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 2015  febbraio 21 Sabato calendario

IN TRINCEA CONTRO LA BUBA

L’Eurozona è a un bivio. La scelta ancora una volta sarà tra rigore e crescita. Stavolta però il dilemma non riguarda gli Stati, ma le banche. In ambito pubblico, dopo anni, è apparso chiaro quanto dannose siano state politiche troppo severe per i conti pubblici. Nel settore finanziario c’è il rischio di ripetere gli stessi errori.
Il Meccanismo di vigilanza unico (Mvu) è partito ufficialmente a novembre, subito dopo la valutazione Bce sulle banche. Si tratta di un passaggio fondamentale per l’integrazione nell’Eurozona: il più significativo dalla nascita dell’euro, come spesso, a ragione, si ripete. I benefici del Mvu già ora superano gli svantaggi. Ma ciò non toglie che restino molti aspetti da affinare e un grande rischio: l’Unione bancaria ha bisogno di un’impostazione che favorisca il credito e rifletta il bene dell’area nell’insieme, non solo quello dei suoi due azionisti di maggioranza, in primis la Germania. Se l’Unione bancaria continuerà a guardare soltanto ai livelli di capitale, allora le conseguenze si faranno sentire per l’economia di tutta l’area, proprio come è accaduto finora con l’austerità per gli Stati.
Tutto è reso più complicato dalla costruzione dell’Eurozona che, per come è adesso, impedisce di arrivare alle decisioni che sarebbero prese in una vera Unione. Prevale la difesa di interessi nazionali.
In una lotta di tutti contro tutti, non può che vincere il più forte. Basti pensare alle ormai celebri dichiarazioni di Deauville, quando Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno aperto al coinvolgimento dei privati e al default degli Stati. Da quel momento tutti i tassi sui titoli di Stato hanno iniziato a salire, per il timore di possibili default. Eccetto quelli di un Paese: la Germania, appunto. Berlino è stata senza dubbio abile nell’aumentare la competitività e approfittare dell’euro. Ma la crisi dell’Eurozona per Berlino si è trasformata in un grande affare: gli investitori sono fuggiti dai Paesi in difficoltà (che a quel punto hanno rischiato davvero di saltare, come accaduto anche all’Italia nell’estate 2011) e si sono riversati sui titoli tedeschi. Così la Germania si è potuta finanziare per anni a tassi zero o addirittura negativi.
Non è stata certo l’unica decisione nell’interesse esclusivo di Berlino: la prima ristrutturazione del debito greco, ad esempio, è stata fatta in ritardo, per dare tempo alle banche tedesche di ridurre l’esposizione. Ora si ragiona di nuovo sulle condizioni per la Grecia, in una trattativa che è condotta quasi più con Berlino che con Bruxelles.
Sarebbe possibile fare esempi anche in altri ambiti (per esempio nelle questioni di politica estera, come apparso evidente quando Merkel ha trattato con gli Usa sull’Ucraina per conto di tutta Europa).
Ma ora la questione più importante riguarda le banche, centro nevralgico dell’economia, soprattutto in Paesi come l’Italia dove gli istituti pesano per la quasi totalità dei prestiti, per la quasi totalità delle imprese. Se le regole fissate per le banche sono decise, o comunque pesantemente influenzate, dalla visione rigorista tedesca (ma rigorista solo sui prestiti e non su derivati e titoli illiquidi), ci sono conseguenze di rilievo per il credito in tutti i Paesi dell’area. Questioni tecniche, maneggiate da pochi esperti, possono avere conseguenze enormi per migliaia di persone. Da qui la necessità di un cambio di passo dell’Unione bancaria, che passa anche dalle decisioni all’interno della vigilanza unica.
Ma da chi è rappresentata l’Italia nel cuore della Bce? Da una parte c’è il Consiglio direttivo, che delibera in materia di politica monetaria, in cui siedono due italiani: il presidente, Mario Draghi, e il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, insieme agli altri banchieri centrali dell’area euro. Draghi e Visco hanno dovuto lottare contro i ripetuti nein tedeschi e dei governatori filo-germanici prima di prendere il toro per le corna e lanciare, in ritardo e con lo spettro deflazione alle porte, il Quantitative easing, manovra quasi obbligata dallo statuto della Bce che impone un obiettivo di inflazione sotto ma vicino al 2%. Anche in quell’occasione, però, la Bundesbank ha preteso una condivisione dei rischi limitata (pari di fatto all’8% del totale), che non è propria di un’unione monetaria ottimale.
