Roberto De Ponti, Sette 20/2/2015, 20 febbraio 2015
IL SOGNO AMERICANO, IL RAZZISMO, LA POLITICA. IL “BAD BOY” DEL BASKET REDUCE DA UNA SQUALIFICA CONFESSA: «SBAGLIARE MI HA RESO MIGLIORE»
Il destino in un paio di scarpe, quelle da basket che papà Rudy, giocatore professionista, gli aveva regalato per convincerlo che tirare un pallone dentro un canestro fosse la cosa più bella del mondo. Il ribelle Daniel, allora tredicenne, tifoso della Juventus e raccattapalle la domenica in C2 alle partite della Vis Pesaro, pensò che gli sarebbero state più utili per un provino alla Junior, squadra di calcio della periferia pesarese: le indossò e scese in campo insieme con altri ragazzini di belle speranze, sognando di diventare forte come Vialli e Ravanelli. Pioveva a dirotto, e mentre compagni e avversari grazie ai tacchetti inseguivano la palla dandosele di santa ragione, lui cercava soltanto di rimanere in piedi tra una pozzanghera e l’altra, in precario equilibrio su quelle scarpe che con il calcio non c’entravano nulla. Il provino naturalmente andò male, e quando la sera Daniel si presentò a casa sconfitto e infangato, papà lo prese in giro: «Hai visto? Non sei tagliato per il calcio. Forse è meglio se ti dai al basket». E aggiunse sogghignando: «Almeno lì si gioca al coperto».
Pragmatico e previdente, papà. Oggi Daniel Lorenzo Hackett, playmaker dell’EA7 Armani Milano, classe 1987, nato sotto il segno del sagittario, è uno degli uomini simbolo della pallacanestro italiana, guerriero rimasto a difendere il territorio mentre l’avanguardia è partita — tra alti e bassi — alla conquista dell’America. Che poi il suddetto uomo simbolo, sempre in bilico tra demonio e santità, sia appena rientrato in campionato dopo una squalifica di sei mesi, ridotta poi a tre, per aver abbandonato il ritiro della Nazionale, è un altro discorso: «Ho sbagliato, me ne sono reso conto. Qualche volta nella vita si sbaglia. Ho chiesto scusa, ai compagni, ai tifosi, all’allenatore. A tutti. È stata una lezione, per me, ma di una cosa non mi pento: anche nel mio sbagliare sento di essere stato me stesso. E questa lontananza forzata dal campo ha fatto di me un uomo migliore».
Daniel Hackett non è mai banale, mai scontato. Agisce d’impulso, a volte magari esagerando ma in buona fede. È così da sempre. Da quando teneva in mano un pallone quasi più grande di lui e da bambino, durante l’intervallo delle partite di suo padre ex giocatore Nba venuto a guadagnare lire in Italia, cercava di lanciarlo verso un canestro per lui ancora altissimo.
Un predestinato. «Essere figlio di un campione di basket non mi è mai pesato. Più che altro, vivevo immerso nella pallacanestro da mattina a sera: Babbo Natale mi regalava canestrini di plastica, palloni a spicchi e canottiere di squadre americane. Mamma mi portava in tribuna a vedere le partite. E papà mi correggeva fin da piccolo, insegnandomi tutti i segreti del mestiere». Ancora oggi, ogni estate, Daniel raggiunge papà Rudy a casa a Downey, un sobborgo di Los Angeles, dove i due si sfidano in un uno contro uno all’ultimo sangue in cortile e faticano con pesi e palle mediche nel garage, che i due Hackett hanno significativamente ribattezzato “the cage”, la gabbia.
Fisico scolpito, corpo tatuato, idolo delle tifose del Forum di Assago, «ma ho una ragazza, andiamo per il quinto anno insieme, sono felice della nostra relazione». La ragazza si chiama Elisa, lavora in banca a Pesaro. È lei che nel pomeriggio prima della partita decisiva di Eurolega con il Bayern Monaco (sì, proprio “quel” Bayern) si è presa cura dei capelli di Daniel riannodando in un paio d’ore i dreadlock che il ragazzo si era rasato a zero sei mesi prima, dopo una sconfitta con critiche in Coppa Italia.
