VARIE 21/2/2015, 21 febbraio 2015
APPUNTI PER GAZZETTA - UN ANNO DI RENZI
REPUBBLICA.IT
ROMA - Twitter come termometro politico, come strumento di propaganda, come forma di dialogo coi cittadini. A volte come sfogo. Il 27 febbraio 2014 Matteo Renzi si è insediato da cinque giorni a palazzo Chigi e all’alba scatta una foto dalla finestra del suo studio, rilanciata con un tweet: "A #PalazzoChigi lavorando sui dossier più urgenti del Governo. #buongiorno #lavoltabuona". Un modo per dire: vi porterò nel palazzo. Nel suo anno da premier, l’ex sindaco di Firenze ha usato il social network dei 140 caratteri per 443 volte. Uno studio della società DtoK Lab, start up dell’Università della Calabria, ne ha analizzato tendenze e popolarità. E dai dati appare che il consenso sul web sembra crescere davanti alle prove di forza politica. Ha ottenuto il record di condivisioni e di approvazioni (oltre quindicimila tra retweet e preferiti) con un tweet che salutava l’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella, quando si è consumato lo strappo rispetto al patto del Nazareno con Berlusconi. Un altro picco si è registrato all’apice del consenso elettorale: il 26 maggio 2014 quasi venticinquemila follower hanno interagito con lui, all’indomani del voto per le Europee che ha portato il Pd oltre al 40 per cento. Renzi ringrazia gli elettori usando gli hashtag #senzapaura e #unoxuno e poi in serata raccoglie altri favori con un secondo tweet che annuncia la partenza di un volo di Stato per recuperare i bimbi adottati bloccati in Congo, rilanciato da oltre cinquemila utenti: è il terzo più popolare dell’anno.
TABELLA: L’INDICE DI GRADIMENTO DEI TWEET
Nella top 20 dei cinguettii del premier la storia delle adozioni internazionali entra anche una seconda volta, con l’annuncio della riforma del terzo settore. Ma a smuovere il popolo dei social network sono soprattutto i messaggi con i quali il presidente del Consiglio stuzzica l’indignazione sui temi di denaro e lavoro. Lo ritwittano quando attacca i comici che ironizzano sugli 80 euro ("se provassero a vivere con 1200 euro al mese...", apostrofa Renzi). Lo aggiungono ai preferiti quando annuncia: "Se domani passa la nostra proposta sulle province, tremila politici smetteranno di prendere un’indennità dagli italiani". Raccoglie consensi anche quando scrive che gli straordinari delle forze dell’ordine impegnate negli stadi devono essere pagati dalle società di calcio o quando annuncia, dopo lo scandalo dei vigili romani assenti per malattia, che nel 2015 cambieranno le regole del pubblico impiego.
Renzi, 365 giorni da premier su Twitter: la top 20 dei cinguettii
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Accompagna promesse e annunci con gli slogan: quelli che hanno scandito i suoi primi 365 giorni a Palazzo Chigi sono stati soprattutto "#lavoltabuona", "#Italiariparte", "#cambiaverso". Ma negli hashtag ci sono anche le frecciate agli avversari: delle opposizioni scrive "#madovevivono", a chi avanza dubbi sulla sua tenuta politica appioppa l’etichetta di "#amicigufi". Cambia tono quando si tratta di rivolgersi ai rivali convalescenti: usa Twitter per fare gli auguri a Roberto Casaleggio e soprattutto a Pier Luigi Bersani. E ritaglia spazi nazional-popolari rispondendo a Fiorello che lo chiama in causa per la Sla e poi caricando il video della sua doccia gelata (quando nomina a sua volta Roberto Baggio e i direttori dei giornali) oppure omaggiando Sorrentino premio Oscar e Nibali maglia gialla al Tour. Tace, invece, sulla sua Fiorentina.
Un anno di Governo negli hashtag di Renzi: la mappa
Ogni tanto si rivolge ai cittadini che lo chiamano in causa e a volte ribatte piccato. Il 23 aprile è il giorno del #Matteorisponde, una sorta di conferenza stampa fatta direttamente con la gente sui social network: più di 40 i cinguettii per replicare ai quesiti che gli arrivano mentre alla Camera il decreto legge sul lavoro viene blindato con il voto di fiducia. L’esperimento non è replicato ma il 29 agosto prima di mettersi al lavoro annuncia la sua agenda politica e poi senza preavviso si dedica a replicare a una raffica di tweet finché, alle 7 e 22, si stacca scrivendo: "Scendo in ufficio. Stamani ho già twittato troppo:-). A tutti #buongiorno".