Le conseguenze più dirette per le banche si fanno sentire però nella supervisione, dove il Consiglio direttivo ha un ruolo più limitato. La vigilanza giornaliera è condotta dai cosiddetti joint supervisory team (Jst), composti da membri in gran parte nazionali. Le decisioni sono prese invece nel Consiglio di vigilanza, composto da un presidente (la francese Daniele Nouy), un vicepresidente (la tedesca Sabine Lautenschlager), quattro rappresentanti della Bce (tra cui l’italiano Ignazio Angeloni) e i rappresentanti delle autorità nazionali (tra cui Fabio Panetta, vice dg della Banca d’Italia). Ogni membro ha un voto e le decisioni sono prese a maggioranza. Il Consiglio direttivo può sollevare obiezioni entro dieci giorni: se non lo fa, le decisioni del Consiglio di vigilanza sono automaticamente adottate. In ogni caso il Consiglio direttivo può solo respingere le proposte, non modificarle. Il motore del Mvu è quindi il Consiglio di supervisione e non è certo un caso che la Germania, quando si è trattato di sostituire nell’executive board della Bce Jorg Asmussen (considerato da molti vicino a Draghi), abbia puntato su Lautenschlager, vice di Jens Weidmann alla Bundesbank, con un curriculum nella vigilanza e non nella politica monetaria.
Finora la preoccupazione maggiore del Mvu è stata sottoporre le banche a requisiti stringenti, tali da rendere molto improbabile il fallimento di una banca. Una scelta dettata anche dal rischio reputazionale del nuovo legislatore e senza dubbio legittima, ma che non considera gli effetti negativi sul credito e la crescita (raramente citati persino negli interventi pubblici del duo di vertice franco-tedesco del Consiglio di vigilanza). Il rischio è ritrovarsi con banche solidissime, che non falliranno mai, ma che nel frattempo, soffocate da una regolamentazione troppo stringente (non solo a livello europeo ma anche globale), non siano capaci di sostenere l’economia, in una fase in cui è fondamentale farlo. Un problema enorme per l’area euro, che sta diventando sempre più simile al Giappone: la prospettiva è quella di molti anni di crescita e inflazione attorno allo zero. Si assiste così al paradosso della Bce che da una parte (con il braccio monetario) insiste con misure espansive per rilanciare il credito e l’inflazione, dall’altra (con la supervisione) mette il freno. Neppure Draghi sembra in grado di dare maggiore equilibrio alle tendenze divergenti delle politiche Bce, anche perché la vigilanza è stata regolata in modo da essere (nel bene e nel male) nettamente separata dalla parte monetaria.
Per quanto riguarda gli esponenti italiani della vigilanza europea, i vertici di Banca d’Italia, che pure in passato hanno spinto con forza le banche a rettifiche e aumenti patrimoniali, di recente si sono mostrati invece consapevoli dei rischi di regole troppo dure. «Per non ostacolare il consolidamento dei segnali di ripresa delle economie occorrerà calibrare con cautela le ulteriori richieste di incremento delle dotazioni di capitale», ha detto Visco al Forex. In precedenza anche Panetta, che già nella conferenza stampa post stress test e nel pieno della campagna mediatica internazionale (che paragonava le banche italiane a Belzebù) aveva spiegato come leggere correttamente i risultati dell’esame, ha dato nei giorni scorsi un lettura lucida dei rischi che si stanno correndo: «Non si può pensare di risolvere i problemi delle banche aumentando in modo continuo, indiscriminato ed eccessivo i requisiti di capitale. Questo frenerebbe di nuovo il credito e soffocherebbe la ripresa. La Banking Union è nata per costruire un sistema bancario europeo solido, in grado di finanziare famiglie e imprese, e per raggiungere quell’obiettivo dobbiamo trovare il giusto punto d’equilibrio fra stabilità delle banche e impulso all’economia».
Non tutti gli altri membri del Consiglio di vigilanza hanno altrettanta consapevolezza del problema e dell’elevata posta in gioco. «I poteri decisionali sono tutti nel Consiglio di vigilanza Bce con cui le banche non hanno dialogo», ha detto Pier Francesco Saviotti, ad del Banco Popolare, che ha chiesto anche un intervento della politica. «Lì c’è Panetta che si spende per difendere le banche italiane. Ma purtroppo è solo». Tra i Paesi del Nord Europa prevale ancora diffidenza verso i sistemi bancari del Sud, come per le loro finanze pubbliche. Anche Angeloni, pur dicendosi d’accordo con Visco sulla necessità di calibrare i requisiti, ha negato che ci sia incompatibilità tra aumentare il capitale e i prestiti e ha detto al contrario che «le due cose vanno insieme» e che i livelli del credito non sono influenzati neppure nel breve periodo. Un simile approccio peraltro è seguito dall’Eba guidata da un altro italiano, Andrea Enria: l’autorità bancaria europea è chiamata a definire regole e standard tecnici, dietro i quali si mascherano spesso nuove strette (come nel caso dei crediti scaduti, si veda MF-Milano Finanza del 17 febbraio). Aqr e stress test hanno mostrato la solidità del sistema in Italia e in Europa: ora il Mvu dovrebbe rivolgere l’attenzione anche altrove, pensando non soltanto agli indici patrimoniali ma anche ai dati sul credito, in flessione da anni. Le ragioni del calo dei prestiti sono molteplici e includono la debolezza della domanda. Ma non c’è dubbio che, senza l’apporto delle banche, l’Eurozona (e alla fine la Germania stessa) resterà bloccata. Proprio come accaduto in Giappone.
