Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 19/2/2015, 19 febbraio 2015
FINI: MEZZO SECOLO DI GIORNALISMO
[Intervista] –
Bastian contrario sempre documentato, Massimo Fini, nato nel Comasco nel 1943 ma milanese fino nel midollo, è uno dei polemisti più noti del giornalismo italiano. La sua autobiografia, appena uscita per Marsilio ed intitolata Una vita, è anche una grande storia di giornalisti e di giornali nell’ultimo quarantennio. Di questo siamo venuti a parlare, in una piovigginosa giornata milanese, nella sua casa che scoppia di libri e di carte e dalla quale si vedono i nuovi grattacieli ambrosiani. Fini mastica Gauloises rosse, letteralmente, staccandogli il filtro e poi consumandole poco a poco, e racconta, per tre ore. Senza scadere mai nel reducismo o, peggio, nell’autocompiacimento.
Domanda. Il suo rapporto col giornalismo comincia in casa. Suo padre, Benso Fini, fu un ottimo professionista: nel dopoguerra diresse a lungo il Corriere Lombardo.
Risposta. Se vuol dire che sono stato un raccomandato si sbaglia. Fui assunto dall’Avanti dieci anni dopo la sua morte. E in quell’ambiente era meglio, anzi, che di questa parentela non si sapesse.
D. E allora nel giornalismo come ci finisce?
R. Per caso. Dopo la laurea in legge facevo l’impiegato in Pirelli, ambiente orribile, ma in realtà utile anche al giornalista che sono stato dopo.
D. E perché?
R. Perché capivi cosa la gente volesse o detestasse.
D. Per esempio?
R. Mi ricordo un articolo di Giorgio Bocca che si lamentava perché ci fossero voluti otto giorni per il suo passaporto. In ufficio, la gente leggeva quelle parole incazzandosi terribilmente: a una persona normale occorrevano, già allora, almeno due mesi.
D. E all’Avanti come andò?
R. Ero stato a Roma, a fare il concorso in magistratura, dove era stato chiaro che almeno un centinaio di concorrenti conoscesse le prove.
D. Ah, e che cosa fece?
R. Volevo raccontarlo ai giornali e andai, per la prima volta, dagli amici di mio padre. I quali, ovviamente, non mi cagarono: chi avrebbe scritto, allora, di un concorso truccato? Incazzatissimo, provai all’Avanti, la cui redazione era al Palazzo della Stampa, in Piazza Cavour. Il capo, Ugo Intini, mi stette a sentire. «La notizia ci interessa, scrivila tu», mi disse. La scrissi, piacque.
D. La assunsero?
R. Scherza? Intini mi disse che la lista d’attesa era lunghissima ma che se avessi voluto andar lì, gratuitamente, potevo farlo.
D. Lei lo fece, scommetto.
R. Certo. Avevo capito che quel mestiere mi affascinava e che anche fare i taccuini, ossia le cose meno gratificanti, mi piaceva. Ho imparato tutto nelle lunghe notti in tipografia, alla mitica Same, a parlare con questi personaggi coltissimi che lavoravano alle rotative, con un occhio straordinario per la pagina: in un attimo vedevano il titolo che sbatteva, le vedove, le orfane. Facevo le una di notte con loro, perché il mio capo, Liano Fanti, non ci veniva mai: aveva l’amante.
D. Lo scriviamo?
R. Massì, non penso che se ne abbia a male, se è ancora vivo.
D. Ce lo auguriamo. Ma com’era quella redazione?
R. Un bell’ambiente. Libertario. C’era una dozzina di protetti di partito, che non contavano un cazzo e che noi, la decina che faceva il giornale, ignoravamo. Si lavorava in stanze fumose, su enormi macchine da scrivere nere, dai carrelli lunghissimi. Oh, era un giornale vero, non il quotidiano di Valter Lavitola.
D. Cosa l’affascinava di quel mestiere?
R. L’impressione di essere là dove le cose accadevano, dove la realtà si svolgeva, perché allora, nel 1971, la tv aveva pochissima importanza.
D. Si era nel mainstrem, diremmo oggi.
R. Esatto. Dal punto di vista umano, l’Avanti fu l’esperienza più bella, assieme all’Indy.
D. L’Indy sarebbe l’Indipendente di cui era seconda firma, dopo il direttore Vittorio Feltri. Ci arriviamo. Ma prima mi parli dell’Europeo, lì ha fatto le sue grandi inchieste, come quella contro Salvatore Ligresti.
