Enrico Mannucci, Sette 20/2/2015, 20 febbraio 2015
LO SCRITTORE-GUERRIERO DALLE FORZE SPECIALI
A RE DEI LIBRI DI SPIONAGGIO [Intervista a Andy McNab] –
È il momento dei tiratori scelti, degli uomini che hanno fatto parte delle “Forze Speciali”, degli incursori capaci di penetrare in territorio nemico, colpire e sopravvivere senza farsi beccare. È il loro momento, ma non nel senso scontato di eroi, figure esemplari di riferimento per qualche guerra da affrontare, no, piuttosto si ritagliano un ruolo sorprendente come maître à penser, incarnazione dello spirito profondo di un popolo, tutt’altro che “superman” insensibili e inossidabili, anzi curiosi e talvolta imprevedibili. Al cinema è il caso di American Sniper. In libreria, invece, l’esempio arriva da un autore ben rodato in questo campo, il britannico noto come Andy McNab, una vita precedente con l’uniforme del celebre Sas (lo Special Air Service, capostipite di tutte le Forze Speciali), oggi scrittore di bestseller con nome ritenuto fittizio, un po’ per scelta coreografica, un po’ per legittima protezione da un passato dove la violenza non dev’esser mancata.
In uno degli ultimi libri nella saga di Nick Stone – personaggio preferito da McNab, ovviamente immaginato, anche lui, come ex membro del Sas che continua a finire, comunque, in situazioni estreme e drammaticissime – la vicenda si snoda fra gruppi e gruppuscoli dell’ultradestra europea. Invece, in Punto di contatto (il volume ora in uscita per Longanesi, quattordicesimo titolo della serie con Stone protagonista, titolo originale Dead Centre), il nemico, i “cattivi”, sono i fondamentalisti somali di al-Shabab. Due mondi opposti, quale è più pericoloso?
«Entrambi. Si alimentano l’un l’altro. Per fortuna, ancora, in Gran Bretagna non abbiamo esperienza di formazioni di destra estrema come altrove in Europa. Ma sono tendenze pericolose. Soprattutto quando si ritengono dei baluardi contro il fondamentalismo islamico, e si attivano in questa direzione. Ma così si mette a rischio un principio decisivo: il monopolio della forza appartiene allo Stato. L’uso di metodi anche violenti di repressione non può essere questione di singoli o di gruppi. È in gioco l’essenza stessa della democrazia».
In Punto di contatto, una squadra di contractor porta a termine un’azione sotto la copertura di una Ong che apparentemente va in aiuto delle popolazioni di Aceh, la città di Sumatra devastata dallo tsunami nel 2004, non pensa di rendere un cattivo servizio a quelle organizzazioni?
«Non credo proprio. Io voglio raccontare storie realistiche, che i lettori trovino degli scenari attendibili. E non capita di rado che quelle missioni di soccorso nascondano operazioni di tutt’altro genere. Lo sanno tutti, ma proprio tutti».
Tornando agli “outing” di molti ex-membri di reparti d’élite, McNab è cautamente critico...
«Sì, lo so. Soprattutto in Usa, ci sono stati diversi casi, ma la maggioranza di chi ha fatto parte di queste operazioni non rivela la propria identità e non racconta quel che ha visto o fatto. E poi bisogna tener conto delle differenze culturali fra Stati Uniti e Gran Bretagna. Negli Usa, i militari hanno molte più relazioni coi civili che da noi: è più facile che qualcuno si esponga una volta abbandonata la divisa. In Gran Bretagna è diverso: i militari di questo tipo si sentono davvero una tribù, anche quando non sono più operativi. Attenzione, poi, ormai il mondo è pieno di tipi che dicono di esser stati in qualche reparto delle Forze Speciali, ci sono un sacco di impostori. Banalmente, è anche un sistema per cercare lavoro».
Ma c’è differenza nella preparazione di questi corpi fra le varie nazioni?
«Storicamente, la dottrina delle Forze Speciali è britannica. Poi, certo, negli Usa, questi corpi hanno avuto grande sviluppo. Ma il sistema di selezione dei membri rimane molto simile».
A proposito di addestramento, si è fatto grande scandalo sugli episodi nel carcere iracheno di Abu Ghraib, ma molte di quelle torture, a partire dal cosiddetto “waterboarding”, sono di comune applicazione nei corsi per chi aspira a entrare in unità del genere?
«Certo, come pure la micidiale costrizione a restare in piedi per ore addossati a un muro. Piloti e uomini delle F.S. devono passarci attraverso: sono i militari più esposti a essere catturati dal nemico. Non serve tanto ad abituare a resistere alla tortura, quello è un fatto che dipende dal carattere del singolo e dalla situazione, non serve addestrarsi in astratto. Però, serve conoscere in anticipo quali possono essere le tecniche d’interrogatorio in situazioni estreme».
E non pensa che, spesso, situazioni “estreme”, come dice, si verifichino per la povertà di informazioni preliminari su quel che può aspettare un uomo delle F.S.?
«Se talvolta le informazioni sul teatro operativo sono poche, c’è una buona ragione: lo scopo prioritario di queste unità, spesso singoli uomini, o coppie, è trovare quelle informazioni che mancano ai comandi. È il loro primo obiettivo: in modo da avere un quadro attendibile qualora intervengano sul terreno forze più consistenti».
La sua arma preferita?
«Una pistola svizzera semiautomatica, la Sig Sauer P228. È incredibilmente affidabile e molto compatta: è perfetta da portare sotto un abito civile se non si vuole dare nell’occhio».
Ma nell’ultimo libro il suo eroe, Nick Stone, usa una Glock.
«Certo, è molto popolare e anche poco cara».
Un piccolo strappo alle sue regole, visto che spesso i tratti del suo personaggio alludono all’autore, non è così?
«È vero. Del resto scrivo in prima persona perché mi pare che l’effetto sia più autentico. E allora è anche naturale che trasferisca nel racconto alcune mie esperienze».
E non si tratta solo di competenze militari o di scene di combattimento (peraltro sempre modulate con notevole realismo e perfetta attenzione ai particolari), ma anche di percorsi individuali che vanno al di là della trama da thriller. È così, ad esempio, che Stone scopre per amore la profonda bellezza della letteratura russa; nella vita reale, invece, il “cosiddetto” Andy McNab racconta di aver scoperto il fascino della musica classica e dell’opera sinfonica (è ancora molto seccato perché, tempo fa, non trovò un biglietto per la Scala) una volta lasciata la tenuta di combattimento.
L’ultima domanda è d’obbligo: di che colore è la rimessa delle imbarcazioni a Hereford? (Per gli ignari, il quesito va spiegato. Intanto, Hereford è la base del Sas. La battuta è di Robert De Niro in Ronin — film di John Frankenheimer sull’organizzazione di una rapina sensazionale — per scoprire se un aspirante compare è stato davvero nel Sas come si è vantato. Lo sciagurato risponde: “Rossa”. E De Niro capisce che bara, perché un’istallazione del genere nella base non c’è. Ora, McNab resta interdetto).
«Cosa significa? Di che sta parlando?». Lui, Ronin non l’ha visto. Comunque, sullo schermo, fin qui se la sarebbe cavata, non per nulla è stato nelle Forze Speciali.