Chiara Beria Di Argentine, La Stampa 21/2/2015, 21 febbraio 2015
IL PRETE MONTANARO RICORDATO FRA I GIUSTI
«Ricordo don Cirillo con gli scarponi chiodati sotto la tonaca, la giaccavento e un basco blu che correva su e giù da una frazione all’altra. Era veloce e agile come uno scoiattolo», sorride Giulio Segre. Dicembre 1943.
In fuga dai nazifascisti una famiglia di Saluzzo -Vittorio Segre, la moglie Eugenia Bigo e il piccolo Giulio di 7 anni - arrivano a Cormaiore, nome durante il fascismo di Courmayeur. I Gebirgsjaeger tedeschi a controllare i valichi, le SS ad Aosta, 5 mila lire di taglia a chi segnalava un ebreo; gelo, fame e nessuna via di fuga possibile per la Svizzera. Vittorio disperato chiede aiuto al parroco, don Cirillo Perron. E il prete di Valtournenche che saliva verso il cielo scalando il Dente del Gigante nasconde il bambino sconosciuto nello stanzino segreto dietro la sagrestia. Procura documenti falsi e lo fa passare per un suo nipote.
27 Gennaio 2015. Giornata della memoria nel 70° anniversario della liberazione di Auschwitz, il campo di concentramento dove 29 dei 45 appartenenti alla Comunità ebraica di Saluzzo furono deportati e da dove non tornarono più. Tra i morti anche Moise ed Emma, i nonni paterni di Giulio e una prozia. Dentista in pensione, ultimo ebreo di Saluzzo, Segre come ogni anno ha parlato della Shoah ai giovani. Nonostante i morti in Francia e Belgio («L’antisemitismo ogni tanto rimette fuori la testa») e la cagionevole salute (da tempo ha perso i biondi capelli che l’aiutarono a mimetizzarsi in Valle, ora ha anche i baffi bianchi) quest’anno Segre ha vissuto la ricorrenza con altro spirito. Da Israele è arrivata a Segre e al nipote di don Cirillo, don Donato Perron, la notizia che il prete montanaro per 50 anni parroco di Courmayeur è stato nominato «Giusto tra le nazioni», massima onorificenza a chi ha rischiato la vita per salvare anche un solo ebreo dallo sterminio.
«Avevo un debito di riconoscenza e ho pensato a Yad Vashem di Gerusalemme dove sono ricordati quasi 25 mila “Giusti”». dice Giulio Segre. «Gli italiani sono circa 550, non tanti. C’è Carlo Angela, padre del giornalista, Gino Bartali e parecchi sacerdoti. Don Cirillo credo sia il primo valdostano». Mi spiega, poi, le varie fasi dell’istruttoria e con quanta ansia ha atteso il risultato. «Ho segnalato quasi 2 anni fa al Cdec, il Centro documentazione ebraica di Milano, la mia storia. Ho fatto tradurre in inglese il libro “Don Cirillo e il nipotino” che mia figlia Elena mi ha convinto a scrivere e che Fusta, un piccolo editore saluzzese, ha pubblicato nel 2012. Una commissione, assai severa, di giudici ed ex deportati ha vagliato le testimonianze. Ora è arrivata la bella notizia».
Domando a Segre: ma perché ha atteso tanti anni? Don Cirillo, sacerdote molto amato da generazioni di abitanti di Courmayeur e di villeggianti, è morto nel lontano 1996. «È vero. Sono colpevole di memoria sopita per non dire negata», sospira. Narra di quando, alla fine della guerra, la sua famiglia si riunì (il padre si era nascosto a Milano e Novara; la madre di religione cattolica pur di rivederlo anche se di nascosto era tornata nel 1944 a Courmayeur) e trovò la casa di Saluzzo occupata da altri. Suo padre, ripreso il lavoro di odontotecnico, non parlava mai del passato. «Il venerdì sera lui m’accompagnava in sinagoga; con mia madre andavo la domenica a messa. Sono cresciuto così, non ateo ma laico. Dio è uno solo; è indifferente pregarlo in ebraico o, come m’insegnò don Cirillo, in latino. Alla scomparsa di mio padre a Saluzzo non c’era più nessun ebreo (Giuseppe, mio fratello minore, vive a Torino dove è presidente della Comunità). Allora, mi sono detto che qualcuno doveva pur occuparsi della sinagoga o di potare le rose al cimitero ma, soprattutto, delle nostre tradizioni e radici. Il libro? Volevo lasciare una traccia ai miei nipoti. È alla 3 a edizione, non credevo che la mia piccola storia potesse interessare».
I giorni della guerra sotto il Monte Bianco, i falò accesi dai partigiani di notte su La Saxe, i cannoni tedeschi contro Dolonne e un bimbo ebreo protetto in realtà non solo dal parroco. A Giulio Segre sedicenti registi hanno chiesto soldi per farne un film, eroi e sciacalli nascono in ogni generazione.
Chiara Beria Di Argentine, La Stampa 21/2/2015