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 2015  febbraio 22 Domenica calendario

COLTIVARE LA SCUOLA RESPONSABILE

L’idea di inserire il «pensiero critico» come insegnamento obbligatorio legato a Cittadinanza e Costituzione, lanciata dal supplemento Domenica nel giugno scorso subito dopo gli Stati generali della cultura del Sole 24 Ore cui lei ha partecipato, aveva la piccola ambizione di formulare in maniera sintetica un’esigenza generale del nostro sistema educativo: quella appunto di formare cittadini attivi e consapevoli, padroni delle competenze necessarie per vivere appieno da protagonisti il proprio tempo. Gli interventi pubblicati su queste pagine, e la discussione avviata dal governo con la Buona Scuola, hanno via via allargato il quadro fino a includere riflessioni di ampio raggio, tra cui quella di Martha Nussbaum pubblicata il 25 gennaio scorso, che coinvolgono, in una visione complessa e coerente, i temi della razionalità riflessiva, della formazione al rigore argomentativo, l’empatia e la capacità di comprendere lo straniero e il diverso, il buon uso delle emozioni appreso attraverso la lettura approfondita dei testi letterari e la pratica artistica.
Ministro Stefania Giannini, in che modo si inserisce in questo quadro l’esigenza, da lei recentemente sottolineata, di promuovere una scuola basata più sulle «conoscenze» e sui contenuti (più consona alla nostra tradizione) che sulle «competenze»? Sarebbe d’accordo a includere tra queste conoscenze gli strumenti trasversali alle altre discipline quali la logica, la retorica e il pensiero critico? Aggiungendo a questi anche la buona padronanza dell’italiano, scritto e orale, che non può che nutrirsi delle capacità logico-argomentative fondamentali per il buon cittadino.
«Il nostro impegno consiste nel portare la scuola del Novecento in questo secolo. Ciò significa saper innovare contenuti e metodi senza stravolgere un modello educativo che funziona e che ha prodotto eccellenze nei secoli, da Galileo a Fabiola Gianotti. Perciò, non intendiamo sostituire il modello knowledge-based, su cui si fonda la scuola italiana, con il modello skills-based più tipico del mondo anglosassone. Il nostro obiettivo è quello di sviluppare nuove competenze e nuove abilità pratiche, sulla base di una solida conoscenza teorica. Un esempio concreto: il pensiero computazionale (coding) non significa più informatica alle elementari, ma vuol dire una didattica multidisciplinare che insegni ai bambini i princìpi di programmazione col coinvolgimento degli insegnamenti tradizionali, dalla filosofia alla logica, dalla retorica alla linguistica».
Dalla discussione sulla Buona Scuola è emersa l’esigenza, diffusa tra gli insegnanti e i ragazzi, di potenziare, oltre ai temi della cittadinanza, quelli relativi all’apprendimento delle lingue, in particolare dell’inglese. Da linguista, lei sa bene che la competenza linguistica si sviluppa in maniera assai naturale fino agli 11-12 anni di vita, e che successivamente il nostro cervello è costretto ad adottare modalità assai più faticose e artificiose per raggiungere risultati assai meno positivi. Che cosa si sta facendo per immergere gli studenti fin dai primi anni di scuola nella lingua straniera che si vuole che padroneggino? Si è consapevoli che non basta un’ora sporadica alla settimana, magari con insegnanti non madrelingua? Quali sono le misure del Governo?
«Il piano della Buona scuola ha l’obiettivo di introdurre l’insegnamento in lingua straniera di una materia non linguistica (modalità CLIL) fin dalla scuola primaria. A questo scopo verrà impiegata una parte dell’organico funzionale che prende corpo grazie a questa riforma. Ma per fare un piano ambizioso, consapevole, scientificamente ineccepibile e, al tempo stesso, realistico si deve essere consapevoli che il cambiamento partirà a settembre 2015, con l’apertura del nuovo anno scolastico, per concludersi nella sua messa a regime tra qualche anno. Per l’insegnamento della lingua verranno impiegati tutti gli insegnanti a disposizione, i neo assunti e quelli che già esistono nella scuola italiana e che hanno adeguate competenze, ma a partire dal concorso che verrà bandito quest’anno, l’asticella della competenza linguistica richiesta ai candidati si alzerà agli standard europei. E in questo modo, la scuola italiana in pochi anni avrà un ricambio generazionale orientato alla maggiore qualificazione, oltre che al necessario ringiovanimento».
