, crescere, giocare e, soprattutto, vincere. Solo i giornali fingono di non vedere».
In che senso?
«Nel senso che continuano a criticare senza sapere quello che il Borussia mi chiede e quello che posso dare. Parlano solo dei soldi che prendo».
Quanto ha inciso nella sua scelta di venire qui la possibilità di guadagnare due milioni e mezzo di euro per cinque anni?
«Zero: avevo altre tre o quattro offerte dall’estero che mi garantivano lo stesso ingaggio. Ho scelto il Borussia per la sua storia e soprattutto per il modo in cui giocavano, nel quale mi vedevo inserito alla perfezione».
La Bild ha scritto che lei non prova mai una finta, un dribbling, gioca sempre allo stesso modo.
«Sparano a zero perché mi conoscono poco. E forse perché è un giornale di Monaco e quindi gli viene facile criticare il Dortmund».
Hanno pure scritto: il Borussia ha ottenuto le ultime due vittorie in campionato senza Immobile. Tra una e l’altra ci sono state cinque partite in cui lei è stato presente. Ora è più difficile riconquistare il posto?
«Non credo che Klopp sia così ingenuo da dar retta a queste cose. A me basta quello che mi dice: “Ciro, so che stai soffrendo più di tutti per la situazione perché sei straniero e sei nuovo. Ma vedrai che ne usciamo”».
È vero che vi manca un leader?
«Non credo. Ne abbiamo 3 o 4: Hummels, Kehl, Bender...».
E lei? Nello spogliatoio parla o si limita ad ascoltare?
«A Londra, dopo lo 0-2 con l’Arsenal, abbiamo avuto un chiarimento tra noi: io ho detto la mia e i compagni hanno apprezzato».
Quante possibilità avete di superare la Juve in Champions?
«Almeno il 50 per cento. Sarà l’atmosfera, la musichetta, ma in Coppa ci trasformiamo. Non dobbiamo avere paura».
Neanche di Tevez, Pogba o Pirlo?
«Tevez è il più pericoloso. Segna, difende, dà la scossa».
Sarà più caldo il clima in casa vostra, all’lduna Park, o allo Juventus Stadium?
«L’Iduna Park è il doppio dell’altro...».
Lei e Cerci avete fatto sfracelli nel Toro l’anno scorso. Ora lui è già tornato dall’Atletico Madrid, lei ha difficoltà: è un problema solo vostro o è la dimostrazione della poca competitività del nostro calcio?
«Che il calcio italiano non sia nell’età dell’oro è noto, ma non mi sento di dire che non conti più niente. Alessio è uno che vuole sempre giocare e ha scelto di tornare dove avrebbe avuto più spazio, fregandosene di chi ha parlato di fallimento».
Lei è tentato dal tornare in Italia?
«Io qualche partita in più rispetto a lui l’ho fatta. Non voglio tornare. Ho preso una strada e voglio arrivare in fondo».
Dunque rifarebbe questa scelta?
«Sì».
Immobile, lei si sente all’altezza del Borussia Dortmund?
«Assolutamente sì».
fa.sal.