Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 20/2/2015, 20 febbraio 2015
PAOLI, IL POETA FRAGILE, DAL PCI ALLA SIAE
Adagiandosi sui tempi andati, Gino Paoli ricordava spesso la perfidia gratuita del pubblico all’epoca in cui affrontare un palco e sottoporsi al giudizio popolare, rappresentava un azzardo: “Edoardo Vianello cantava ‘chi sono, chi sono, chi sono’ e dal loggione arrivava puntuale il controcanto ‘uno stronzo, uno stronzo, uno stronzo’”. Chissà cosa griderebbero oggi, più mezzo secolo dopo, al cantautore colpito alle spalle da una storia di spalloni e frontiere, confini e limiti violati, dolci montagne verdi e svizzere amare. L’accusa (tutta da dimostrare) è quasi la medesima che vibrando di indignazione, Paoli scagliava contro i ragazzi che occupavano uno storico palcoscenico nel pieno centro di Roma: “Il Teatro Valle gode di vantaggi arroganti perché non rispetta le regole della concorrenza, evade completamente le tasse, non versa i contributi previdenziali Enpals e non rispetta alcuna misura di sicurezza per autori, tecnici e spettatori”. Troppo facile ironizzare adesso, sul suo ruolo di garante, di Presidente della Siae, la società a cui negli anni della gioventù non era iscritto tanto da ricorrere a Mogol come prestanome. Adesso che in prima pagina va il suo cognome, cercare i come e i perché nell’ufficio delle cose perdute si rivela una pratica inutile. Nel “gran ventre del paese”, Paoli (che è sempre stato unico) si ritrova a indossare una tunica banale. Evasore senza fantasia al di là di Chiasso, quando far calare il silenzio sulla sua vicenda fiscale sfiora l’impossibile.
POCHI MESI FA, celebrando l’ottantesimo genetliaco di fronte al mare che tante volte l’aveva ispirato, a festeggiarlo erano precipitati in tanti. Alle riprese, munito di telecamera d’ordinanza, Red Ronnie. In posa, per festeggiare e dipingere a tinte allegre l’età matura dell’artista che in quella acerba avrebbe voluto prendere il pennello e si ritrovò impiegato come grafico, un vasto mondo. Un microcosmo eterogeneo. Luca Cordero di Montezemolo e Beppe Grillo, Antonio Ricci e Walter Veltroni. Tutti intorno a Gino che senza un attimo di respiro, fin dal tramonto degli anni ‘50, aveva dato fiato all’amore e a stanze così alate da non aver bisogno di pareti. Subito indipendente, perché figlio, aveva raccontato ad Aldo Cazzullo: “Di un operaio analfabeta delle ferriere di Piombino” che dopo essere passato per l’Accademia di Livorno “era arrivato ai cantieri di Monfalcone come ingegnere navale”. Su altre acque, aveva navigato anche Paoli. Le acque agitate dal sentimento (forte e non priva di disperazione la storia d’amore con Stefania Sandrelli da cui nacque Amanda) e quelle altrettanto increspate della poesia. Paoli che aveva tentato senza fortuna di togliersi la vita: “Mi sparai al petto con una Derringer perché avevo tutto e non sentivo più niente. Donne, motori, applausi, ali di folla ovunque mettessi piede”, in vita era rimasto per regalare capolavori che al tratto apparentemente leggero affiancavano il racconto di un’era. Con l’equivoco interpretativo nella tasca: “Sapore di Sale venne accolta come una ballata spensierata, quando in realtà di spensierato aveva poco” Paoli si era rifatto con gli interessi dell’iniziale scetticismo dei discografici e aveva conosciuto (trovando poi l’antidoto per fuggirne a modo suo) il successo che stringe la destra al delirio popolare: “Quel trionfo significò diventare un divo vero, con le ragazzine che mi strappavano i vestiti. Per un po’ mi sentii chissà chi: perché con un simile esito diventare stronzi è facilissimo. Mi trovai al centro dell’universo e per un certo periodo mi immedesimai nella parte. Poi, per fortuna, a tirarmi fuori da quella trappola, fu il mio innato senso di autocritica”. Ora, in attesa di ascoltarne la versione, Paoli sarà costretto a lucidarlo nuovamente. Provando a convincere prima gli altri che se stesso. Un talento in cui dimostrò di eccellere quando al bar, gli amici, sognavano ancora di cambiare il mondo, prima di capire che adeguarsi è meno rischioso di qualsiasi rivoluzione.