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 2015  febbraio 20 Venerdì calendario

COSÌ FUI RAPITO DAL MISTERO DELL’ARTE ASTRATTA

Per un bebé dato per morto alla nascita, questi suoi 95 anni sono un vero sberleffo alla levatrice. «Una volta si nasceva in casa. Mio padre, il giorno del parto, rimase accanto a mia madre. Quando sgusciai fuori, non aprii gli occhi e non emisi neppure uno strillo. La levatrice decretò che ero senza vita, e mi mise da parte. Sarebbe finita lì se mio padre, incredulo, non si fosse dato da fare. Prese due catini, uno di acqua calda e uno di acqua fredda, e mi tuffò alternativamente nei due, finché non cominciai a urlare. I casi della vita sono straordinari, se mio padre non fosse rimasto lì, sarei stato eliminato. Questa è la mia nascita», dice Eugenio Carmi, ligure, al quale Palazzo Ducale di Genova dedica una retrospettiva (dal 27/02 al 17/05). «Questa mostra non è come le altre, raccoglie davvero tutta la mia attività». Di pittore, grafico, illustratore, con quella punta di sano patriottismo che gli fece realizzare nel 1970, una bandiera italiana, con, al posto del colore bianco, i maccheroni tra il rosso e il verde. Per un po’ fu proprio la pubblicità ad assicurargli il pane quotidiano. «Era il 1950, mi ero appena sposato, dovevo sbarcare il lunario, ma subito mi accorsi che quell’impiego mi avrebbe immesso in un circolo vizioso e così ne uscii. E se c’è una parola che aborro è quel termine abusato di “creativo”: la creatività è una qualità della mente, non un mestiere che s’imbraccia». Dalla sua Boccadasse, dove viveva e lavorava in quegli anni, arrivò a Milano, nel 1971, nella città dove c’erano anche Munari, Ballocco, Fiume, Cantatore, Migneco, Sassu, Cappello, Kodra, Messina, Minguzzi, Crippa, Baj, Arnaldo e Giò Pomodoro. «Li conoscevo tutti, ma io non ho mai fatto parte di nessun gruppo», dice sottolineando la sua indipendenza. «Mi trasferii dove c’era il lavoro, vendetti la casa di Boccadasse, questo straordinario borgo del ‘400, abitato dai pescatori. Lì fondammo anche la Galleria del Deposito. Io ero amico di un pescatore che per sapere se poteva uscire in barca la notte usava bagnarsi il dito con la saliva per sentire sulla pelle la direzione del vento. La mattina dopo sua moglie portava alla mia il pesce. Oggi Boccadasse è modaiola». Ma la gatta della celebre canzone di Gino Paoli lui se la ricorda bene. «Il tetto sul quale passeggiava era quello del mio studio».
Da Milano non si è più mosso. Il suo atelier è in una vecchia casa di corso Lodi, che ha quel senso dell’umano che Carmi cerca in tutte le cose. «La mia mente è come quella di un trentenne, sono presissimo dal lavoro. Mi alzo alle sei e mezzo e alle 8 sono già in studio dove vado tutti i giorni, prendendo a Porta Genova il tram e poi la metro. Ho appetito, la sera mi faccio da mangiare da solo», anche se la figlia vigila su di lui. Da un inizio figurativo, sotto l’ala del maestro Casorati, passò poi all’informale e all’astrazione. «Casorati prendeva a lezione tre allievi all’anno. Era venuto a Genova a fare una conferenza, andai da lui con due miei quadretti, li guardò e disse “le telefonerò”. Due mesi dopo mi accolse in studio. Era un gran signore, non voleva alcun compenso, pagava lui la modella per il nudo. A Palazzo Ducale si vedranno anche le mie prime opere figurative. All’epoca quelle astratte non me le comprava nessuno, così oggi la galleria Martini di Genova potrà fare la prima mostra di queste mie opere degli Anni 50 e 60 mai esposte. Mentre il museo di Villa Croce allestisce una mostra di mie grafiche». Ma la scoperta dell’astrazione come avvenne? «L’arte astratta fa parte della nostra vita ed è un mistero come la mente. Io vengo dal Novecento e continuo in questo solco, come tanti in Italia. Non ho nulla da spartire con l’arte contemporanea delle installazioni, che spaccia per opere, ad esempio, un insieme di cento bombole di gas. Sono invenzioni che non danno emozione, ma funzionano invece alla grande per il mercato. Dopo che Julian Spalding, critico del Guardian, ha scritto che quella di Hirst non è arte, non gli hanno più mandato gli inviti alle inaugurazioni. Ma bisogna pur avere il coraggio di dire la verità». Però, essendo nell’ambito della soggettività, quello che non emoziona lei, può invece appassionare qualcun altro! «Ribadisco che un certo tipo di arte contemporanea è un falso».

Favole progressiste. Umberto Eco e l’artista si conoscono da cinque decenni, e lo scrittore considera Carmi un pittore di novant’anni che diventa più giovane a ogni quadro. Li lega soprattutto un esperimento editoriale di libri per bambini (Eco lavorava da Bompiani), la stesura di due favole, una antirazziale e l’altra antimilitarista (La Bomba e il generale, con gli atomi che si ribellano a un uso bellico optando per quello civile) che Carmi illustrò nel 1965/66. Nel racconto sui tre cosmonauti (uno americano, uno russo e un africano, poi commutato in cinese quasi in osservanza alla geopolitica), i tre condividono per amicizia una sigaretta. «Fu un insuccesso totale. Nel 1988 ricevetti però una sua telefonata. Mi lesse un articolo della Frankfurter Allgemeine Zeitung che si domandava dove fossero finiti quei nostri libri. “Dobbiamo subito rieditarli”, mi disse. Io avevo tenuto i disegni originali, ma non mi piacevano più, così rifeci tutte le tavole. Anche perché nelle nuove edizioni epurate scomparvero sia l’atomo buono (ci fu Chernobyl) che l’incriminata sigaretta. Diventarono un successo mondiale, e ancora oggi ricevo la versione russa, giapponese. Anche questi libretti si vedranno in mostra. Eco mi portò poi anche dalla cantante Cathy Berberian, che faceva musica sperimentale. Registrò un disco dal titolo Stripsody, parole onomatopeiche dei fumetti, che io illustrai». Il ricordo speciale di Carmi va però a un periodo glorioso quando, per sette anni, fu art director della Cornigliaro-Italsider a Genova, dal 1956. «Direttore generale era Gian Lupo Osti, una persona olivettiana. Credeva che un’industria avesse il compito di produrre cultura e non solo merce (in questo caso acciai). Pubblicavamo una rivista con riprodotte sulla copertina opere dei più importanti artisti internazionali (Max Bill, Mathieu, Scanavino, Vasarely, Pomodoro...). Quando, nel 1962, Carandente organizzò a Spoleto la famosa mostra Sculture nella città, mi chiese aiuto. Così invitammo gli artisti italiani e stranieri a realizzare le loro opere nei nostri stabilimenti sparsi in Italia, che si avvalsero delle capacità tecniche dei nostri operai, entusiasti dell’idea. Mentre i burocrati romani dell’azienda (che pure ci diedero i fondi) non capirono mai la motivazione del progetto. Pensavano non fosse opportuno pubblicizzarlo troppo, perché gli operai dovevano lavorare alla catena di montaggio. Di questo evento a Spoleto ne parlò tutto il mondo. Ecco, oggi, quando un’azienda promuove l’arte ha sempre qualche interesse secondario, non c’è più quel tipo di cultura pura. Più che altro oggi si fa solo del gran marketing».