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 2015  febbraio 22 Domenica calendario

ADDIO A LUCA RONCONI RIVOLUZIONARIO DEL TEATRO CHE MISE IN SCENA LE RELAZIONI INVISIBILI

Senza neppure saperlo Milano ha salutato Luca Ronconi applaudendo la sua ultima messa in scena. Impossibile, lunga cinque ore e essenziale, come quasi sempre. La Lehman Trilogy è la storia bisecolare della famiglia Lehman, dalla fondazione dell’impresa sino al crollo, scritta dal drammaturgo Stefano Massini e apparentemente irrappresentabile. Ma del resto Luca Ronconi è stato il regista del non rappresentative . Qui, con un manipolo di “suoi” attori a cui per l’occasione ha aggiunto Fabrizio Gifuni, ha disegnato l’inarcatura storica e sociale lungo la quale l’economia globale si è separata dalla produzione materiale. Fino all’esplosione della bolla. Rappresentare le relazioni invisibili, i concetti era del resto la sua specialità.
A Milano Ronconi aveva già portato Infinities, una collana di invenzioni fra la matematica e Jorge Luis Borges portata in diversi ambienti di certi vecchi magazzini della Scala, alla Bovisa: la meraviglia di un teatro fuori dal teatro e di una recita i cui protagonisti sono le entità più astratte immaginate dall’uomo. Ora, parlando di astrazioni un tenace equivoco vuole che sollevarsi dalla realtà materiale non possa che raffreddare, sino al gelo del ragionamento logico indifferente a ogni passione. Ronconi funzionava al contrario: questi esperimenti erano condotti sulla base di una concezione del tutto passionale e “calda” del pensiero. Così il suo Don Giovanni mozartiano, addirittura barocco e corporeo. Fu quella rappresentazione una scelta quasi hard: mettere in scena dei lettoni, macchine gigantesche che quasi travolgevano lo spettatore, era proprio questo. La vita che ti porta via, come quei letti a baldacchino dove Don Giovanni consumava i suoi amori.
La stessa grande ambizione immaginata nel rappresentare Kraus e i suoi Ultimi giorni dell’umanità fatto al Lingotto nel novembre del 1990 con carrelli e binari che fecero di quell’apocalisse irrapresentabile un evento. L’idea di uno spettacolo totale dentro una scena sterminata dove lo spettatore si perde e si ritrova insieme. Scegliere il Lingotto, quei tubi, quella struttura che veniva da un’altra storia, la fabbrica, era anche un modo per aprire la regia all’esistenza, alle sue possibilità, alla sua attualità. Come Ronconi ha mostrato in tanti altri spettacoli, anche quando erano dei grandi classici come l’indimenticato Orlando furioso del 69 dove Ariosto con i suoi versi diventava il cantore delle inquietudini giovanili di quegli anni e gli spettatori ci si rispecchiavano con i loro sentimenti e i loro slanci. Molte le rivisitazioni di testi classici che Ronconi ha firmato, alcune rimaste epocali come la Torre di von Hofmannsthal al laboratorio di Prato o la trilogia del 2002 da Eschilo, Euripide e Aristofane, Prometeo incatenato, Baccanti, Rane che dal teatro greco di Siracusa furono poi rappresentate anche al Piccolo Teatro dove c’è stata dal ‘99 tutta l’ultima importantissima fase di lavoro del regista.
Cosa è il teatro, del resto? Ce lo si ricorda poi nell’avventura sempre kolossal di una Lolita, scommessa davvero ardita. A un certo punto il regista interveniva direttamente in scena, poiché il romanzo di Vladimir Nabokov proponeva un ingorgo di trama che il disperato regista (interpretato dal divertitissimo regista effettivo, appunto lo stesso Ronconi) si rassegnava a raccontare interrompendo la messa in scena. Ronconi era così: associava il massimo del teatro al massimo del fuori teatro, sorvegliando il confine con talento e rigore. Leggendario il suo modo di non essere personaggio: laconico, spiritosamente elusivo, incapace di teatralità nella vita sociale e nei cerimoniali della comunicazione pubblica. Non aveva nulla da aggiungere al suo carisma. Considerato un grande maestro del teatro italiano, forse l’ultimo, non è detto che la sua lezione di descrizione verrà mai appresa. Certo non è stata la meno importante.
Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 22/2/2015