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 2015  febbraio 24 Martedì calendario

IL MISTERO DI STRADIVARI

Il maestro si aggirava nei boschi della Val di Fiemme con una torcia, nelle notti di Luna piena. Osservava uno a uno gli abeti rossi. Quando ne vedeva uno maestoso, staccava un pezzo di corteccia, batteva l’albero con un martello e ne ascoltava il suono. Se la risonanza gli piaceva, l’albero veniva abbattuto e trasportato fino a Cremona...
Non sappiamo se Antonio Stradivari scegliesse proprio così i legni per i suoi violini. Che – questo è certo – a distanza di 4 secoli sono ancora famosi in tutto il mondo per il suono cristallino, luminoso, ricco di sfumature. I violinisti più celebri, come Uto Ughi, li paragonano «ai dipinti di Raffaello, per l’equilibrio e la purezza».
Ma come faceva Stradivari a dare un’anima al legno? Usava materiali particolari, aveva un procedimento segreto? Schiere di liutai hanno provato, senza successo, a replicare i suoi strumenti. E, negli ultimi 80 anni, fisici e chimici di tutto il mondo hanno tentato di svelarne i segreti, studiando i violini ai raggi X, nelle Tac, con lo spettroscopio. Ne hanno ricavato alcune certezze e molti dubbi.

MISSIONE IMPOSSIBILE. La sfida, peraltro, è quasi impossibile: Stradivari non lasciò documenti sui suoi metodi di lavoro, che scomparvero per sempre nel 1743, quando morirono, 6 anni dopo di lui, i suoi figli Francesco e Omobono, unici seguaci nella sua bottega. E – limite non da poco – per un ricercatore non si può scalfire una sola molecola di questi strumenti, visto il loro valore storico, musicale, ma anche economico: nel 2011 uno Stradivari del 1721, il “Lady Blunt” è stato venduto a 11,1 milioni di euro. Oggi infatti gli Stradivari sono diventati un investimento: le loro quotazioni, negli ultimi 20 anni sono salite di 200 volte, 10 più dell’oro. Ecco perché gran parte dei violini rimasti oggi appartengono a milionari russi, americani, giapponesi, ma anche a società finanziarie. Matteo Fedeli, il violinista che ne ha suonati di più al mondo – 25 negli ultimi 11 anni – circola con guardie del corpo armate e costose polizze assicurative quando si esibisce col “Bazzini” del 1715, appartenente a un collezionista svizzero. «Molti proprietari di questi violini mitici non sanno suonare», racconta, «così mi contattano per tenerli in vita nei concerti».

PERIODO D’ORO. Gli Stradivari, insieme alla Bibbia di Gutenberg e alla Gioconda di Leonardo, sono un’icona della cultura occidentale: per questo, il secolo scorso, Lenin e Hitler li confiscarono a piene mani. Ma quei violini erano un mito già durante la lunga vita del liutaio, che morì a Cremona nel 1737 a 93 anni: i suoi strumenti – violini e viole, ma anche chitarre, arpe, liuti e mandolini – erano richiesti da papi e sovrani di tutta Europa. Stradivari, infatti, era riuscito a perfezionare il violino, messo a punto nella bottega del concittadino Andrea Amati alla fine del 1500. E lui aveva lavorato come apprendista proprio nella bottega del nipote di Amati, Niccolò, fino al 1679. Si mise in proprio nel 1680, e da allora ha costruito 1.116 strumenti musicali in 57 anni: circa 20 l’anno. Di questi, ne è sopravvissuta poco più della metà: 650 (500 sono violini). I più pregiati sono quelli del “periodo d’oro”, prodotti fra il 1700 e il 1720.

FIAMMA DORATA. «Si riconoscono dalla vernice, simile a una fiamma dorata. Dall’intaglio accurato delle “f ” (i fori nella cassa armonica, ndr), dalla bombatura e dal riccio. E, a volte, dal cartiglio incollato sul fondo degli strumenti: Antonius Stradivarius cremonensis faciebat. E, ovviamente, dal loro suono inconfondibile. Ognuno ha una personalità diversa: per questo sono chiamati per nome, quello dei loro proprietari», racconta Fedeli. Ma a cosa è dovuto quel suono leggendario? Le ricerche pongono l’accento su tre elementi: un’attenta progettazione, i legni, e i procedimenti con cui erano trattati. «Stradivari», dice Fausto Cacciatori, curatore del Museo del violino di Cremona, «disegnava accuratamente i violini su carta, prima di ricavarne le forme nel legno. Si avvaleva di una lunga esperienza e tradizione, ma soprattutto aveva contatti costanti coi violinisti dell’epoca. Ebbe successo perché costruì violini non solo belli e armoniosi, ma dotati di una voce potente, sempre più richiesta dalla musica tardo barocca». Ed è così ancora oggi: «Quando devo esercitarmi per mezza giornata», confida Fedeli, «devo mettere i tappi alle orecchie, altrimenti il mal di testa è assicurato. La potenza sonora degli Stradivari è impressionante».

