Gabriele Romagnoli, la Repubblica 22/2/2015, 22 febbraio 2015
QUEL PALAZZO DEL CAIRO CHE SABOTA LE RIVOLUZIONI
Pensa laterale. Guarda di lato: la storia si compie nell’ombra, non alla luce. Più che la piazza, poté il palazzo. Più che Tahrir, Mogamma. Raccontare il Cairo significa sottoporsi alla periodica tortura del disincanto. Ci ho vissuto quando niente sembrava possibile: comandava una elite di militari corrotti, i Fratelli musulmani erano ai margini, le minoranze discriminate, le libertà civili un sogno, film e libri censurati. Qualcuno all’ambasciata egiziana a Roma leggeva i miei articoli, sottolineava le parti spiacevoli e faxava a un ufficio dove fui chiamato a risponderne. Come ogni giornalista straniero avevo un addetto al controllo che mi seguiva ovunque. Mi voltavo spesso a salutarlo.
Il Cairo è una trappola per turisti: le piramidi sbucano al termine di un viadotto, assediate da condomini, i panni stesi sventolano su Micerino; il Museo Egizio è un ripostiglio, il suo soprintendente, vestito da Indiana Jones, annunciava periodicamente “ritrovamenti di straordinaria importanza”, avvenuti nel caos del sottoscala; il quartiere copto è un gioiello ammaccato, buttato tra i rifiuti. Il vero splendore è la gente, ammassata e fiera: faraoni nella polvere.
Il tecnico che venne a ripararmi la lavatrice la guardò rimettersi in funzione con uno stupore esagerato e sospetto. Confessò: «Sono un commercialista. Non avendo lavoro, sto provando questo. Mi offrirebbe un caffè?». Il portiere nubiano condusse orgogliosamente il corrispondente dell’ Economist nella sua guardiola per mostrare il regalo avuto dalla padrona di casa alla fine del Ramadan: un cartone su cui dormire, «nuovo nuovo», sottolineò felice. All’ufficio postale, ultimo in una coda di undici, quando firmai il registro per ricevuta vidi nelle righe soprastanti dieci croci. Il tassista con il veicolo più sgarrupato della città (una Fiat 124 con l’adesivo “la mia seconda auto è una Porsche”) per una mancia sopra la media baciò la banconota e alzò il ringraziamento al cielo. Fu lui a portarmi al Mogamma.
All’epoca piazza Tahrir non era un simbolo, ma soltanto uno spiazzo circondato da una rotatoria intasata da cui si levavano cori di clacson e miasmi. Il Mogamma incombeva. Vedendolo, chiunque avrebbe pensato a una costruzione dell’Europa orientale, uno di quei templi del potere immensi e brutti, pensati come monumenti all’oppressione. Che l’abbia fatto costruire un re ridicolo, Farouk, alla fine degli Anni Quaranta è una delle tante discronìe del Cairo. Ha quattordici piani. Ci lavorano, almeno in teoria, diciottomila impiegati. Ci si va per chiedere visti d’espatrio che non verranno concessi, documentazioni che non saranno prodotte, ricorsi fiscali che rimarranno inevasi. Già all’ingresso si viene soffocati da infinite impossibilità che conducono al nulla: corridoi ciechi, porte che si aprono senza che ne esca qualcuno, scrivanie su cui sono posati un bicchiere di tè e una sigaretta, entrambi fumanti, ma dietro non siede nessuno. Una immensa scala a chiocciola ascende verso qualcosa che probabilmente non esiste, la tortuosa promessa di una religione abiurata. Sembra progettato da Salvador Dalì, più che da Kamal Ismail. Avrebbe dovuto scriverci un racconto Borges, ci ha fatto un film Adel Emam ( Terrorismo e kebab , la commedia di maggior successo del cinema egiziano). Il Mogamma non è la sede del potere, è il suo metodo. Prima ancora che con la violenza o il controllo, ti sconfigge rendendoti impotente a tutto. Chiedi pure: non ti sarà dato. Vaga: non ci sarà meta. Nulla si produce, quindi niente cambia. Nel dialogo tra uno dei diciottomila impiegati (se lo trovi) e uno dei centomila utenti le frasi ricorrenti sono due. Il primo dirà: «Fut alena bocra» (riprovi domani), con espressione seria e intento di scherno. Il secondo se ne andrà replicando: «Ashufak embereh» (ci vediamo ieri), sorridendo, ma grave dentro.
Chi comanda detesta le piazze, perché sono il vuoto, di potere. Adora i palazzi, perché in essi svuota il popolo, di legittimità.
Tahrir, la piazza. Mogamma, il palazzo. Istruzioni per una rivoluzione di successo: deponete tutta la vecchia guardia, processatela e condannatela, ma prima ancora prendete i palazzi che ne erano il simbolo, buttate ogni cosa dalle finestre, convertiteli in musei dell’umiliazione riscattata.
Invece, la storia ha fatto il suo corso e ricorso: l’utopia è morta in piazza. Fa una tristezza insostenibile rivedere l’Occidente (e gli egiziani) aggrappati ai pantaloni della divisa di un generale, che ha riportato al potere i militari corrotti, riemarginato i Fratelli musulmani, ridiscriminato le minoranze e rinnegato le libertà civili. Nella distopia del Cairo la parola “oggi” è un’illusione. Alla rivoluzione non resta che dire: “Riproveremo domani”. Ma chi comanda risponde: “Sì, ci vediamo ieri”. Nel suo libro Once upon a revolution (C’era una volta la rivoluzione), Thanassis Cambanis scrive di aver visto su un muro vicino al Mogamma (più che a Tahrir) questa scritta: «Ti ricordi il domani che non è mai arrivato?».
Gabriele Romagnoli, la Repubblica 22/2/2015