Chiara Mariani, Sette 20/2/2015, 20 febbraio 2015
IL FOTOGRAFO CHE HA CATTURATO LA CAMORRA
A Londra nel 1978 si diffonde una strana notizia: i contrabbandieri di Napoli sono in sciopero. Un capolavoro dell’assurdo che affascina i compassati britannici. Al Sunday Times non sembra vero di avere di fronte un fotoreporter napoletano, dall’aspetto torvo e travagliato, a cui sottoporre un lavoro dai connotati impossibili. «Loro avevano in mente Adelina, la protagonista di Ieri, oggi e domani di De Sica», racconta Francesco Cito. «Questi invece erano contrabbandieri che andavano per mare e per i giornalisti inglesi sul posto stabilire un contatto con le bande si rivelò impossibile. Toccò a me. Il primo mese trascorse senza risultati perché non volevano divulgare nessun dettaglio della loro attività. Poi uno di loro mi invitò a pranzo e mi offrì 5 milioni di lire, allora una bella somma, per rinunciare al mio intento. Io dissi che volevo la mia storia. Mi ci vollero due mesi per realizzarla, durante i quali imparai anche a caricare e scaricare la merce di notte. Francesco Cito, che il rigoroso Ferdinando Scianna ha definito a più riprese uno dei migliori fotogiornalisti, è un personaggio raro. Difficile che tanto riserbo e tanto talento dialoghino nella stessa persona. Soprattutto quando si tratta di un fotografo. Per capirne il rilievo bisogna aver pazienza, cavargli le parole di bocca, pregarlo di mostrare le sue fotografie che sottrae alla vista altrui con stravagante pudore. Sognava l’avventura, dice. Ne apprende il senso dai giornali che lo raggiungono a casa sua, a Napoli dove è nato nel 1949, che riportano le prodezze di Walter Bonatti. «Presto ho capito che la fotografia esigeva rigore e nel 1972 andai a Londra per seguire dei corsi. Mica facile. Bisognava essere laureati e per laurearsi superare prima esami di lingua inglese. La mia famiglia non se lo poteva permettere. Divenni un lavapiatti e anche aiuto cuoco e nel tempio del jazz, il night club Françoise, un cliente con cui feci amicizia mi chiese se sapevo fotografare una Spaghetti House (si sono ispirati alle mie foto per il film omonimo con Nino Manfredi). ‘Ti assumo nel mio giornale’, disse poi. Lavorai a Radio Guide per un anno e mezzo, il che significava andare su e giù per la Gran Bretagna per fotografare i cantanti pop e rock del periodo: Rolling Stones, Diana Ross, Santana, Sammy Davis… È stata la mia scuola. Ma l’ossessione dell’avventura non mi abbandonava e così mi licenziai e per questo mi rivolsi al Sunday Times Magazine, un tempio del fotogiornalismo». Man mano fissa l’asticella sempre più in alto e dopo aver trascorso qualche tempo in Libano durante il conflitto nei primi anni 80, s’insinua una nuova ambizione. Fotografare la Camorra. «Non lo aveva mai fatto nessuno. Le bande facevano più vittime della guerra in Libano. Propongo la storia al Sunday Times che esige però che a ogni proposta corrisponda una possibile visualizzazione. ‘Non si può, dissi’. Mi negarono l’assegnato ma agevolarono l’accredito presso la questura di Napoli».
L’entusiasmo dell’Observer, i premi del World Press. Io però non volevo fare le foto che facevano tutti quelli chiamati dalla polizia ogniqualvolta si trattava di documentare l’esito di una retata. Volevo essere dentro la retata. Feci amicizia con i funzionari della questura e dopo un po’ uno di loro mi invitò al compleanno di sua figlia. Ci andai e da quel momento ebbi un posto riservato sulla volante. Realizzai il lavoro più importante che mi fece conoscere in tutto il mondo». Cito, che aveva mancato l’esperienza del Vietnam, conflitto terminato nel 1975, vuole cimentarsi con la guerra e misurarsi sul campo. Sono gli anni in cui l’Unione Sovietica invade l’Afghanistan, degli scontri tra l’Olp e Israele a cui segue nel 1987 la Prima Intifada, poi è la volta della Guerra nel Golfo, della Bosnia del Kosovo… Lui non se ne perde una. L’Observer dichiara l’entusiasmo per le sue fotografie della Palestina, tanto da indicarle come le migliori sul tema. Il fotografo, rassicurato dall’autorevolezza britannica, per ben due anni invia al World Press Photo la selezione più significativa di questo reportage: «Vinsi il premio due anni consecutivi ma non con il servizio che mi stava tanto a cuore bensì con quello sui matrimoni napoletani (1995) e il Palio di Siena (1996)». Infatti, proprio l’esperienza della guerra nel frattempo lo aveva indotto a concedersi una vacanza dalla brutalità: Napoli gli offre la suggestione dei matrimoni del popolo che celebrano l’eccesso ispirandosi agli usi e costumi della Camorra e il rituale del Palio di Siena lo abbaglia: «Diventai un contradaiolo, mi appassionai e divenne uno dei soggetti su cui non ho mai smesso di lavorare, come la Palestina». Negli ultimi anni si dedica a temi sociali ancora più complicati da rappresentare come l’immigrazione clandestina, la sordità dei bambini e infine il più ostico: «Il coma non è riconosciuto come malattia e le famiglie sono lasciate a se stesse. Volevo capire e mostrare le dinamiche che scaturiscono da questo dramma». Alterna temi, guerre e suggestioni, ma uno torna sempre, la Palestina, dove se può si reca due o tre volte all’anno: «Terminerò questo reportage quando sarà uno Stato, ma ho il timore di essere salito sul cavallo sbagliato. D’altra parte, cosa dire… le foto più intense si trovano sempre tra i più deboli».