PEZZI DELLA STAMPA DEL 20/2
La Stampa, venerdì 20 febbraio
MICHELE BRAMBILLA
Un anno fa Mat- teo Renzi entra- va a Palazzo Chigi. Vi entra- va fra qualche perplessità per il modo in cui aveva dato lo
sfratto all’inquilino precedente; ma, soprattutto, vi entrava fra grandi aspettative. Forse mai nessuno, pri- ma di lui, era arrivato alla guida del governo accompagnato da una simi- le speranza di rinnovamento. Renzi era il «rottamatore», quello che avrebbe «cambiato verso» al Paese.
Oggi, a dodici mesi di distanza, è molto diffusa, soprattutto fra i com- mentatori, l’opinione che il governo Renzi abbia fatto poco o nulla. Può darsi che sia così, che le nuove leg- gi siano insufficienti e le riforme im- pantanate.
Però, se sfogliamo i giornali di un anno fa, ci sembra di vedere un altro mondo. L’immagine di Bersani e Berlusconi che vanno da Napolitano a chiedergli di restare per un altro mandato sembra Storia illustrata. È l’immagine di un Paese talmente lo- gorato e paralizzato da una guerra di schieramenti da essere incapace perfino di eleggere un nuovo Presi- dente della Repubblica. Oggi sem- mai si parla di un eccesso di deci- sionismo: ma Renzi ha cominciato due mesi fa a dire che il successore di Napolitano sarebbe stato eletto alla quarta votazione, e così è stato.
Addirittura sembra un capitolo chiuso pure Beppe Grillo. Forse chi dice che non è cambiato nulla non ricorda bene: ma solo fino a una de- cina di mesi fa si discuteva se il Mo- vimento Cinque Stelle avrebbe o no sorpassato il Pd alle Europee; in ogni caso, tutti erano certi di un te- sta a testa. È andata come sappiamo, e oggi Grillo sembra uno stanco, o meglio «stanchino», ex della politi- ca. Il suo movimento si è frantuma- to e perfino il sito internet (al quale era stato conferito un potere sacra- le di arbitro della democrazia) è passato dalla top ten mondiale alla posizione numero 7.447; 154° in Ita- lia. Renzi è l’unico leader europeo che ha sconfitto i populismi anti-eu- ropeisti, che ovunque avanzano e spesso vincono: in Grecia, in Francia e in Olanda. Da noi, Grillo pare es- sersi arreso. Sembrava il futuro, è come se avesse compiuto 66 anni al- l’improvviso.
La novità portata da Renzi è cer- tamente, e ovviamente, anche una novità anagrafica. Con lui è entrata nelle stanze del potere una nuova classe dirigente. Sulla quale, natu- ralmente, il giudizio è sospeso. Ma se questa classe dirigente non si ri- velerà all’altezza, molto difficilmen- te vedremo ritornare quella prece- dente. Insomma il tanto atteso rin- giovanimento c’è stato. Non è detto che sia un bene, perché non basta essere giovani per governare bene: però era una delle istanze che veni- vano da tante parti del Paese.
ni. La sinistra è cambiata anche per- ché ha abbandonato totem che pare- vano dogmi religiosi, come quello dell’articolo 18 o della concertazione. Renzi ha detto e fatto cose che, fos- sero state dette o fatte da Berlusconi, avrebbero scatenato in piazza, come minimo, i girotondi. Dei quali, inve- ce, non abbiamo più notizie.
Ma Renzi ha cambiato anche il partito rivale. Berlusconi non è più, per il Pd, il demonio da combattere. L’ex sindaco di Firenze gli ha con- cesso un posto nobile al tavolo delle trattative, suscitando qualche malu- more a sinistra. Ma, di fatto, così fa- cendo Renzi sembra stia lentamente spolpando quel che resta di Forza Italia, favorendo indirettamente l’a- scesa a destra di Matteo Salvini, una sorta di garanzia elettorale per il centrosinistra. L’anno di Renzi ha co- sì chiuso al tempo stesso il ventennio berlusconiano e il ventennio anti- berlusconiano, cambiando destra e sinistra e forse cambiando perfino il bipolarismo, arrivando a una sorta di monopolarismo.
