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 2015  febbraio 21 Sabato calendario

TASSE, TAGLI, PIL: LE FALSE PROMESSE DI RENZI

Il primo anniversario del suo governo è arrivato e il premier Matteo Renzi, mercoledì scorso, al Politecnico di Torino, ci scherzava su. «Tra qualche giorno festeggeremo, commemoreremo o malediremo il primo anno di governo, ognuno può barrare la casella A, B o C che preferisce». Quando si tirano le somme, i risultati possono essere presentati in tanti modi. E alla fine lo stesso bilancio può essere letto come positivo o negativo. Per giudicare i primi 12 mesi dell’esecutivo guidato dall’ex sindaco di Firenze sul versante economico in maniera oggettiva, vale la pena guardare anzitutto dati «esterni». E lì non si scappa. Vediamo. Non sarà tutta colpa di Renzi, perché crisi e recessione già c’erano un anno fa. Sta di fatto limitandosi a osservare il Pil (in costante caduta) e la disoccupazione (specie quella giovanile) non si può non bocciare il governo. Alla fine del 2014 il prodotto interno lordo si è attestato a -0,4%, quando lo stesso presidente del Consiglio, all’inizio del mandato, si era fatto mettere per iscritto dal Tesoro adirittura +0,8%. E il 2015, pronosticato con una crescita superiore a un punto percentuale, se tutto va bene sarà ricordato come l’anno in cui si arresta la caduta (con un aumento dello 0,5-0,6%). Non basta. Prendete la disoccupazione che non pare aver invertito la rotta grazie alle misure varate da Renzi: a fine dicembre era al 12,9%, quella giovanile addirittura al 42%. Le indicazioni per l’anno in corso non lasciano intravedere un recupero significativo dell’occupazione. C’è da dire, poi, che, quando si è insediato, lo stesso premier parlò di «tracollo» citando il Pil in caduta di 9 punti percenutali tra il 2008 e il 2013 e della disoccupazione passata dal 6,7% al 12,6%, Se tracollo era, tracollo è rimasto. Capitolo debito pubblico che con Renzi corre più veloce rispetto a Letta. La crescita media del debito pubblico è in forte aumento: il rosso nelle finanze statali era a quota 1.989,9 miliardi alla fine del 2012 mente 12 mesi più tardi era a 2.069,8 miliardi; nel corso del 2013 il rosso è aumentato al ritmo di 6,6 miliardi al mese. Una tendenza che ha avuto una forte accelerazione nei primi 11 mesi del 2014 quando il debito è aumentato in totale di 90,2 miliardi arrivando a 2.160,1 miliardi: tra gennaio e novembre il buco si è allargato di 8,2 miliardi al mese, una media superiore di 1,5 miliardi (+23,24%) a quella registrata tra gennaio e dicembre del 2013 (quando a palazzo Chigi c’è stato quasi sempre Enrico Letta). I numeri parlano chiaro. Poi ci sono gli atti e le leggi. I peggiori flop sono senza dubbio quelli sulle province e sulla spending review. Le province praticamente esistono ancora: in buona sostanza sono state abolite le elezioni e i risparmi ottenuti riguardano per lo più i consigli. Quanto ai dipendenti, in tutto 20mila, la questione è aperta: per due anni la situazione è congelata e il governo ha promesso di collocare il personale tra regioni e comuni. Governatori e sindaci non ne vogliono sentir nemmeno parlare. Un caos. Lo stesso a cui si è assistito sul versante della revisione della spesa. Letta aveva incaricato il dirigente Fmi Carlo Cottarelli che Renzi ha liquidato nel giro di pochissime settimane, archiviando di fatto qualsiasi intervento di riduzione del bilancio pubblico: niente dieta per le partecipate degli enti locali né altri sacrifici. Quanto al lavoro, la genesi della riforma, completata ieri con l’ok al decreto attuativo del jobs act che riscrive l’articolo 18, è stata tormentata. Gli esperti si dividono e la maggior parte è convinta che il pacchetto sui licenziamenti (sparisce quasi definitivamente l’obbligo di reintegro) è pasticciato. E gli effetti sulla nuova occupazione potrebbero essere impalpabili. Sul fisco lo stesso Renzi qualche sera fa in tv ha ammesso di aver fatto poco. Una sostanziale autobocciatura sia per il bonus da 80 euro (assicurato a chi lavora, ma non ai veri poveri: cioè disoccupati e pensionati) sia per gli sgravi Irap per le imprese (peraltro garantiti tagliando incentivi e detrazioni, trasformando la misura in una partita di giro con bilancio negativo in parecchi casi). Senza dimenticare che nel bilancio dello Stato, nascoste, ma pronte a scattare, esistono diverse clausole di salvaguardia: 12,8 miliardi di maggiori tasse nel 2016, altri 19,2 miliardi nel 2017 e 21,2 miliardi nel 2018. Si tratta delle misure-paracadute imposte dall’Unione europea perché i tagli inseriti nell’ultima legge di stabilità sono stati giudicati di difficile attuazione. Così, salvo miracoli, al posto di sforbiciate agli sprechi nel bilancio pubblico, arriveranno valanghe di tasse in più (a cominciare dall’Iva al 25%) su famiglie e imprese. Ieri l’ultima figuraccia. Con la scusa dell’Eurogruppo straordinario, a Bruxelles, per risolvere la questione Grecia - riunione che prevede la partecipazione del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan - è stata rinviato il via libera ai decreti attuativi della delega fiscale. Dietro il rinvio ci sarebbero frizioni sulle norme, come la link tax che finirebbe per colpire i contenuti di Google. E dire che Renzi si vantò di aver stoppato il giro di vite proposto da Letta.