Il segreto in testa. Effetto giorno: con la sua nuova/vecchia acconciatura, Hackett si è presentato in campo, ha giocato alla grande e a una manciata di decimi dalla sirena finale ha messo a segno il canestro che ha regalato a Milano il passaggio del turno. I dread, racconta sempre, sono la sua anima ribelle. Con un estimatore insospettabile. «Quando me li sono tagliati, il signor Armani mi ha chiesto perché mai l’avessi fatto. Lui il mio look lo promuove». Potenza di far parte della squadra più stilosa d’Europa. Ma com’è il rapporto con Giorgio Armani? «Fantastico. Il signor Armani è un grandissimo appassionato, un conoscitore di questo sport anche se fa finta di capirne poco, di grande generosità, di grande stile. Avercene, come lui».
Effetto notte: quell’ultimo maledetto pallone ricapita nelle mani di Daniel qualche settimana dopo, avversari i turchi dell’Efes Istanbul, partita altrettanto importante di Eurolega, Milano sotto di un punto. Il tiro di Hackett muore sul ferro e rotola fuori. «Fin da piccolo, in ogni mia squadra ero quello che cercava di vincere le partite». Non sempre ci si riesce. «Ma se avrò ancora l’occasione, e so che l’avrò, non mi tirerò indietro. Si vince, si perde, è la vita, ma non provarci è l’errore più grande». Daniel non avrebbe mai avuto paura di tirare un calcio di rigore, come l’abusatissimo Nino di De Gregori, neppure quando i talent scout a bordo campo a Pesaro guardavano quel ragazzino mulatto allenarsi nelle giovanili della Scavolini con il compagno di squadra Andrea Cinciarini e sentenziavano: quei due non andranno da nessuna parte, troppo cicciottelli. Lungimiranti: oggi Hackett e Cinciarini sono i due playmaker della Nazionale italiana.
Una vita da tatuato. Anzi, Daniel è diventato pure uno dei giocatori simbolo della pallacanestro, ma per cortesia non fateglielo notare. «Io mi sento Daniel Hackett nato a Forlimpopoli, cresciuto a Pesaro e a Los Angeles, privilegiato perché mi pagano per giocare, capite? Non per lavorare, ma per giocare. E non mi piace l’idea di essere un simbolo». Lo è, suo malgrado. Un personaggio. Forse aiuta anche quel fisico istoriato di tatuaggi che «raccontano momenti della mia vita, tutti con un significato ben preciso». L’ultimo, la scritta “Son of God”, è comparso sul collo da qualche mese, testimonianza del periodo più nero della sua carriera, quello della squalifica. Carico di significati: «Sentirmi figlio di Dio mi ha aiutato moltissimo. Ho sempre cercato di mantenere un buon rapporto con il Signore, cercando di comportarmi bene, sapendo che siamo tutti peccatori. Ma il Signore ha braccia abbastanza larghe per accoglierci tutti». E il primo, di tatuaggio? «L’ho fatto a 14 anni. Stava qui, sulla spalla destra, ora l’ho coperto. Era una frase in cinese che significava “amore, forza e destino”. Il mio primo segnale di ribellione». Papà e mamma erano d’accordo? «Papà e mamma non ne sapevano nulla, se lo sono ritrovato. Hanno protestato ma ormai era troppo tardi…».
Danny Boy ribelle lo è sempre stato, dice lui. E sei anni di esperienza giovanile americana hanno contribuito a renderlo un bel caratterino. Non è un caso che malgrado canestri decisivi e assist illuminanti con le maglie dei Braves della high school di St. John Bosco prima e dei Trojans della University of Southern California poi, i tifosi americani di lui ricordino soprattutto la mandibola fratturata in più punti da uno scontro frontale in allenamento con un pugno — pare — del compagno di squadra O.J. Mayo, futura stella Nba. Testa calda, dicono di lui i detrattori. Bad boy capace di gesti come quello che gli è costato la squalifica, la fuga nella notte dal ritiro della Nazionale per una questione di principio. «So bene che cosa dicono di me quelli che non mi amano. Io invece penso di avere un buon cuore, di essere un bravo ragazzo. Ho i miei periodi cupi, faccio cazzate, non sono un santo, ma mi piacerebbe essere visto come un semplice ragazzo che pratica uno sport che ama».