R. Quell’inchiesta mi costò un processo di quattro anni, che vinsi grazie a Basilio Rizzo, oggi presidente rifondarolo del consiglio comunale, che mi mise in contatto con una delle poche persone disposte a deporre in quella causa.
D. Che cosa prova ora che il costruttore è di nuovo nei guai giudiziari?
R. Penso che ha continuato imperterrito a fare quello che ha voluto. Malgrado le condanne, fino alla fine. Fino all’altro ieri. E dire che aveva l’ufficio a pochi passi da qui. Anzi, scoprì che avevamo lo stesso barbiere.
D. Ah sì? E il cerusico faceva da paciere?
R. No, semplicemente una volta mi disse quello che Ligresti gli aveva detto di me.
D. Ossia?
R. Che non si capacitava perché «quello là», cioè io, ce l’avesse tanto con lui. Tipico dei potentissimi: non concepiscono che qualcuno interferisca col loro progetto e se lo fa è perché «ce l’ha con lui», personalmente.
D. Nel libro ho letto che la volevano anche licenziare.
R. Certo, arrivarono anche alla Fiat, che contava moltissimo in Rizzoli. E chiesero la mia testa. Lanfranco Vaccari, direttore, che era debole perché entrato da poco, riuscì a difendermi.
D. Senta, lei ha vissuto anche la stagione del terrorismo da giornalista. Quanto vi condizionava quel clima?
R. Non c’ho mai pensato finché non ammazzarono Walter Tobagi, di cui ero grande amico. Fui l’ultimo a vederlo vivo, oltre la moglie, perché quella sera lo riaccompagnai dopo un dibattito al Circolo della stampa. Da vecchi quotidianisti, facemmo le tre di notte a chiacchierare sotto casa: aveva smesso da un mese di scrivere di lotta armata.
D. Ne parlaste?
R. Sì, quella stessa sera. E di colpo pensai a come fossimo esposti, là in mezzo alla strada, tanto che ebbi quasi l’istinto di guardarmi intorno, ma non lo feci per non allarmare lui , ma anche per non spaventare troppo me stesso. Era maggio ma scendeva una pioggerellina leggera. Vidi le mani grassocce di Walter girare le chiavi nel portone e la mattina dopo era già morto.
D. Le è mai capitato di avere paura, altre volte?
R. Per un’inchiesta di camorra: cominciarono ad arrivarmi telefonate strane.
D. Cioè, minacce?
R. Mi dicevano di stare attento ad andare in giro, casomai mi fosse caduto in testa qualche cosa. Avvisai la Digos che, ogni tanto, faceva passare una volante sotto casa. E poi, le confesso una cosa.
D. Prego.
R. Comprai anche una pistola: non sarei morto inerme.
D. Non ci fu bisogno di usarla, per fortuna. Torniamo al giornalismo: che cosa cambia in quegli anni?
R. Alla metà degli anni ’70, cambia il rapporto con la politica, nel senso che la politica entrò dentro le redazioni, col cavallo di troia dei comitati di redazione, perfettamente lottizzati: un dc, un comunista e un socialista. Ma, ovviamente, anche condizionando esternamente editori e direttori.
D. Prima non era così?
R. Prima esistevano davvero gli editori puri. Angelo Rizzoli lo era. Ricordo una volta all’Europeo che si rivolse a Tommaso Giglio, il direttore, perché voleva contattare Luciano Lama.
D. E Giglio che cosa fece?
R. Mosse un anonimo collega della redazione romana: lui non aveva rapporti. Per dirle quanto fossimo distanti dalla politica. Non come Panorama o L’Espresso che, in quegli anni, facevano le loro grandi battaglie, dandoti però sempre il sospetto di anche fare grandi lotte di potere.
D. Era cambiato anche uno stile di racconto?
R. Coincise con un fatto: il giornalismo in presa diretta, andando sul posto, quello fatto «coi piedi prima che con la testa» come diceva Nino Nutrizio, grande direttore de La Notte, e poi scrivendo 16 cartelle, il giornalismo che facevamo all’Europeo, tramontò. Si cominciano a fare le interviste per telefono, appaiono i «virgolini» come li chiamava Ernesto Galli della Loggia a Pagina.
D. Il periodo di Pagina, a Roma, primissimi anni ’80, con la direzione di Aldo Canale, l’ha fatta litigare a distanza con Giampiero Mughini.
R. E non so perché si sia arrabbiato: avevo scritto che, mentre Pigi Battista e Giuliano Ferrara, lì erano ragazzi di bottega, lui era un giornalista già affermato.
D. Pagina fu importante, però...
R. Per quanto vendesse solo 13mila copie era un grande mensile di politica e cultura, fatto assai bene. Liberal-laburista, come orientamento, con venature anarchiche che portavo io.
