Luca Mastrantonio, Corriere della Sera 21/2/2015, 21 febbraio 2015
NOI, L’ITALIANO MEDIO
L’italiano medio non esiste. Altrimenti dovremmo chiamarci tutti Giuseppe Rossi, avere 44,4 anni, o tutte Maria, e partorire a 31,5 anni Francesco o Sofia, cioè i nostri 1,39 figli, come segnala l’Istat (è il numero di figli per donna). No. L’italiano medio non esiste realmente. Ma sono davvero pochi quelli che non hanno uno smartphone (ce ne sono 45 milioni), non usano whatsapp (è gratis, come l’ansia generata da chi non risponde), non si sono fatti un selfie in vita loro, non hanno mai visto il video di un gattino sul web, non hanno cercato la parola «milf» su Google, non hanno fatto ricorso alla canzone Il coccodrillo come fa per ipnotizzare i bimbi... Soprattutto: sostenere che l’italiano medio sia solo una finzione statistica è un’ipocrisia antropologica, una vana evasione dal contributo all’italica mediocrità che, statisticamente, a tutti tocca dare. L’italiano medio può non esistere in sé, ma in giro ce ne sono a milioni. Sono intorno a noi e dentro di noi. L’italiano medio siamo noi. Sì, ma quanti?
Lo zoccolo degli italiani medi duri e puri è composto da una decina di milioni, ma sfiora il raddoppio con eventi mediatici che esaltano quel che resta dell’identità nazionalpopolare. L’estate scorsa, per esempio, c’erano 19 milioni di italiani, uno su tre, davanti agli schermi di Rai e Sky per guardare il disastro calcistico di Italia-Uruguay. Si trattava di 19 milioni di commissari tecnici, 19 milioni di psicologi di Mario Balotelli, 19 milioni di avvocati di Chiellini e 19 milioni di giudici unici di Suarez, il capro espiatorio deresponsabilizzante. L’italiano medio è eclettico.
A fine 2014, invece, davanti alla televisione erano dieci milioni gli italiani che hanno visto e riso ai Dieci comandamenti di Roberto Benigni su Raiuno: ormai sempre meno comico e sempre più maestro Manzi di un catechismo giullaresco. Si può non andare a messa tutte le domeniche, ma l’italiano medio non perde una puntata di Don Matteo con Terence Hill, in onda dal 2000 ad oggi, il giovedì sera su Raiuno (la media è 8 milioni di telespettatori a puntata). E, sempre l’anno scorso, ha eletto miglior voce d’Italia Suor Cristina, a The Voice of Italy , la cui finale su Raidue è stata vista da 4 milioni di italiani (e Twitter è impazzito). Il suo coach era J-Ax, rapper che nel 2003 lodava pregi e virtù dell’italiano medio, nell’omonima canzone dell’omonimo album, che in copertina aveva un dito medio, nuovo terribile simbolo politico usato tanto dal mite Piero Fassino quanto dalla non mite Daniela Santanché: «E datemi Fiorello e Panariello alla tv / sono un italiano medio / nel blu dipinto di blu», cantava J-Ax. In attesa che torni in tv il Rosario nazionale, Panariello quest’anno ha calcato di nuovo il palco dell’Ariston a fianco del super-medio-man Carlo Conti, per un’edizione da record: la finale è stata vista da 12 milioni di italiani (54 per cento di share). Il miglior risultato dal 2006, cioè da un’epoca in cui non c’era la crisi che ha depresso l’italiano medio, impoverito il suo ceto e radicalizzato il suo sentimento anti-politico. Sanremo è la capitale morale dell’italiano medio, la Mecca cui volgere una volta all’anno i telecomandi.
Ma, al di fuori del presepe dell’Istat e del sacro roseto canoro dell’Ariston, il tempio dell’italiano medio è il cinema, dove la mutazione antropologica è evidente, prima di finire sottovuoto dietro il vetro della televisione. Se prima l’italiano medio si assolveva attraverso l’indulgenza dei personaggi di Alberto Sordi, si esorcizzava con il masochismo di Fantozzi o si riappacificava con l’empatia schietta di Carlo Verdone, oggi invece, dopo un flirt con l’intellettualistico Cetto La Qualunque di Antonio Albanese, per l’italiano medio è arrivato il tana-libera-tutti del camaleontico Checco Zalone, con il suo umorismo cinico e sinceramente baro, che incrocia generazioni e classi sociali (mentre il film I soliti idioti ha intercettato soprattutto un pubblico giovanile, per cui i cinepanettoni sono ormai classici, film d’essai).
L’autocertificazione antropologica, però, da qualunquismo che degenera in nichilismo sessuale, è arrivata con Italiano medio di Maccio Capaton da, film sociologico nel titolo e grottesco nel registro, che non ha fatto i numeri di Zalone (il cui Sole a catinelle è stato visto da 8 milioni di persone) ma convalida ideologicamente l’ultimo, per ora, stadio involutivo dell’italiano medio: il cui sogno è diventare ancora più italico, più basico, più medio. Come se di fronte alla crisi economica ed identitaria di oggi lo standard dell’italiano fosse un sogno. Non di successo, no, ma di evasione: da se stessi, cioè dalle preoccupazioni della vita di tutti i giorni. Il personaggio interpretato da Capatonda, infatti, trova la salvezza in una pillola offerta dall’amico che gli dice, dopo avergliela somministrata: «Sai la storia che usiamo solo il 20% del cervello? Con questa pillola puoi usare solo il 2%». Così sdoppia la sua personalità: nella versione impegnata grida #mobbasta, in quella disimpegnata #chemmenefregamme e pensa solo al sesso. Come, tutto sommato, la maggior parte delle persone che vanno a vedere Cinquanta sfumature di grigio al cinema, tra cui molte donne italiane medie. L’Istat ci fa, il cinema ci accopp(i)a.