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 2015  febbraio 22 Domenica calendario

METTI NEL CURRICULUM E SCAPPA

I GIOVANI E IL CURRICULUM
Siamo diventati un curriculum. Non esistiamo più come persone, ma solo come curriculum. Siamo quel che facciamo. Ma soprattutto (ed è la cosa più nefasta), facciamo per essere. Prendiamo un giovane che studia e che si avvicina al fatidico momento del trovar lavoro. Dovrà presentare il proprio curriculum. Curriculum vitae, ovvero riassunto schematico di quel che sono, di quel che ho fatto finora. Il giovane di oggi sa che sarà valutato per una serie di performances richieste e massimamente apprezzate: stage lavorativi, corsi di lingue, esperienze di gruppo, viaggi, spostamenti vari. Dovrà dimostrare di essere eclettico, multiforme, flessibile, disponibile, viaggiante, parlante infiniti idiomi, capace di lavorare in gruppo, vivere all’estero, sapersi adattare. Quindi cosa farà questo giovane desideroso di trovar lavoro? Si riempirà la vita di esperienze, onde riempire il suo curriculum. Esperienze tra le più varie e sconclusionate, che possano provare le suddette qualità tanto apprezzate, si suppone, dalle imprese.
Mi è capitato di avere tra le mani alcuni di questi curricula. Sono oggetti inquietanti, sconvolgenti. Pagine e pagine, piene zeppe di tutto e un po’; tre giorni in Svizzera a vendere gelati, quattro mesi a Boston a lavorare nella reception di un albergo, un corso di informatica, un certificato di cinese primo livello, otto mesi a Londra come cameriere, guida turistica free lance, tre articoli sulla coltivazione dei cactus, uno stage di apicultura sul mar Rosso, volontariato alla Croce Rossa, un’estate a raccogliere pomodori nel Monferrato.
Ho solo due domande: ma che vita è? E: siamo sicuri che ci servano giovani così? O meglio, è così che vogliamo diventino i nostri giovani? È questa la nostra idea del giovane migliore che desideriamo assumere? E assumere per che cosa, poi? E i giovani sono contenti di sbattersi così, a destra e a manca, senza un senso che non sia quello di riempir curricula? Non sarebbero più contenti di fare una cosa sola e bene, magari la cosa verso cui si sentono più portati e basta? E per noi non sarebbe meglio un giovane che passa i suoi bravi 4 anni di università a studiare, e non fa nient’altro proprio perché è impegnato a studiare, e quindi verrà fuori con un minimo di sapere, magari anche approfondito e condito da una buona capacità di pensare? Pensare! Sappiamo ancora cosa vuol dire o ci siamo bevuti il cervello col mito dell’andar per frasche girando mondi come trottole, e per di più in gruppo?
Chiedo scusa: avevo ben più di due domande.
IL VERBO DELLA POESIA
L’altro giorno mi son trovata a dover spiegare ai miei allievi i generi letterari. Narrativa, poesia, teatro. Per essere incisiva, ho pensato di abbinare un verbo a ciascuno (infingardi schematismi didattici!). Narrativa: narrare. Teatro: rappresentare. Poesia…
Poesia? Ci ho pensato un po’ (non molto, per non far brutta figura), e ho detto: esprimere.
Mi rendo conto della banalità. E anche dell’inesattezza e approssimazione. Cosa vuol dire esprimere? Tutto è esprimere. Gliel’ho spiegato con l’etimologia (altra formidabile strategia didattica, quella etimologica!): ex-premere, premere fuori da, tirar fuori. Quindi il poeta è uno che tira fuori. Ma tira fuori che? Col complemento oggetto vengono i guai, perché mi vedo costretta a dire: pensieri, sentimenti, emozioni. Emozioni? Il poeta è uno che tira fuori emozioni?
Ecco, era solo per dire quanto ci impegoliamo ogni volta che vogliamo provare a definire la poesia.
Qualche giorno dopo rileggo uno dei Nove racconti di Salinger: Teddy. E perché lo rileggo? Perché stavo leggendo un bellissimo libro di Lidia Ravera, A Stromboli, e a un certo punto lei cita questo racconto che io non ricordo per niente. Mi viene quindi voglia di rileggermelo, ed ecco che lì trovo, insperatamente, una bellissima definizione di poesia. O qualcosa del genere. È quando sul ponte della nave il giovane Bob Nicholson si mette a parlare a Teddy, il bambino prodigio protagonista del racconto, e gli dice quanto è contento che sia una così bella giornata di sole, e gli dice anche che quando invece piove per lui è un disastro, la prende come un’offesa personale; poi gli chiede se anche per lui il tempo, il tempo atmosferico, riveste un’importanza così determinante. Teddy non risponde, ma dopo un po’, quando ormai parlano d’altro, chiede a Bob se per caso è un poeta. E dice: «I poeti prendono sempre il tempo come una faccenda personale, mi pare. Stanno sempre a ficcare le loro emozioni in cose che non hanno emozioni».
