Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  febbraio 20 Venerdì calendario

TUTTI I GUAI DELLO ZAR

Mosca Di guai alla frontiera Vladimir Putin ne ha parecchi. Del resto la Russia è il Paese più grande del mondo e i suoi confini, adagiati tra Europa e Asia, sono i più lunghi del pianeta. Quelli con il solo Kazakhstan misurano 6846 chilometri. Per zar Vladimir, tuttavia, il problema non è solo presidiare il limes con guardie di frontiera integrate nei servizi segreti (Fsb), ma anche garantire che oltre non vi siano minacce o nemici. Per questo ha cambiato la geografia del Vecchio continente contro il rischio di un approdo alla Ue e/o alla Nato di certe Repubbliche ex sovietiche: sostenendo l’autoproclamata repubblica di Transnistria in Moldavia, riconoscendo le regioni secessioniste di Ossezia del sud e Abkhazia in Georgia dopo la guerra del 2008 e, ora, ispirando e finanziando gli indipendentisti filorussi nell’Ucraina orientale, dopo aver annesso la Crimea. La Russia, come la vecchia Urss, si sente incalzata dall’Occidente e vive in una sindrome da cittadella assediata. E l’aquila bicipite guarda sempre di più a est, verso la Cina, anche se dovrà vedersela con progetti rivali per il controllo dell’Asia centrale. Putin aveva scommesso su un ambizioso progetto geopolitico: l’Unione Eurosiatica, nata il mese scorso con la Bielorussia e il Kazakhstan ma senza l’Ucraina, la culla della civiltà russa scippata da quello che Mosca ritiene un “colpo di Stato” orchestrato dagli Usa, non senza complicità europee. Una perdita che diventa anche una minaccia alla sicurezza nazionale, per l’incubo di ritrovarsi con basi Nato a poche centinaia di chilometri da Mosca. Come sosteneva già nel 1997 Zbigniew Brzezinski, il polacco russofono consigliere per la sicurezza di Carter, “senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero euroasiatico”, mentre controllandola “ritrova di nuovo i mezzi per diventare un potente Stato imperiale”. Se l’Ucraina resta la vera emergenza, ai confini dell’impero russo premono anche altre minacce: dalla Nato, che presidia i Paesi Baltici e che ora ha creato una forza di reazione rapida nell’Europa orientale, all’Afghanistan del dopo Nato, dalla corsa ai tesori dell’Artico al turbolento Caucaso del nord, dove la guerriglia islamista si è saldata con Al-Qaida e Isis.
FIANCO SUD-OCCIDENTALE
È quello attualmente più vulnerabile e instabile. Il problema numero uno è l’Ucraina. Dopo aver fatto da cuscinetto insieme alla Bielorussia verso Nato ed Europa, il governo uscito dalla rivoluzione di Maidan ha voltato le spalle a Mosca. Se Minsk, pur gelosa della sua indipendenza, resta un alleato stabile, Kiev rappresenta una minaccia alla sicurezza di Mosca, aggravata ora dalla nuova forza di reazione rapida della Nato a est, decisa per contrastare “l’azione aggressiva della Russia”. Per questo lo scorso anno Putin non ci ha pensato due volte a “riprendere” subito la Crimea, continuando così a garantirsi l’accesso al Mar Nero e al Mediterraneo. E poi, come lo accusano Kiev e l’Occidente, ha orchestrato e finanziato la rivolta nell’est russofono, smentendo spudoratamente la presenza di truppe e mezzi russi. Qui il signore del Cremlino ha trasformato il limes da linea di confine a strada di penetrazione all’interno di territori di recente conquista: oltre 400 dei 1576 chilometri di frontiera con l’Ucraina sono nelle mani di russi e filorussi.
Per la terza volta dopo il crollo dell’Urss nel 1991, la Russia non ha esitato ad usare la sua forza militare per difendere quelli che considera i suoi interessi vitali. Dopo la mattanza cecena - un secessionismo in fondo analogo a quello del Donbass - e la punizione del temerario blitz georgiano nel 2008, in Crimea e nell’est ucraino la Russia ha dimostrato un forte salto di qualità nell’impiego chirurgico, indiretto, non convenzionale del suo aumentato potenziale bellico. Le regioni di Donetsk e Lugansk devono diventare il nuovo mini cuscinetto sud-orientale della Russia, spingendo più ad ovest i confini. Possibilmente diventando parte di un’Ucraina federata neutrale o nella quale i filorussi abbiano diritto di veto sull’ingresso di Kiev nella Nato, oltre alla facoltà di integrarsi con l’Unione Euroasiatica. Lo scenario sanerebbe anche il “buco” rimasto lungo la frontiera con l’Ucraina nord-occidentale, da Lugansk ai confini con la Bielorussia, passando attraverso la regione di Kharkiv, rimasta sotto il controllo di Kiev nonostante i fermenti di rivolta.
Alle spalle dell’Ucraina, ma sempre con affaccio sul Mar Nero, c’e’ inoltre l’insidia della Moldavia, anch’essa in lento cammino verso l’Europa grazie alla partership con Bruxelles ma con un nuovo governo filo occidentale molto debole, appoggiato dai comunisti, che hanno forti legami con Mosca. Qui inoltre non ci sono state rivoluzioni o tensioni etnico-linguistiche, come a Kiev, e nessuno ha messo in dubbio il mantenimento della neutralità di Chisinau. Il Cremlino però resta diffidente, pur sapendo di poter usare varie leve di pressione: il bando dell’import di vino, frutta, verdura e carne, la revoca degli sconti sul gas, le richieste di adesione alla Russia della russofona Transnistria, staterello fantoccio che Mosca usa come avamposto militare.
