Sebastiano Vassalli, Corriere della Sera 22/2/2015, 22 febbraio 2015
IL VEZZO DI CHIAMARE IL VINO «LA BARBERA» RICORDA I CIRCHI E LE DONNE BARBUTE
La lingua italiana ha due soli generi: maschile e femminile. Non ha il neutro: e questo fatto, a volte, può accentuare nell’uso una discrezionalità al limite dell’arbitrio. È il caso di alcuni nomi di vini; barbera, freisa, bonarda. Nomi maschili che però tendono a diventare femminili per via della desinenza in a, o per ragioni ancora più futili. Qual è il genere dei vini? Prendiamo il caso del barbera, vino (e vitigno) molto conosciuto e molto diffuso nell’Italia nord-occidentale. Logica e tradizione vorrebbero che questo vino fosse sempre maschile: «il barbera»; e che l’uva da cui si ricava, «la barbera», fosse sempre femminile come la pianta. Così è stato fino a non molto tempo fa: finché ha preso piede una tendenza, che all’origine non era popolare, ma che lo sta diventando, di chiamare il barbera «la barbera». È un vezzo nato tra esperti di cose enogastronomiche, un modo di strizzarsi l’occhio: «Noi che ci intendiamo di vini sappiamo che la barbera è femmina e ci riconosciamo tra intenditori perché la chiamiamo così». Se la parola barbera restasse sempre singolare, il cambio di genere si riconoscerebbe soltanto dall’articolo. Ma c’è anche il plurale, perché a un unico vitigno corrispondono più o meno tanti vini quante
sono le zone di produzione. Quei vini sono «i barbera» o «le barbere», come vorrebbero gli esperti di cose enogastronomiche? ( Ma non di questioni lessicali). Una volta, nei circhi, c’erano le donne barbute. Non si chiamavamo barbere, ma quando sento parlare di barbere al plurale mi v ien fatto di pensare a loro.