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 2015  febbraio 18 Mercoledì calendario

IRAQ, VITA QUOTIDIANA AI TEMPI DEL CALIFFATO

Si i fa chiamare Muhammad da quasi un mese. Sul tavolo della cucina ha due carte d’identità, una vera e una falsa. Con la prima ha vissuto a Mosul oltre 20 dei suoi 24 anni. Con la seconda è fuggito da Mosul, ai primi di febbraio. La sua voce
è quella di un testimone scomodo della vita quotidiana di questa città irachena, dal 10 giugno 2014 in mano allo Stato islamico, l’Isis.
Muhammad è un cameraman che ha fatto il freelance per alcune televisioni private di Mosul durante il governo di Nouri al-Maliki. E si considera un miracolato: «Ho schivato per poco una delle prime retate dell’Isis contro il Local media department» ricorda. «Quel giorno hanno arrestato attivisti e giornalisti. Sappiamo che sono stati torturati. Sono scomparsi. Da allora ho vissuto come un fantasma, ma sempre cercando di filmare, almeno con il celullare, quanto potevo».
Così racconta la sua odissea: «Entrare a Mosul è facilissimo: lo Stato islamico sa che chi entra o è residente o ha interesse a sostenerlo. In ogni caso non si sfugge ai controlli» afferma «perché esiste un data base di chi ha vissuto a Mosul negli ultimi 15 anni. Venne creato da Abu Musab al-Zarqawi (il fondatore del braccio iracheno di al Qaeda, vero ispiratore dello Stato islamico di Abu Bakr alBaghdadi, ndr). Uscire invece è quasi impossibile». Chi lo fa deve dimostrarne l’assoluta necessità: si può passare la catena di check-point, ben sei, da Mosul ad Anbar, solo se si è lavoratori che ritirano il salario in una città fuori da Mosul, oppure per ragioni mediche gravi, presentando un certificato vidimato dall’autorità locale. Ultima soluzione: la carta d’identità falsa. «A Mosul c’è chi le fa su richiesta; ovviamente è un mercato nero fiorente. Ma nessuno è riuscito a utilizzarle senza problemi fino al mese scorso, quando l’ultimo checkpoint mobile dell’Isis è passato all’esercito iracheno dopo una battaglia di posizione molto pesante» ricostruisce Muhammad. «Prima una falsa carta d’identità ti faceva correre il rischio di essere identificato come traditore, deportato e ucciso».
Il percorso che ha atteso Muhammad all’uscita da Mosul è stato lungo: «Chi scappa deve seguire una rotta tortuosa che porta verso il governatorato di Anbar. Da lì a Karbala e a Baghdad» Oggi, Muhammad non risiede nemmeno più nella capitale per ragioni di sicurezza. Da Mosul si è portato dietro un bagaglio di storie che parlano di una città sospesa in una sorta di terrorizzante normalità. «La città è controllata a tappeto. Moltissimi check-point sono presidiati da adolescenti addestrati nei campi dell’Isis. Sono i figli delle famiglie più povere: gente che ha supportato i miliziani dello Stato Islamico perché senza risorse» precisa il giovane. «Chi non voleva vivere alle condizioni dello Stato islamico è andato via. Chi è rimasto prosegue la vita di tutti i giorni, stando attento a non irritare la nuova autorità».
Della vecchia dirigenza sciita è stata fatta piazza pulita. Assassinati anche tutti coloro che avevano preso parte alle elezioni parlamentari del maggio 2014, come Lila Riqani, che correva con il partito democratico del Kurdistan. Tutti i siti e i luoghi di culto cristiani, yazidi, musulmani sufi e sciiti sono stati distrutti, però «nessun cristiano è mai stato ucciso a Mosul per la sua fede» assicura Muhammad. «Gli è stato dato un ultimatum: o vi convertite o andate via». Oggi a Mosul sono rimaste solo due nuclei di cristiani, composti da sole donne. «Una madre anziana e sua figlia nubile hanno deciso di convertirsi» spiega Muhammad. «L’altra, anzianissima, non è voluta ripartire e Al Baghdadi ha creato un editto solo per lei, dandole il permesso di andare in giro al mercato senza niqab. Con l’ordine che nessuno la infastidisca. Lei gira sempre con la copie dell’editto e la mostra ai miliziani che però la redarguiscono perché non veste adeguatamente».
Riguardo agli yazidi, Muhammad conferma: «Le famiglie di chi non ha voluto convertirsi all’Islam propagandato dallo Stato islamico sono state decimate. Gli uomini uccisi, le donne date in sposa agli appartenenti all’Isis, le ragazze stuprate e “distribuite” ai membri delle milizie locali». Le regole morali in vigore a Mosul sono molto dure: «Non si può suonare in pubblico, nemmeno ai matrimoni. La musica è haram (vietata) perché conduce a Satana» racconta il cameraman. «Due omossessuali colti in flagranza di reato, in virtù della sharia e dopo l’arruolamento di quattro testimoni, sono stati buttati dall’edificio più alto di Mosul, l’Insurance company building». È falsa invece, la notizia che era filtrata di una legge per sottoporre le ragazze all’infibulazione. Lo Stato islamico sa come fare propaganda e mantenere l’ordine anche in questo momento in cui ci sono problemi per l’approvigionamento di fonti energetiche: «Dopo una prima fase di maggiore benessere in città, ora la distribuzione di elettricità è carente e il gasolio costa moltissimo» precisa Muhammad. «L’Isis ha però dotato ogni quartiere di un potente generatore per sopperire alle necessità collettive. Nel frattempo ha intensificato l’azione delle unità militari, con battaglioni, detti katibe, molto organizzati e
militarmente preparati».
I combattenti sono altamente specializzati e la loro provenienza è varia: i più crudeli provengono dal Kazakistan. Seguono iracheni, giordani, emiratini, qatarioti. I kazaki si occupano anche di addestrare ed educare alla battaglia gli adolescenti. Agli europei, pakistani e australiani sono affidate le funzioni logistiche. Il più famoso miliziano straniero del posto, però, è tedesco: «Fa parte di una katiba speciale i cui componenti hanno accettato, in caso di attacchi esterni, di trasformarsi in kamikaze» conclude Muhammad «È temutissimo. Io mi chiedo come un europeo sia arrivato a tanto». Muhammad, che è nato durante la prima guerra del Golfo, nel 1990, proprio non riesce a spiegarselo.