E ancora. Ha chiuso l’illusione, a volte pericolosamente coltivata a si- nistra, di una presa del potere per via giudiziaria; ha cambiato il lin- guaggio della politica, e perfino l’e- stetica. Certo: i risultati più impor- tanti che ha ottenuto, li ha ottenuti con la furbizia del vecchio democri- stiano: dalla presa di Palazzo Chigi all’elezione di Mattarella. Ma è l’e- nergia che è nuova. L’energia esplo- siva di uomo che non si è arreso nep- pure quando, dopo la sconfitta con Bersani alle primarie, la sua ambi- zione sembrava morta in culla.
FABIO MARTINI
Il 24 febbraio del duemilaquattordici il dottor Matteo Renzi si presentò nell’aula foderata di mogano e velluto rosso del Senato pronunciando il suo primo discorso parlamentare.
Mani in tasca e un lessico scevro dal politichese, ma talmente pieno di promesse che l’indomani i quotidiani affettarono scetticismo. L’editoriale del Corriere della Sera era titolato «Le parole non contano». Quello de La Repubblica, «I vuoti da riempire». Per La Stampa, un discorso «Nè di lotta, né di governo». Per il Sole 24 Ore «Troppa genericità». Morale: un libro dei sogni. Riletto trecentosessantuno giorni dopo, il discorso col quale Matteo Renzi si è presentato in Parlamento dimostra che lì dentro c’era già scritto quello che poi sarebbe stato attuato, o tentato di attuare, quasi nulla di più o di meno: gli ottanta euro e il Jobs Act, giustizia civile ed edilizia scolastica, debiti della Pa e superamento delle Province elettive. Ma anche impegni che in quelle ore sembravano chimere: come l’abolizione del Senato: «Vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a quest’aula» disse Renzi e quasi nessuno gli credette. E dunque, 365 giorni dopo è legittima la domanda: quanto è cambiata l’Italia in un anno? In cosa?
Rivoluzione nel Palazzo
Il 22 febbraio (fra due giorni ricorre il primo “compleanno”), Renzi aveva giurato assieme ai suoi ministri: lui era il più giovane Presidente del Consiglio della storia, in squadra c’erano 8 donne ministro (numero record) e l’età media dei ministri (47 anni) ne faceva l’esecutivo più giovane della Repubblica. E anche il più inesperto: ben 11 non avevano mai fatto i ministri. Da quel giorno Renzi non ha più usato, neppure una volta, la parola «rottamazione» ma l’ha attuata con crescente determinazione. E quando è scoccata l’ora delle nomine europee, nell’estate del 2014, ha lasciato cadere la candidatura di Massimo D’Alema, ha glissato sulle simpatie espresse per Enrico Letta da qualche capo di governo (David Cameron), ha combattuto le ingerenze di Herman Van Rompuy. Pur di far passare Alto commissario alla politica estera Federica Mogherini. E ad agosto ha lasciato cadere nel silenzio le due lettere scritte dal capo del governo libico e da uno dei principali capi tribù, che gli chiedevano di investire Romano Prodi del ruolo di mediatore tra le parti. Completando così la rottamazione di una intera generazione. Ma il Renzi “rivoluzionario” del Palazzo si è esercitato soprattutto su tre riforme nel passato quasi impossibili. E lo ha fatto, sperimentando un metodo senza precedenti: l’utilizzo di maggioranze ogni volta variabili.
Le riforme “impossibili
Il 12 marzo 2014, appena 18 giorni dopo il suo insediamento a palazzo Chigi, il governo riesce a far passare alla Camera la legge elettorale in prima lettura. Con il voto favorevole di Forza Italia, prima “prova d’amore” del patto del Nazareno. Ma dopo il corposo successo elettorale alle Europee di maggio, Renzi cambia idea: vuole il premio alla lista e non più alla coalizione (come conveniva a Berlusconi) e dunque si impegna a convincere il Cavaliere. Il premier alla fine piega Berlusconi: il 21 gennaio 2015, ben 10 mesi dopo il primo passaggio, il nuovo testo ottiene il via libera del Senato, con i voti decisivi di Forza Italia, che, con procedura senza precedenti, “surroga” 29 senatori della maggioranza. Tambureggiante, data la tradizione nostrana, anche il pressing di palazzo Chigi per l’ abolizione del bipolarismo perfetto: l’8 agosto i senatori votano la propria “soppressione” con numeri bulgari: 183 sì, 4 astenuti e nessun voto contrario. Sei mesi dopo, il 14 febbraio 2015, sì anche della Camera in uno scenario desolante: tutti i partiti di opposizione abbandonano l’aula e nel corso della notte 40 articoli che riscrivono la Costituzione, vengono approvati alla presenza dei soli deputati della maggioranza. E il superamento delle Province? Approvato, nella primavera 2014, col voto (in quel caso) contrario di Forza Italia.