Tornando a una scuola basata sulle conoscenze, vorrei affrontare il tema della formazione degli insegnanti. Non mi pare una buona idea sottrarre ben il 40 per cento del tempo della normale formazione universitaria, destinato all’approfondimento delle conoscenze, per destinarlo alla formazione delle capacità didattiche. Non sarebbe meglio incoraggiare i laureati più competenti (per esempio quelli che hanno fatto un dottorato) a entrare nel mondo della scuola? Non è meglio «insegnare a insegnare» a studiosi che padroneggiano già i loro saperi piuttosto che sottrarre tempo alla formazione dei medesimi saperi?
«Ciò che si deve fare è integrare in uno stesso percorso universitario l’acquisizione dei contenuti disciplinari e le modalità di applicazione di tali contenuti nella didattica. Questo significa: laurea abilitante».
L’autonomia scolastica è stata finora in larga parte una possibilità disattesa perché i finanziamenti sono stati minimi e si sono ridotti negli anni. È un vero peccato. C’è un piano per rendere le scuole protagoniste e parte attiva nei processi di trasformazione della didattica e della formazione in servizio?
«Il piano esiste e si chiama “la Buona scuola”. Quello che faremo nel prossimo decreto, che non sarà caratterizzato solo dal grande piano assunzionale, sarà creare l’organico funzionale, aggiornare gli obiettivi didattici e formativi degli studenti e stabilire le funzioni proprie delle reti di scuole. Questa è l’unica strada per ottenere l’autonomia reale. Il piano assunzionale risponde a tre principi che sono indissolubilmente legati l’uno all’altro: il fabbisogno delle scuole (quindi tutti gli insegnanti che servono per gli scopi didattici e formativi indicati nel piano), la stabilità e la continuità didattica (quindi il superamento definitivo del precariato) e la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento (quindi la formazione degli insegnanti e la valutazione dei risultati)».
La buona formazione come ascensore sociale condiviso e accessibile a tutti. L’Italia non è uno dei paesi che brillano per mobilità sociale e ciò causa un enorme spreco di intelligenza. C’è qualche idea per rendere più concreto il dettato costituzionale che impone di rimuovere gli svantaggi economici e sociali per lo sviluppo della persona?
«Credo che l’articolo 3 della Costituzione dia alla scuola, all’università e alla ricerca un compito non esclusivo, ma decisivo. Quando dice che “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli [...] che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, parla di noi. Parla di quei circa 11 milioni di italiane e di italiani che vanno in aula, in classe o in laboratorio ogni mattina, per imparare e per insegnare, per far funzionare gli edifici, per dare sostegno a un bambino disabile o per consegnare la lingua di Dante a chi viene da lontano. L’istruzione è un diritto fondamentale della persona e rappresenta il principale strumento di riscatto sociale e umano, sia per l’individuo che per la collettività. Non ci sono misure tecniche che garantiscano l’esercizio di tale diritto. Ciò che può restituire all’istruzione questo ruolo nel nostro Paese sono gli investimenti mancati fino ad oggi, la risoluzione di antiche piaghe che finora non c’è stata e, principalmente, una visione d’insieme della funzione educativa della scuola. La nostra visione ribadisce la validità del modello basato sulla conoscenza. Le discipline fondamentali, dalla filosofia alla matematica resteranno al loro posto, ma inserite in una metodologia didattica e in un contesto di apprendimento che deve tenere conto di una società in cui i dati vengono trasmessi acquisiti da più fonti e in maniera simultanea. Gli studenti non sono estranei a questo nuovo contesto epistemologico, mentre la scuola finora lo è stata, se non per buone pratiche diffuse a macchia di leopardo».