FIANCO SUD
Qui la spina nel fianco resta la Georgia, anche se Mosca, ha insediato altre due Repubbliche fantoccio come l’Abkazia e l’Ossezia del sud dopo la guerra lampo nell’agosto del 2008, per il tentativo dell’ allora presidente Mikhail Saakahsvili di riprendersi con la forza militare una delle due regioni russofone secessioniste. Forse fu un modo di saggiare la reazione della Russia subito dopo l’arrivo al Cremlino del più liberale Medvedev, ma Putin, pur nelle vesti di premier, fece vedere chi continuava a comandare davvero. Da allora le due autoproclamate Repubbliche, non riconosciute dalla comunità internazionale, dipendono in toto dalla Russia, che ha così messo un’ipoteca contro un’eventuale adesione alla Nato di Tbilisi.
Un altro fattore di instabilità a sud è il Caucaso del nord in generale, dove ha messo radici il terrorismo islamista, con legami sempre più forti con Al-Qaida e Isis e la partecipazione ai conflitti in Siria e in Iraq. Anche qui l’obiettivo è creare un Califfato, del Caucaso del nord. La Cecenia di Kadyrov, il luogotenente di Putin a Grozny, resta più stabile di Inguscezia e Daghestan, anche se richiede finanziamenti stellari per mantenere una pax costata due guerre atroci. Ma nel Caucaso tutto è imprevedibile: una improvvisa uscita di scena di Kadyrov, come successe al padre, morto in un attentato, riaprirebbe scenari inquietanti. Per il resto il fianco sud è garantito dai buoni rapporti con Baku e dall’alleanza con Erevan, proiettata ormai verso l’Unione Euroasiatica. Alle loro spalle ci sono altri due partner: l’Iran e la Turchia, con cui Putin ora ha cementato una nuova alleanza energetica grazie ad un nuovo gasdotto, alternativo al defunto South Stream. Resta la mina vagante dell’Isis e della generale instabilità tra Siria e Iraq.
Una potenziale minaccia indiretta ai confini meridionali centroasiatici arriva dall’Afghanistan, anche in seguito al progressivo disimpegno Nato: i talebani mettono a rischio la sicurezza di repubbliche ex sovietiche e musulmane come l’Uzbekistan, il Tagikistan e il Kirghizistan (anche quest’ultimo avviato verso l’Unione euroasiatica), per la contaminazione dell’estremismo islamico. E la Russia ha la più grande comunità islamica d’Europa, con venti milioni di musulmani, molti dei quali emigranti provenienti da questi Paesi. Sul piano militare la risposta è l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, alleanza tra repubbliche ex sovietiche guidata da Mosca (Russia, Bielorussia, Kazakhstan, Armenia, Kirghizistan, Tagikistan).
FIANCO NORDORIENTALE
La minaccia restano le tre Repubbliche ex sovietiche del Baltico, profondamente anti russe: Lituania e, in particolare, Lettonia ed Estonia, tutte ormai nella Nato, con gli ultimi due Paesi che confinano direttamente con la Russia. Questa è frontiera stabile ma anche un’area di frizione potenzialmente calda, dato che si tratta dell’unico tratto del territorio russo a tu per tu con l’Alleanza Atlantica. Mosca usa la leva delle sue minoranze russofone e flette provocatoriamente i muscoli con sorvoli nei cieli pattugliati anche dalla Nato. Nei Paesi baltici sono comparsi manuali di comportamento in caso di invasione russa, ma si tratta di uno scenario del tutto immotivato, anche perché scatterebbe l’articolo 5 del trattato Nato, quello della difesa collettiva, con una possibile guerra tra Mosca e l’Alleanza. La Russia è preoccupata anche per il cosiddetto gruppo del nord, una recente coalizione a guida britannica che comprende i tre Paesi baltici, Danimarca, Norvegia e Olanda, decisa a formare entro il 2018 una forza di spedizione congiunta in ambito Nato, per erigere un’altra barriera di sicurezza euroatlantica contro Mosca. Questi Stati vedono nel Nord allargato una zona di importanza strategica, una regione in via di integrazione che include anche l’Artico e le regioni adiacenti.
GRANDE NORD
L’Artico è la futura frontiera calda della Russia, che da tempo rivendica un ruolo sempre più preponderante nella regione, anche in vista del possibile sfruttamento delle immense riserve di gas e petrolio. Per questo Mosca ha rafforzato anche la sua presenza militare, istituendo il comando strategico riunito per il Nord. Ma deve fare i conti con le altre potenze artiche, in particolare Usa e Canada.
ISOLE
Mosca può contare su un’”isola” incuneata nell’Europa, l’enclave russa della baltica Kaliningrad, l’ex Koenigsberg, tra Polonia e Lituania. Un avamposto militare dove la Russia minaccia di installare missili Iskander a breve raggio, utilizzabili anche con testate nucleari, contro lo scudo antimissilistico Usa in Europa. Le Curili sono invece le isole contese con il Giappone dalla fine della seconda guerra mondiale: una frontiera lontana, ma pur sempre da difendere dalle rivendicazioni nipponiche e da usare come presidio in quei mari.