ERA GLACIALE. Ogni violino è composto di 70 parti differenti. Per la cassa armonica, che produce ed emette il suono, Stradivari usava 2 legni diversi: acero dei Balcani (più rigido e leggero di quello italiano) per il fondo; abete rosso per il piano armonico, la parte superiore. Non sappiamo dove si rifornisse: gli studi sui legni portano a pensare che acquistasse interi tronchi, probabilmente dei boschi del Trentino. Una volta tagliati, i tronchi erano trasportati lungo il Po fino a Cremona. Poi li metteva a essiccare sulla terrazza coperta della bottega, il secadùur. Secondo Lloyd Burckle, geochimico della Columbia University, la sapiente scelta dei legni fu aiutata da un fattore climatico. Stradivari usò piante sopravvissute alla piccola era glaciale, che colpì l’Europa tra il 1645 e il 1715: gli inverni molto rigidi ne ridussero la velocità di crescita, generando un legno compatto ed elastico, con anelli proporzionati fra loro.

VERNICI. Infine, Stradivari trattava i violini con le vernici. Si sono scritti fiumi di inchiostro su quelle che il liutaio avrebbe usato, non solo per proteggere e abbellire i violini: senza quei 50 micron (millesimi di mm) di vernice gli Stradivari hanno un suono molto più povero. Ma quali sostanze usava il maestro? L’unico documento è una lettera in cui si scusa per il ritardo nella consegna, dovuto ai tempi di essiccazione della vernice: “Compatirà la tardanza del violino perché è stato la causa per la vernice per le gran crepate che il sole non le faccia aprire”.
Negli Anni ’70 un liutaio, Simone Sacconi, che nella sua carriera restaurò 350 Stradivari, ipotizzò che la vernice servisse a migliorare la sonorità del legno: «Stradivari faceva una preparazione vitrea: grazie a essa il legno si induriva e diventava omogeneo, penetrando nei pori. Così il legno, anche a spessori sottili, acquisiva vigore sonoro, aumentando la capacità di vibrare». Secondo Sacconi, Stradivari usava silice, carbone e potassa, con ceneri della feccia della torchiatura: un impasto che andava ridotto in polvere, sciolto in acqua, ribollito e decantato. Steso sul legno, si asciugava in settimane se non mesi. Alcuni studiosi dell’Università di Cambridge hanno ipotizzato che usasse ceneri vulcaniche.

Al RAGGI X. Per capire come stanno le cose, i ricercatori del Laboratorio Arvedi dell’Università di Pavia, aperto nel 2013 nel Museo del violino di Cremona, hanno usato tecniche da scena del crimine: hanno illuminato i violini del Museo con una lampada a fluorescenza ultravioletta, evidenziando le zone più ricche di vernici. Con radiografie ai raggi X hanno rilevato le aree meno restaurate; e le hanno indagate con tecniche spettroscopiche, capaci di individuare le molecole contenute nel legno a seconda di come assorbono la luce. Risultato: «Abbiamo trovato calcio e potassio», racconta Marco Malagodi, docente di chimica del restauro all’Università di Pavia. «E probabile che Stradivari trattasse i violini unendo caseina (una proteina del latte) e idrossido di calcio. Dopo una settimana si ottiene caseinato di calcio: una colla. Questa sostanza è stata trovata in altri strumenti da ricercatori austriaci».
A questo strato, Stradivari ne sovrapponeva altri 2: «Un isolante, ottenuto con olio di lino o di noce, e resina di pino (colofonia); e uno strato di vernice colorata costituita da olio, colofonia e in alcuni casi cinabro, minerale ricco di zolfo e mercurio, già usato come pigmento rosso da Leonardo da Vinci. Per essiccarli, occorrevano molte settimane». E ciò spiega perché Stradivari producesse meno di 2 strumenti al mese.

OCCHI E MANI. Dunque, nessun segreto alchemico? «Tecniche e materiali di Stradivari erano gli stessi di altri liutai dell’epoca», commenta Bruce Tai, chimico del California Institute of Technology. «Si riforniva dai vendecolori, farmacie che vendevano coloranti per pittori e mobilieri. Ma usava procedure complesse, con molti parametri aggiustabili in vari modi (misura delle particelle minerali, tipo e quantità di resine e di pigmenti, tempi di cottura e di essiccazione): con gli stessi ingredienti ogni liutaio può ottenere risultati molto diversi. Il suo successo è una combinazione di buoni occhi, buone orecchie, buone mani, attenzione ai dettagli, creatività attraverso un costante aggiustamento, e doti artistiche». Quali che fossero, Augusto Sarti, direttore del Laboratorio di acustica musicale al Politecnico di Milano, sta identificando i parametri fisici tipici del suono degli Stradivari: «Il nostro obiettivo è cercare di ottenerli anche negli strumenti moderni».

VERNICI CINESI. Le procedure del liutaio cremonese, infatti, si sono smarrite per sempre dopo la chiusura della sua bottega. Alla fine del ’700 le vernici a olio non si usavano più: furono rimpiazzate da alcool e olii essenziali. Erano le vernici cinesi, a base di sanracca (pianta nordafricana) e gommalacca, polimero prodotto da un insetto asiatico, la cocciniglia della lacca. Erano vernici lucenti e resistenti, e soprattutto economiche e veloci da applicare, vista la crescente domanda di violini da tutta Europa.
Forse, il segreto di Stradivari era la lentezza. Come quella, struggente, del brano Oblivion di Astor Piazzolla, che Fedeli esegue per il reporter di Focus con lo Stradivari del 1715. Gli occhi si riempiono di lacrime: se sia merito del violinista o dell’inafferrabile liutaio, è anche questo un mistero. Ma forse è meglio così.
Vito Tartamella