Quel che mi serviva: qui la parola emozioni si riscatta, mi pare. E amplificherei: i poeti prendono sempre tutto come una faccenda personale. Non solo la pioggia o la nebbia; anche la morte, per esempio.
Qualche giorno dopo ancora leggo per caso Pontiggia che cita Leopardi, da una nota dello Zibaldone del 1829: «Dalla lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia si può dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire; e ci accresce la vitalità».
Poi cita Alfredo Giuliani, dalla prima prefazione ai Novissimi del 1961: «La poesia rispetto a qualsivoglia oggetto o esperienza o gioco linguistico che l’abbia suscitata, e perfino rispetto al suo contenuto più o meno manifesto, è pur sempre una cosa in più». E commenta: «Molti tendono a pensare che la poesia sia una cosa in meno. Ma Giuliani la definisce una cosa in più».
Fine. Non siamo certo arrivati (per fortuna!) a una definizione di poesia. Ma abbiamo almeno dimostrato che i libri ci parlano e si parlano, intessendo una rete misteriosa, di cui possiamo essere soltanto testimoni ammirati.
Dovessi ora esprimere una preferenza, indicherei l’accoppiata Leopardi-Sterne: la poesia è il sorriso che aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Solo un filo. Qualcosa che potrebbe benissimo non esserci.
Ecco, trovato il terzo verbo, da collegare a Poesia: sorridere.
I GIOVANI E IL FUTURO
Il futuro è fatto di attesa. Noi invitiamo i giovani a riprendersi il futuro (ci autoaccusiamo anche di averglielo rubato), ma li orientiamo pesantemente a vivere solo nel presente. Non li educhiamo all’attesa; quando fin da piccoli li riempiamo di regali ancor prima che li desiderino; quando esaudiamo ogni desiderio all’istante; quando diamo loro in mano un tablet o un iPhone o qualsiasi strumento in cui si comunichi in tempo reale, e il tempo di attesa diventi zero: io ti parlo e tu subito rispondi; quando abbiamo fatto fuori le lettere postali, e le cartoline, e i relativi meravigliosi francobolli di cui fare collezione; quando elogiamo il multitasking, che non è se non la capacità di stare sdraiati sulle mille cose in contemporanea, tutte presenti nello stesso momento presente (appunto!).
Per avere un futuro bisogna allontanare il presente. O almeno non eleggerlo a tempo dominante. Bisogna essere disposti a pagare un prezzo, per riconquistarsi il futuro: accettare la frustrazione (temporanea) dell’attesa. Essere disposti ad aspettare una lettera, un regalo, un appuntamento, un viaggio. Aspettare una settimana, un mese, un anno. Accettare la distanza temporale tra l’annuncio di un evento, la sua programmazione, e l’avvenire di quell’evento. (A proposito, buffo che il nome avvenire sia il verbo avvenire… Ciò che avviene, ciò che càpita, è ciò che ci arriva da una dimensione futura).
L’attesa è sempre distanza. Solo nell’attesa c’è il tempo ancora da venire. Il desiderio si nutre di distanza, non sa che farsene del qui e ora. E il futuro questo è: un presente dove, se Dio vuole, nessun desiderio si è ancora realizzato. Un presente che si apre al vento delle possibilità, e non si chiude su se stesso, magari leccandosi le ferite. Se non doteremo i nostri figli di distanza, li priveremo della facoltà di desiderare, e quindi di avere un futuro.
Esempio (tragico) dei nostri tempi: I bambini non sanno più cosa scrivere nella lettera a Babbo Natale, se ne stanno lì con la penna per aria, e alla fine desistono: consegnano in bianco a noi, esterrefatti genitori che, ciò nonostante, li riempiremo ugualmente di doni, peggio che se li avessero chiesti (per inciso: che idea potranno mai farsi, i nostri bambini, di quel Babbo Natale stranito che porta doni a chi non li chiede?). E al compleanno uguale, se il genitore domanda: Che regali vorresti, il figlio triste, con l’aria assente, risponde: Niente.
Quel niente dovrebbe molto farci soffrire. Non è certo espressione di una virtuosa abitudine ad un avere parco e morigerato, no, è il segno che dal futuro non arrivano più voci.
Paola Mastrocola, Domenicale – Il Sole 24 Ore 22/2/2015