Livia Manera, Corriere della Sera 21/2/2015, 21 febbraio 2015
I NARCISI RAMPANTI DI NEW YORK
Chi per caso dubitasse che Brooklyn sia la capitale della giovane letteratura americana contemporanea, dovrebbe recarsi al caffè all’angolo tra S. Portland Avenue e Fulton Street, davanti al Greenlight Bookstore. Aprendo la porta, vedrebbe un locale con due enormi tavoli ovali a cui siedono, una di fianco all’altra, decine di persone tra i venti e i quarant’anni che battono sui tasti dei loro computer portatili. «Non mi dica che scrivono tutti fiction…», mi rivolgo alla scrittrice Adelle Waldman. «La maggior parte penso di sì», risponde lei ridendo con gli occhi, «ma c’è anche chi lavora a sceneggiature o saggi o recensioni». Inutile cercare un posto dove sedersi. Per parlare del suo romanzo d’esordio Amori e disamori di Nathaniel P. , ambientato nella Brooklyn dei giovani aspiranti scrittori, bisogna andare altrove.
Amori e disamori di Nathaniel P. (in uscita da Einaudi nella traduzione di Vincenzo Latronico) non è un è un successo gonfiato, non ha avuto un contratto miliardario, e non è stato anticipato da nessuna rivista importante. La sua riuscita (l’edizione tascabile americana porta il marchio «A national bestseller»), la deve all’intuito e all’arguzia con cui la sua trentottenne autrice è riuscita a dare voce all’altra metà del cielo di Girls : ovvero all’universo maschile dei giovani newyorkesi intellettualmente rampanti, che tra un articolo da free-lance e l’altro riescono a mettere a segno un buon contratto per un libro, e magari anche ad andare a letto con le ragazze giuste, ma che, sul piano delle relazioni, si rivelano capricciosi, egocentrici, superficiali e qualche volta persino crudeli. «Volevo scrivere un libro sul fallimento delle relazioni amorose tra i giovani senza fare della narrativa superficiale», dice Waldman nel pub dove ci rifugiamo a chiacchierare. «Ma quando ho cominciato a ispirarmi alle storie d’amore che mi avevano fatto soffrire, ho capito che sembrava un diario. Allora ho preso la decisione di mettermi nei panni di un ragazzo e di raccontare la storia dal suo punto di vista». Con un vantaggio: quello di capire i sentimenti del protagonista molto più di quanto li capisca lui.
Detto in due parole, Nate Piven è una persona intelligente che di amore non capisce niente. È un prodotto del postfemminismo, dell’educazione politicamente corretta degli anni 80 e della migliore istruzione universitaria, Harvard. «Sapeva tutto del privilegio maschile. Come se non bastasse, era dotato in una coscienza perfettamente funzionante», scrive Waldman ironica. «Non era sempre stato il tipo di uomo a cui le donne danno dello stronzo. Solo di recente era diventato abbastanza popolare da ispirare tanta animosità».
Nel vivaio di ex amanti che è la Brooklyn dei giovani di oggi, Nate, che vive il suo momento di gloria perché ha appena firmato un ricco contratto per un libro, sta andando a una cena dalla penultima ex, quando in metropolitana incontra l’ultima, con la quale non si è più fatto vivo dopo averla premurosamente accompagnata ad abortire. Poi, alla cena, conosce Hannah: una graziosa e intelligente aspirante scrittrice che, mentre la conversazione vola sublime su Dickens, la coscienza liberale, il cibo bio e lo sfruttamento minorile, lo colpisce con la disinvoltura con cui si fa gioco delle sue uscite pretenziose. Ecco uno scambio tra i due. «Credi sia da snob pensare che Lolita sia meglio di un reality sugli animali domestici?», chiede lui. Risposta di lei: «È da snob pensare che sei migliore di qualcuno solo perché si dà il caso che tu sia in grado di apprezzare la più sofisticata analisi della pedofilia che l’Occidente abbia mai prodotto». E via così.
A difesa di Nate, personaggio totalmente autoriferito, bisogna dire che i suoi amici non sono da meglio: pensano che le ragazze che pagano al ristorante soffrano di bassa autostima, e che gli uomini desiderino una relazione stabile nello stesso modo in cui le donne desiderano l’orgasmo: «A volte, e nelle circostanze adatte». Ma Waldman non manca di argomenti per criticare anche le giovani donne, che accusa di ricorrere alle lacrime quando la dialettica fallisce; o sbandierare l’autosufficienza salvo prendersela a morte al minimo segno di disinteresse da parte di un uomo. Come dice Nate, non senza qualche ragione: «Quando una donna dice no, non muore nessuno…. Ma quando è un uomo a dire di no, la donna se la prende come se le avessero detto che è grassa e indesiderabile».
Insomma: la relazione tra Nate e Hannah, sbocciata come da copione con uno scambio di email da perfetta comedy of manners contemporanea, appare destinata a naufragare. E qui Waldman è davvero brava a mostrare come, passato il primo entusiasmo, lui diventi umorale e insofferente («Deve proprio mettersi quei jeans?»). E lei una piagnona angosciata che entra in crisi anche sul lavoro.
In questo mondo in cui i giovani definiscono la propria identità scegliendo i libri da esporre sugli scaffali del salotto (Borges, Boswell, Bulgakov), e dove a tavola si può dibattere se al giorno d’oggi la verbosità di Proust non abbia qualcosa di moralmente riprovevole, come se i bambini in Africa avessero potuto fare un «uso migliore di tutti quegli avverbi», il limite alle molte qualità di Adelle Waldman, se vogliamo, è geografico: avere circoscritto la sua satira sul rapporto tra i sessi a un luogo che si crede il centro del mondo, ma non lo è.
«Non sembra anche a lei?», chiedo. «Ora sì», ammette. «In verità, quando scrivevo Amori e disamori di Nathaniel P. , pensavo davvero che Brooklyn fosse il centro del mondo. Ma dopo averlo pubblicato non vedo l’ora di prenderne le distanze. Un’estate nel Montana mi ha rivelato come tante cose che a Brooklyn sembrano essenziali e mettono ansia, lì non contano niente. E anzi», ride, «sembrano addirittura cretine».