Luca Gualtieri, MilanoFinanza 21/2/2015, 21 febbraio 2015
CHI È DAVVERO L’ACCUSATO
C’è una domanda che banchieri e investitori si sono posti, seguendo i casi giudiziari di Ubi, Banca Etruria e Veneto Banca: sotto inchiesta sono singole aziende o un intero sistema? I procedimenti avviati dalle procure di Bergamo, Arezzo, Treviso e Roma hanno gravità e contenuti diversi, ma sembrano accomunati dalla volontà di colpire alcune storiche dinamiche del credito cooperativo: dal socio-cliente al sistema delle deleghe di voto, dalla valutazione delle azioni non quotate alla mobilitazione dei soci. Sia chiaro: gran parte di questi meccanismi si fondano su tradizioni secolari e sono disciplinati dagli statuti. Finora tribunali e authority se ne sono occupati raramente. Ma le inchieste di questi giorni potrebbero essere il grimaldello che scardina il modello mutualistico, spianando la strada all’azione riformatrice del governo. Ecco come.
I soci-clienti. Nell’inchiesta su Veneto Banca i magistrati di Roma contestano i prestiti facili a imprenditori che, in cambio, avrebbero acquistato azioni della popolare. La prassi, sempre per i pm Nello Rossi e Maria Francesca Loy, avrebbe determinato uno scadimento della qualità dei prestiti e perdite per più di 192 milioni. Per la Procura quei clienti non avrebbero offerto le dovute garanzie e proprio su questo (oltre che sull’eventuale assistenza finanziaria fornita dalla banca) dovrebbe basarsi il teorema accusatorio. È chiaro però che, puntando il faro sul ruolo dei soci-clienti, le cronache di questi giorni toccano uno dei meccanismi più delicati del credito cooperativo. Non è un mistero che in gran parte delle popolari gli affidatari siano soci della banca, secondo una consuetudine consolidata. Non solo per una forma di fidelizzazione verso l’istituto, ma anche perché i clienti-soci godono spesso di condizioni di favore rispetto agli altri. Basta una brochure per conoscere i vantaggi più immediati: affidamento in conto corrente a condizioni agevolate, riduzione del tasso sui prestiti personali, spese di istruttoria ridotte o azzerate sui mutui, agevolazioni sul leasing strumentale, coperture assicurative, servizi extrabancari. Alcune banche offrono benefit ancora più mirati ai soci che abbiano partecipato a una data assemblea, come sconti sui costi del conto corrente o del conto titoli. Non occorre grande familiarità con la finanza per capire che l’acquisto di azioni e l’iscrizione a libro soci conviene molto ai clienti di una popolare. Anche perché, come sancito da alcuni statuti, i titoli della banca possono garantire il fido stesso, con un meccanismo che tutela gli altri soci dell’istituto. Tutto ciò è legale? Naturalmente sì, dai tempi di Luigi Luzzatti, anche se il vento della trasformazione ha cominciato a soffiare.
Deleghe di voto. Il nuovo filone dell’inchiesta di Bergamo su Ubi Banca mette nel mirino questo meccanismo, ipotizzando che nell’assemblea del 2013 molte deleghe siano state in bianco o false. Negli ultimi anni l’uso delle deleghe si è intensificato. Gli statuti delle 37 popolari italiane ne prevedono in media 4,4 per socio. E se il trend ha favorito la partecipazione alle assemblee e contrastato l’autoreferenzialità degli organi, dall’altro ha creato problemi di cui la stessa Banca d’Italia è consapevole. «Un alto numero di deleghe potrebbe, in taluni contesti, favorire gruppi organizzati per far valere obiettivi di natura non economica o estranei all’interesse sociale», spiega via Nazionale nelle recenti Disposizioni di vigilanza sull’organizzazione e governance delle banche. Anziché irrobustire la democrazia societaria, cioè, l’aumento delle deleghe ha talvolta reso ancora più pervicace la macchina del consenso, che grazie alla fitta rete di clientele di cui dispongono le banche può servirsi di strumenti più raffinati e meno rischiosi delle pratiche da falsario.
Le azioni non quotate. Il dibattito su questi titoli dura da molto tempo, anche se le recenti vicende giudiziarie hanno fatto un salto di qualità. Nel caso di Veneto Banca la Procura di Treviso ha ipotizzato il reato di aggiotaggio per alcune alterazioni nel valore del titolo, che avrebbero gonfiato il patrimonio della banca. La materia è spinosa perché finora il problema è stato sollevato solo in poche occasioni. In base a quali parametri si può dire corretto il prezzo delle azioni di una banca non quotata? La cifra fissata lo scorso anno dal cda di Veneto Banca in base a una certificazione esterna valutava l’istituto 4,5 miliardi, 1,3 volte il patrimonio netto. Un valore realistico? No, se si prende a riferimento il Ftse Mib dove da anni le banche trattano a forte sconto sul patrimonio, tanto che la capitalizzazione teorica di Montebelluna batte Bpm, Bper e Banco Popolare. In tal caso però, ancora una volta, bisognerebbe rivedere le regole del sistema, visto che le popolari non quotate in Italia sono tante e quasi tutte «quotano» a premio. La Popolare di Bari vale 1,03 volte il patrimonio netto, la Popolare di Vicenza 1,4, quella di Marostica 1,1, la Cividale 1,6, la Popolare di Ragusa alla pari. A lungo tali valutazioni sono state accolte bene dai soci che si sentivano al sicuro dagli irrazionali saliscendi di Piazza Affari. L’oasi protetta però aveva un contropartita: la difficile liquidabilità dell’investimento. Non solo perché non c’è un mercato in cui queste azioni possono essere scambiate incrociando domanda e offerta, ma anche perché a volte il riacquisto da parte della banca va autorizzato dal cda: può insomma passare da una settimana a qualche mese prima che il passaggio vada in porto. Ma anche questa non può essere ritenuta colpa delle banche. Si presume infatti che gli investitori sapessero che tipo di titolo stessero comprando e quali fossero i rischi.
Blocchi di potere. Nelle popolari, dove il voto capitario sterilizza i grandi pacchetti, il potere è soprattutto capacità di mobilitazione. La macchina del consenso ha assunto volti diversi: associazioni parasindacali di dipendenti come gli ex Amici della Bipiemme, comitati-partito come la Bper Futura di Gianpiero Samorì a Modena oppure formazioni radicate sul territorio come l’Associazione Banca Lombarda e Piemontese e gli Amici di Ubi Banca. Proprio queste ultime sono nel mirino della Procura di Bergamo che ha ravvisato una sorta di patto occulto sebbene in una cooperativa simili accordi siano difficili da dimostrare. Più in generale, le associazioni di azionisti sono onnipresenti nelle popolari e spesso intendono esercitare un’azione, diretta o indiretta, sui destini delle banche di riferimento. La circostanza può dispiacere ai cultori del libero mercato e qualche solerte ispettore Consob potrebbe non assimilare le indicazioni di questa o quell’associazione agli «obblighi di preventiva consultazione per l’esercizio del diritto di voto» di cui parla l’art. 122 del Tuf. Ma anche questa è una prassi nata e cresciuta con il modello mutualistico. Metterla sotto accusa significa processare quel modello.
Luca Gualtieri, MilanoFinanza 21/2/2015