Più o meno quello che dicono di lui le persone che gli stanno vicino. Quelli che l’hanno visto crescere e giocare sui campetti del Moneta e del Cristo Re a Pesaro, dove si faceva le ossa con gente più fisicata di lui. Narra la leggenda che da quelle parti giocasse tale signor Polveroni, messia dei canestri nelle serate estive pesaresi, su cui Daniel non è mai riuscito a difendere. E che dal signor Polveroni, Hackett abbia imparato quel semigancio in penetrazione che è diventato un marchio di fabbrica DH.
Una sana invidia. «Un semplice ragazzo» con semplici passioni. «Faccio quello che mi piace, giocare a pallacanestro. E se non avessi avuto talento avrei comunque giocato a basket, magari nella squadra della parrocchia. Io vivo la pallacanestro dalla mattina alla sera, da quando all’asilo i miei compagni uscivano in giardino a giocare e io rimanevo in classe a tirare una palla di spugna nel canestrino della Chicco». E oltre il basket? «Mi piace MasterChef. Mi piace provare a copiare i piatti e cucinarli per gli amici. E mi piace pescare. Pesca di fiume e di lago, perché soffro di mal di mare. Uso come esche granturco, vermicelli…». I pesci del laghetto dei Tre Ponti, nel pesarese, non lo amano particolarmente. «Ma non è che io sia un gran pescatore, è semplicemente il mio modo per isolarmi, per stare in mezzo alla natura. Per stare da solo con i miei pensieri».
In cima ai suoi pensieri c’è l’America. Il sogno Nba. Il primo contratto firmato in Italia prevedeva la possibilità d’uscita in caso di chiamata dei professionisti Usa. La chiamata non è ancora arrivata, mentre altri italiani raccolgono gloria, onori e dollari nel campionato più bello del pianeta. «Provo una sana invidia nei loro confronti, ma ognuno fa il percorso che il destino gli ha riservato. Certo che vorrei stare là con loro, a competere con i migliori giocatori al mondo. Li invidio ma non sono geloso, ho un rapporto molto buono con tutti loro, con Gallinari in particolare. Io cerco di allenarmi al meglio, di continuare a crescere tecnicamente, ma anche se la chiamata non dovesse mai arrivare sarò comunque fiero del percorso che ho fatto, di aver giocato con e contro tanti campioni».
È stato italiano in America, è “americano” in Italia. Posizione ideale per vedere pregi e difetti del suo Paese: «Ho vissuto negli Stati Uniti nel periodo in cui veniva eletto Obama, l’ho considerata una scelta simbolica. E felice. Da italiano, ho sempre avuto la sensazione di essere sì rispettato ma accompagnato da tanti stereotipi, la pasta, la mafia, il calcio. Poi però quando i miei amici americani venivano a trovarmi in Italia scoprivano quanto bello, e diverso da come lo immaginavano, può essere il nostro Paese. Ora c’è Matteo Renzi e mi piace, c’è quel nuovo presidente con i capelli grigi, come si chiama… sì, Mattarella, Sergio Mattarella, mi sembra una persona seria».
Padre di colore, madre bianca: Daniel Hackett, mai avuto problemi di razzismo? «Potrei dire che quando sei un ragazzino qualche battuta ti può far male ma no, in realtà non ne ho mai avuti. Vivo in un mondo, quello del basket, dove il razzismo non ha motivo di esistere: i giocatori più forti sono neri, la stessa Nba ha aperto le porte ad atleti di ogni parte del mondo. Siamo fortunati. Sono fortunato». Lo dice quasi con pudore, abbassando lo sguardo, fissandosi le ipertecnologiche e colorate scarpe da basket da cui non si separa praticamente mai. Le scarpe del destino.