Il Renzi sociale
Anche sul piano sociale, Renzi si è buttato una volta a “sinistra” e una volta a “destra”. Nel discorso col quale, un anno fa, si era presentato alle Camere, Renzi aveva già deciso l’intervento più popolare, gli 80 euro: in aula parlò di «riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale, attraverso misure serie e irreversibili» da approvare entro il primo semestre. Effettivamente il 18 aprile il governo vara il decreto-legge che premia i lavoratori che guadagnano fino a 24.000 euro lordi. È un investimento sul classico insediamento sociale ed elettorale della sinistra: i lavoratori dipendenti con un reddito medio-basso. I sindacati confederali applaudono senza entusiasmo, ma diventano ostili quando il Parlamento, il 3 dicembre, licenza il Jobs act, col quale il governo punta a togliere alle imprese gran parte dell’”ansia” prodotta da una legislazione e da una giurisprudenza che ha sempre incoraggiato i ricorsi alla magistratura.
MARCELLO SORGI
Renzi è svelto e brusco come Craxi, cinico e tessitore come Andreotti, comunicatore e venditore come Berlusconi. Il modo in cui ha stretto e poi rotto il patto del Nazareno ricorda molto quello in cui Craxi trattò De Mita al tempo della staffetta. Ottenuta una proroga di un anno grazie ad Andreotti, suo successore designato, Craxi, nel 1987, la staffetta la fece saltare, e Andreotti dovette aspettare altri due anni prima di tornare a Palazzo Chigi.
Del divo Giulio il giovane Matteo riporta alla mente l’assoluta indifferenza nella scelta delle alleanze. I partiti sono come taxi si prendono per arrivare a destinazione, verrebbe da dire, citando la massima del fondatore dell’Eni Enrico Mattei. Forza Italia ieri serviva e oggi no; ma lo stesso potrebbe accadere al Ncd, se dovesse alzare troppo il prezzo e se il gran lavorio in corso al Senato, tra “stabilizzatori”, “responsabili” e “irrobustitori”, riuscisse alla fine a creare una terza gamba per il governo.
Del vecchio Silvio, che dopo la fine del Nazareno si sente tradito dal “ragazzo” amato come un figlio, Renzi ha copiato il linguaggio della comunicazione: le conferenze stampa spettacolari con le slides, le invenzioni, prima tra tutte la rottamazione, i colpi a sorpresa. Gli ha anche rubato qualche argomento, come la polemica con i magistrati, fuori dall’armamentario classico di sinistra. Della quale sinistra, intesa come quel che resta del Pci, della Cgil e dell’opposizione all’antica, in grado di esercitare un potere di veto sul Parlamento, Matteo non fa mistero di volersi liberare. È l’ostacolo più alto sulla sua strada, difficile da superare, impossibile da aggirare. Nella Prima Repubblica, Renzi farebbe bene a rammentarlo, si diceva pure che le volpi, prima o poi, finiscono in pellicceria.
STEFANO LEPRI
Su lavoro e imprese le promesse sono state in gran parte mantenute; sui vincoli che burocrazia, giustizia amministrativa, giustizia civile, pongono all’attività economica, i risultati sono ancora da vedere. Un impegno importante, la delega fiscale, è ancora in sospeso benché ereditato dal precedente governo; restano dissensi su che cosa significhi un «fisco amico del cittadino» (e forse anche su quali siano i cittadini a cui ci si riferisce).
All’estero la riforma delle leggi sul lavoro è stata accolta con favore: il tentativo di rendere stabili anziché precarie la gran parte delle nuove assunzioni, se funzionerà, potrà indicare la strada anche ad altri Paesi. Organizzazioni internazionali e centri studi danno un giudizio positivo sia della nuova disciplina per i licenziamenti - su cui ancora tanto si contende - sia dell’allargamento dell’indennità di disoccupazione.