D. A proposito di inimicizie: nel libro racconta che fu forte quella con Giovanni Valentini, che venne a dirigere l’Europeo.
R. Era un protetto di Aldo Moro e mi detestava, anche se non so perché. Però mi rispettava, perché allora si faceva così. Una volta gli portai un’inchiesta sull’omosessualità. Lui la lesse e poi, squadrandomi, da sotto la lampada illuminata che teneva sui fogli, mi disse: «Sarà l’ultimo pezzo che fai per l’Europeo, ma devo ammettere che è una bella inchiesta».
D. Valentini poi è stato anche vicedirettore di Repubblica, dove lei lavorò brevemente, proprio alla nascita.
R. Sì, fui chiamato da Eugenio Scalfari, di cui conservo ancora un paio di telegrammi di complimenti per altrettanti pezzi che scrissi. Ma dopo pochi mesi me ne andai.
D. E perché?
R. Non era il mio ambiente, troppo radical-chic. Che ci facevo, io lì? Se dà un’occhiata a questa casa lo capisce facilmente.
D. Scalfari che impressione le fece?
R. Come mi disse Indro Montanelli una volta: non era dei nostri. Ossia non era un giornalista, semmai un grande manager editoriale.
D. Con Feltri, invece, è stato sempre amore-odio. Ora a che punto siamo?
R. Rapporti rotti, irreparabilmente: gli ho scritto una lettera durissima.
D. E perché?
R. Ha criticato un mio ritratto di Angelo Rizzoli jr. Articolo che, pensi, era piaciuto anche al figlio dell’editore, Andrea.
D. Che cosa ha scritto, da farla arrabbiare?
R. Che sono stato un giornalista mancato, definizione anche interessante, se vuole. Gli ho risposto nel merito, privatamente, ma lui mi ha ignorato. Allora gli ho riscritto.
D. E che gli ha detto?
R. Che essere un giornalista mancato è preferibile a essere un uomo mancato, come lui. E poi, ho aggiunto, io ho scritto due libri che, un pochino, resteranno. Di lui rimarrà solo la polvere, che gli sopravviverà.
D. Ma con lui avete fatto un grande Indipendente.
R. Da 19mila copie a 120mila, un record. Ma del resto aveva fatto molto bene anche all’Europeo.
D. Poi arrivarono le sirene del Cavaliere, che lo voleva al Giornale.
R. Me lo disse una sera a cena. Gli spiegai perché non doveva farlo e lo convinsi. Finimmo per brindare con «in culo al Berlusca». Eravamo un po’ bevuti. Scena che si è ripetuta almeno tre o quattro volte.
D. Poi ci fu la capitolazione...
R. Sì, anche se io mi sfilai prima di firmare.
D. Non gliela ha mai perdonata, a Feltri.
R. No, infatti.
D. Avrebbe dovuto assumere lei la direzione dell’Indipendente.
R. È il mio rimorso. Lasciai che la dessero a Pia Luisa Bianco, su consiglio dello stesso Feltri. Suggerimento peloso, visto che programmava di spolpare il nostro lettorato.
D. Quell’Indipendente era giustizialista e antipolitico, finì una piccola epopea politico-culturale.
R. Esatto. E finirono presto anche i protagonisti di una sorta di rivoluzione italiana: Antonio Di Pietro, demonizzato e costretto a lasciare. Feltri, comprato. Umberto Bossi, inglobato, Gianfranco Funari, ché c’era pure lui, emarginato.
D. Oggi lei è al Fatto quotidiano, come si trova?
R. Bene, sono grato ad Antonio Padellaro e a Marco Travaglio che mi hanno voluto. È autogestito come lo era l’Indy, me lo ricorda. Semmai mi convincono meno i lettori.
D. E perché?
R. Spesso mi appare una conventicola molto orientata, poco duttile. All’inizio finivo i miei pezzi, scrivendo: «Meditate, suorine del Fatto». Poi Padellaro mi chiese di smettere.
D. Che cosa non le piace del giornalismo di oggi?
R. Che non è più così importante avere una cultura. Basta Internet.
Accomiatandomi gli chiedo, invano, di vedere la cartellina verde, intitolata «Ignominia Corriere», dove Fini tiene un ritratto di Carlo De Benedetti e uno di Gianni Agnelli che Bruno Anselmi, condirettore, e Ferrucci De Bortoli, capo della redazione economica, gli chiesero ma non pubblicarono, perché il direttore, Ugo Stille, li bloccò. Era il 1
Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 19/2/2015