Andrea Fazioli, Corriere della Sera 22/2/2015, 22 febbraio 2015
STANZE BLINDATE E CODICI CIFRATI QUELL’AMORE PER LA DISCREZIONE CHE NON SCOMPARIRÀ MAI
Presto o tardi, nella vita di un autore svizzero, arriva il momento. Per senso del dovere, per curiosità, per una richiesta esplicita: non importa il motivo. Fatto sta che ti trovi davanti al computer e devi scrivere del segreto bancario. Non c’è via di scampo.
Allora, in cerca di concretezza, chiudi gli occhi e pensi alle montagne. Alte. Innevate. Perfette come un luogo comune. Poi pensi alle roccaforti, alle stanze blindate nel sottosuolo. Il labirinto di cunicoli ti porta a un rifugio profondo e inaccessibile. Laggiù abita lui: il segreto bancario. È piccolo e rugoso, ma con due occhietti intelligenti dietro gli occhiali senza montatura. A lui puoi affidare ogni confidenza. Lui non ti assolve, ci mancherebbe, ma nemmeno ti giudica. Laggiù le confidenze sono al sicuro, protette dai codici cifrati e dalla ferrea barriera della neutralità.
A questo punto la domanda è: che cosa c’entro io? Ma è inutile scappare. Ho il passaporto svizzero e, lo ammetto, talvolta riconosco pure in me stesso un eccesso di discrezione, o di quello che i britannici chiamano understatement . Quando vediamo una celebrità per la strada fingiamo di non riconoscerla, i nostri ministri girano sui treni, magari in seconda classe, e nessuno se ne accorge, tendiamo a condensare lunghi discorsi in una parola. Siamo svizzeri: amiamo i segreti.
Allora il segreto bancario è l’inclinazione psicologica per la riservatezza portata all’estremo? C’è anche questo, oltre agli aspetti economici. È un marchio di efficienza, di servizio cortese e inesorabile. Una tradizione svizzera che, in qualche modo, perpetua il miracolo di tenere insieme lingue, religioni, culture diverse.
Qualcuno lo ritiene uno specchietto per allodole, qualcuno un segno di rispetto per la libertà individuale. Ma oltre i discorsi degli esperti, che effetto fa al cosiddetto uomo della strada? Decido di fare un piccolo sondaggio: esco di casa e chiedo alle prime dieci persone che incontro. Ecco i risultati, ovviamente privi di valore statistico.
Una discreta percentuale, cioè tre persone su dieci, di età fra i venti e i quaranta, non risponde: borbotta due parole e scantona, con la proverbiale discrezione elvetica. Un quarantenne mi corregge: l’espressione «segreto bancario» è inadeguata, bisogna chiamarlo «obbligo di riservatezza». Due trentenni scoppiano a ridere e mi assicurano che, di certo, non verranno a raccontarmi quanti soldi hanno in banca. Una signora sui cinquanta mi spiega che la Svizzera si è fatta del male, diventando un capro espiatorio: «Di colpo gli altri Paesi sono tutti virtuosi, tutti moralisti, e sono lì che cercano di arraffare il più possibile…». Un pensionato dall’aria colta si stringe nelle spalle e sorride: «La Svizzera esisteva prima e continuerà a esistere anche dopo». Un ragazzo sui vent’anni mi dice che se tutti fossimo onesti, il segreto non servirebbe. «Sono soldi sporchi — aggiunge il suo amico — non li vogliamo». Infine, una bambina di cinque anni mi fornisce la risposta migliore: «Tu lo sai cos’è il segreto bancario?» «Sì, ma non te lo dico».
Il segreto dunque andrà in pensione, e quella stanza nel cuore delle montagne resterà vuota. O magari è già morto di morte naturale: ormai c’è l’obbligo di bloccare ogni arrivo di capitali appena velati da un sospetto. In questo senso il segreto bancario non sembra più una corsia preferenziale ma un percorso a ostacoli. Insomma: Guglielmo Tell è pronto a infilzare tutte le mele appena un po’ marce. Resta però la tradizione, la sicurezza: forzieri ben custoditi in vecchi palazzi di pietra in riva ai laghi, solidità, poche parole e molte cifre. Rimane il segreto, ecco. Anche se è molto meno segreto di prima.