Stress test e asset quality review sono stati un primo passo per alcuni aspetti non incoraggiante. Milano Finanza in più occasioni ha ricordato i difetti di impostazione dell’esame, che sono tutti legati a una visione dell’Unione bancaria sbilanciata sul modello nordeuropeo. Non c’è stato alcun vincolo sulla leva, che misura il capitale in proporzione agli asset totali: si sono invece utilizzati gli indici di Basilea 3, che misurano il capitale in proporzione agli asset ponderati. Utilizzando la leva, le banche peggiori sarebbero risultate tedesche e francesi. Invece in Europa, anche a causa della suddetta campagna mediatica, si è parlato principalmente delle banche italiane, la cui colpa è aver fatto troppo credito. È giusto che gli istituti abbiano coperture adeguate. L’Aqr ha però sviscerato i portafogli di prestiti, anche con proiezioni statistiche e sul credito in bonis, mentre ha dimenticato i rischi di asset illiquidi che sono stati all’origine della crisi. Le svalutazioni sul credito sono state dieci volte superiori a quelle su titoli tossici e derivati (43 miliardi contro 4,6). Rispetto a questi ultimi titoli, è stata di gran lunga superiore l’attenzione verso i titoli sovrani (con svalutazioni per 4 miliardi per i gruppi italiani), come se non fosse esistito già allora lo scudo Omt della stessa Bce (e poi sarebbe arrivato anche il Qe). Bankitalia si è opposta all’eliminazione del filtro prudenziale previsto dalle norme in vigore (unica regola nazionale non applicata nell’esame), ma si è ritrovata contro una maggioranza di Paesi diffidenti nei confronti dei bond sovrani (ora la Bundesbank vuole introdurre anche requisiti patrimoniali sui titoli di Stato). Si può aggiungere, infine, che le condizioni dello stress test prevedevano una caduta del pil del 12% in Italia, contro il circa 2% di Germania e Francia. Nessun riferimento invece agli aiuti di Stato, in primis quelli di Berlino, che hanno condizionato in modo determinante i risultati finali.
La storia dell’Unione bancaria è appena agli inizi. L’esito di Aqr e stress test è stato visibile nei bilanci 2014 delle banche italiane, che hanno fatto pulizia con l’obiettivo di voltare pagina una volta per tutte. Ma anche l’Unione bancaria ha bisogno di una fase due, in modo che non sia penalizzato il credito. Per il momento mancano anche chiarezza e stabilità dei requisiti: i banchieri (come Carlo Messina di Intesa e Victor Massiah di Ubi) si sono mostrati ancora cauti sull’utilizzo del capitale in eccesso rispetto al comprehensive assessment, proprio per paura di nuove sorprese regolamentari. Regole penalizzanti sul credito e incertezza sui livelli patrimoniali richiesti sono una miscela che ostacola quella ripresa dei prestiti che servirebbe a un Paese in uscita da anni di recessione. Finora la ripresa economica dell’Europa non è stata una priorità della maggioranza dei membri del Consiglio di vigilanza.
L’impostazione tedesca, d’altra parte, si fa sentire anche al di fuori degli organi Bce: è alla base anche delle regole Ue sugli aiuti di Stato, che oggi ostacolano la creazione di un veicolo per lo smobilizzo dei crediti (la cosiddetta bad bank). La Ue impone che il sostegno pubblico sia vincolato a svalutazioni per azionisti e creditori junior delle banche. Questo potrebbe apparire come un segno del rigore tedesco: se il pubblico interviene, il privato deve prima pagare. In realtà, proprio la Germania è sfuggita all’applicazione di queste regole, introdotte soltanto dopo aiuti versati da Berlino per l’enorme cifra di 250 miliardi. Insomma, in materia di aiuti di Stato, la Germania spinge per regole che il governo tedesco si è guardato bene dall’applicare. Lo stesso è accaduto in passato per i conti degli Stati: sì al rigore, ma solo quando conviene: si dimentica spesso che proprio la Germania nel 2003 aveva chiesto e ottenuto norme più flessibili sui conti pubblici. Ora la situazione è molto simile in ambito bancario. Le decisioni sono ancora prese sulla base degli interessi nazionali, quindi innanzitutto quelli del Paese più forte. Non sono certo le condizioni ideali per una vera Unione bancaria.
La vigilanza peraltro è solo il primo passo dell’Unione bancaria, che sarà seguito a breve dalla delicata questione delle risoluzione delle crisi bancarie (altro ambito di possibili forti divisioni tra Paesi), mentre è ormai arenato l’obiettivo di una garanzia comune europea sui depositi, proprio a causa dell’opposizione tedesca. Quello che servirebbe per le banche, così come per gli altri aspetti dell’Unione monetaria, è una visione a beneficio dell’economia di tutta l’area e non soltanto basata sull’interesse di uno. La priorità oggi è la ripresa, che alla lunga è anche la condizione fondamentale per la stabilità delle banche.
Francesco Ninfole, MilanoFinanza 21/2/2015