La proposta della Buona Scuola prevede avanzamenti di carriera su base meritocratica, ma con aumenti risibili da prevedere ogni tre anni e che dovranno interessare il 66% dei docenti, il che produrrebbe lo strano effetto di pensare che il 33% rimanente non sia adeguato al compito che svolge, e in ragione di uno scarto minimo di stipendio. Non sarebbe il caso di pensare a criteri meritocratici più decisi e più chiari? Non sarebbe il caso di tendere a una scuola in cui insegnano solo i meritevoli?
«Gli aumenti economici che vengono ipotizzati nella Buona scuola non mi paiono risibili, ovviamente a partire da una base stipendiale modesta e inadeguata al valore oggettivo del ruolo di insegnante. Ma questo è un problema di tutto il pubblico impiego in Italia. La scuola, come le altre istituzioni, riflette la società a cui appartiene, con la sua complessità e i suoi punti di forza e di debolezza. Immaginarne una in cui insegnino solo i meritevoli è, francamente, utopistico. È un po’ come esigere una magistratura in cui esercitino le funzioni solo i magistrati equilibrati. Resta nostro dovere e compito istituzionale poter distinguere tra chi fa bene e chi fa male e trarne le dovute conseguenze (premio o sanzione). Questo è il tanto evocato e poco praticato merito».
Il ruolo dei dirigenti scolastici è decisivo per attuare trasformazioni significative nella didattica. Finora, nella loro formazione, sono prevalsi gli aspetti di sicurezza e di gestione, trascurando il loro ruolo decisivo di organizzatori culturali, capaci di valorizzare le qualità degli insegnanti presenti nelle scuole e avviando sperimentazioni significative legate alle esigenze dei ragazzi di quel territorio.
«Con la Buona Scuola, il ruolo del dirigente scolastico che negli ultimi anni si è dovuto limitare, suo malgrado, a gestire una burocrazia a tratti opprimente, cambierà profondamente. Il nostro obiettivo è intervenire su due fronti: alleggerire il carico amministrativo con le già descritte norme di semplificazione del ginepraio burocratico che rallenta e inceppa l’attività quotidiana (“sblocca-scuola”) e restituire al “vecchio Preside” la sua nobile funzione di punto di riferimento dell’intera comunità scolastica, ad esempio attraverso la gestione di un organico allargato con cui potrà formare la “sua” squadra, valorizzando le competenze dei docenti. Più flessibilità, più autonomia e, ovviamente, più responsabilità».
Durante l’incontro a Udine con Martha Nussbaum sono emersi nomi di educatori come Dewey, Maria Montessori, Tagore, ma anche Don Milani e Don Bosco: in comune avevano l’idea di una scuola come laboratorio di esperienze conoscitive legate alla vita reale. A tratti la Buona Scuola sembra alludere a questo. Ma se laboratori devono essere - e sarebbe un bene ridurre il più possibile l’insegnamento frontale a vantaggio di modalità più interattive -, non crede che dovremmo evitare di guardare a forme un po’ vacue di creatività, come quando si propongono laboratori di scrittura al posto del tema in classe, e promuovere invece laboratori che rafforzino le capacità razionali, il reale confronto tra le opinioni e il reale controllo dei fatti, avvicinandoci semmai a quella forma di immaginazione, creatività e esperienza che produce le migliori innovazioni scientifico-tecnologiche?
«Sono totalmente d’accordo. Bisogna distinguere tra ciò che è accessorio e ciò che è essenziale. Quello che è accessorio può essere aggiunto. Il laboratorio di scrittura è un accessorio utile e un completamento stimolante dell’insegnamento della grammatica e della struttura della lingua materna dei nostri studenti, l’italiano, quello di Dante, Calvino o della comunicazione odierna, prima che l’italiano diventi la lingua straniera più parlata in Italia... Diceva Don Milani cinquant’anni fa ai suoi ragazzi della scuola di Barbiana: la scuola rende eguali, perché restituisce a tutti la parola. Ecco, questo in definitiva è il nostro umile e ambiziosissimo disegno: restituire a tutti i nostri ragazzi il linguaggio e la parola, perché possano interpretare, rappresentare e comunicare la loro visione del mondo».
Armando Massarenti, Domenicale – Il Sole 24 Ore 22/2/2015