Un dei tre punti del programma immediato di Matteo Renzi era una «riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale» (differenza tra costo del lavoratore per l’impresa e paga al netto delle tasse). Tra gli 80 euro al mese e le modifiche all’Irap l’obiettivo si può ritenere raggiunto: 15-20% di riduzione circa. Sui nuovi assunti a tempo indeterminato, e solo per i primi tre anni, l’Ocse calcola che grazie alle agevolazioni del «Jobs Act» il cuneo sia più che dimezzato: -53%.
Un altro punto di programma cruciale era lo sblocco dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. Al 30 gennaio risultavano già pagati 36,5 miliardi di euro e gli enti debitori avevano risorse per pagarne altri 6; poiché manca ancora una cifra certa sull’ammontare totale dei debiti, nella peggiore delle ipotesi si può supporre che ne siano stati saldati un po’ meno della metà, nella migliore i due terzi.
MASSIMO PANARARI
La comunicazione (anche se non esattamente la fantasia) al potere. Ovvero, lo sbarco in pompa magna a Palazzo Chigi di quello che del renzismo (post-ideologico) costituisce l’architrave, al punto da avere determinato la conversione dello stesso “Matteo” in un brand. E qui c’è, forse, il nucleo davvero “rivoluzionario” del suo primo anno di governo.
Il premier-coach, figlio dello spirito dei tempi postmoderni, è un uomo politico fortemente orientato alla costruzione diretta del consenso e alla ricerca della popolarità saltando a piè pari l’intermediazione delle “macchine di partito”. Per arrivarci ha lavorato (insieme al portavoce-spin doctor Filippo Sensi) su quella che il marketing chiama “comunicazione di marca”, dove il marchio da veicolare è, chiaramente, lui stesso, al tempo stesso comunicatore naturalmente versato e talentuoso e politico piacione. Di qui, il profluvio di selfies insieme a fan e cittadini-elettori (rappresentazione esemplare della democrazia del pubblico), e di foto prontamente riversate su Instagram (come quelle dei suoi shopping di libri, sempre molto “sul pezzo”). Storytelling all’ennesima potenza, fondato sui gusti diffusi della cultura pop (in un’altra epoca si sarebbe detta di massa) e sul modello della following leadership, in cui il capo si sintonizza su propensioni e tendenze largamente esistenti in seno alla popolazione. E la narrazione si svolge specialmente sui social, ove il primo presidente del Consiglio 2.0 è attivissimo. Ma nel mirino di Renzi non c’è solo la twittersfera: il paradigma del partito pigliatutto, con il quale punta a rimodellare il sistema politico, lo sta infatti applicando anche ai media, in primis la tv, dove di recente risulta assai presente. Perché, appunto, il “premier-sindaco d’Italia” è il politico della comunicazione integrale (e totale).
Twitter@MPanarari
MARCO ZATTERIN
In molte cancellerie
ancora non lo vedono
come uno statista
Marco Zatterin
L’immagine più deflagrante del rapporto fra l’Europa e il Renzi allergico ai riti di Bruxelles è quella del premier che sfila fuori da Palazzo Justus Lipsius dopo il vertice dicembrino e canticchia «Parole, parole, parole». Nelle visite ai summit di Bruxelles, come dalle puntate a Strasburgo per il semestre di presidenza Ue, il capo del governo s’è dimostrato più volte insofferente davanti alle frequenti manifestazioni di un burocrazia che gli pare autoalimentarsi. Sarebbe però riduttivo trasformare tutto ciò in una patente di scettico, se non altro per la frequenza con cui ripete «che le riforme le facciamo per noi e non perché le chiede l’Unione». Renzi vede il Futuro dell’Italia in Europa e con l’Europa. Solo, vuole sia diverso.
C’era all’inizio qualche diffidenza, del resto tutti amavano la sobrietà istituzionale di Letta. E’ svanita quando è diventato «Mister 40.8%». Il voto europeo ha spostato gli assetti, aiutando il premier a cementare relazioni bilaterali promettenti, con la cancelliera Merkel come col presidente Hollande. E’ partito a testa bassa, poi ha imparato a giocare di sponda. La carta Mogherini per la poltrona di Lady Pesc; o la spinta decisiva a spostare l’attenzione dell’Ue dall’austerità alla crescita. Tutto scorre, con un «ma». In molte cancellerie non lo vedono ancora «statista». Serve tempo. E forse un po’ di euroinsofferenza ostentata in meno.