LA SCHEDA –

ECONOMIA
Renzi aveva esordito a palazzo Chigi sottolineando come «dal 2008 al 2013 il Pil ha perso il 9% mentre la disoccupazione è passata dal 6,7 al 12,6%». Nel Documento di economia e finanza firmato dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e dallo stesso premier si annunciava per il 2014 una crescita del Pil dello 0,8%. A fine anno, però, i fatti registrano una ulteriore riduzione della ricchezza prodotta in Italia: -0,4%. Anche sul fronte disoccupazione, i dati Istat dicono che a fine 2014 era al 12,9% e quella giovanile al 42.
EUROPA E FLESSIBILITÀ È salito al governo annunciando che a Bruxelles era venuto il momento di picchiare i pugni sul tavolo ma, nonostante il semestre di presidenza italiana tutto incentrato sulla «flessibilità», le nuove linee guida non recepiscono le richieste italiane. L’unico risultato concreto è il piano Junker da 21 miliardi, già annunciato all’inizio del semestre italiano e non attribuibile al premier.
PROVINCE
Un altro cavallo di battaglia riguardava l’abolizione delle Province. In realtà, dal primo gennaio le sono state abolite solo a metà: sono diventate enti di secondo livello, ovvero presidente e consiglieri sono eletti non più dai cittadini, ma dai consigli comunali della zona. Non è ancora chiaro quali competenze avranno queste nuove province mentre né dove si troveranno i fondi per coprire le attività di cui si occupavano le province. Intanto il problema del relativo personale per ora è stato congelato.
SPENDING REVIEW
Nei piani di Renzi le coperture per molte riforme dovevano arrivare dai tagli alla spesa: in realtà l’unico taglio accertato è stato quello di Carlo Cottarelli, il commissario alla revisione assoldato da Letta e rimasto sempre ai margini con Renzi. Dei 32 miliardi di risparmi ipotizzati dal commissario non si è più saputo nulla.
FISCO
Lui stesso, qualche sera fa, ha dovuto ammettere che i risultati sono scarsi. Gli 80 euro, in effetti, sono arrivati, ma il bonus arriva solo a una minoranza di lavoratori e non ai veri poveri come disoccupati e pensionati. Inoltre, i tagli Irap non solo non hanno ridato fiato alle imprese, ma il governo per attuarli ha tagliato detrazioni e altri incentivi tanto che spesso, per le imprese, si sono risolte in un maggiore aggravio. Senza contare le clausole di salvaguardia dei conti: 12,8 miliardi di nuove tasse nel 2016, 19,2 miliardi nel 2017 e 21,2 l’anno successivo.