Fiammetta Fadda, Panorama 19/2/2015, 19 febbraio 2015
CHIPSMANIA
Milano, corso Buenos Aires 57, giovedì 5 febbraio, ore 12,30. La fila dei clienti in attesa è appena cominciata, ma all’una occupa già una decina di metri di marciapiede e cresce fino alle due. Poi nuova coda ininterrotta dalle 18 alle 20. Sono soprattutto teenager concentrati sugli smartphone, ragazze raggruppate per un selfie, ma anche extracomunitari e gente di ogni età in pausa pranzo. Stessa città, stessi orari, stessa folla nella popolarissima via Torino, dove il fine settimana si sta aperti fino alle 3 del mattino e oltre per sfamare il popolo in uscita dalle discoteche.
Motore del nuovo fenomeno sono i corner su strada di Amsterdam chips, la catena di patatine fritte che ricalca lo stile delle famose «frites», orgoglio nazionale belga e olandese. Una ricetta semplice: un punto vendita, due ragazzi che versano le patatine in una colorata friggitrice alle loro spalle; dietro, a vista, i sacchi di patate originali della varietà Bjntie, la macchina che le lava e le sbuccia accanto a quella che le taglia, poi una prima frittura e il raffreddamento. Il colpo finale, in pochi minuti, arriva all’ordine. Ed eccole salate e servite caldissime con una scelta di 16 salse e sette birre artigianali trappiste. Tre euro il cono da 240 grammi; cinque il medium da 400, otto il family da 900.
La formula, partita quattro mesi fa, promette di replicare il successo in 20 store diretti in Italia e 80 in franchising tra il 2015 e il 2016. Una storia che potrebbe somigliare a una start up, se non fosse che Carmelo Carlino, Francesco Ferrara e Mauro Glorioso, siciliani, creatori del marchio Buongiorno Italia per le Amsterdam Chips, sono capitani di lungo corso nel promuovere prodotti alimentari italiani all’estero. Finché due anni fa si sono accorti che c’era un clamoroso Street food che mancava in Italia i coni di patatine fritte, vendute nei mitici «fritkot» che punteggiano le vie e le piazze di Amsterdam e di Bruxelles. E hanno cominciato a elaborare una formula analoga, ma più consona al gusto italiano. A ogni nuova apertura, assaggio libero con lo slogar twittatissimo «Oggi ve la diamo gratis».
Non sono i soli. Il Sud, da Napoli a Salerno a Bari con qualche incursione a Nord, pullula di punti vendita ChipStar, partiti nel 2013 con una filosofia simile: patate olandesi, in due formati, con salse sfiziose, in competizione con Queen’s Chips, fortissimo su Facebook, con sito retro in stile American graffiti, e store a Roma, Torre del Greco, Ostia.
Se va avanti così arriveranno anche qui i distributori automatici dell’australiana Hot chips company, affini a quelli sperimentati a Bruxelles, dove una macchina altamente tecnologica versa le patatine surgelate nella friggitrice e dopo un minuto e trenta secondi le espelle, complete di vaschetta con salsa ketchup, pronte per essere mangiate.
È già nato il neologismo patatineria, l’updating delle friggitorie, concentrato sulle performance dei tuberi belgi e olandesi, la cui golosità è data dalla crosta dorata, croccante, salata, dal cuore morbido e fondente e, attenzione, dalla frittura nel grasso di bue. Strutto, insomma.
Un mito, un simbolo, una bandiera che unisce valloni e fiamminghi, congiunti nel difendere la primogenitura nella creazione di questa specialità oltraggiosamente etichettata «french fries». Battesimo impartito, pare, durante la Seconda guerra mondiale dai ragazzoni delle truppe americane che, mangiando patatine belghe in un paese di lingua francese, senza andare troppo per il sottile, hanno deciso che fossero made in France.
E invece no. Nei Paesi Bassi il massimo disprezzo circonda le «allumettes», cioè quelle patatine fritte onnipresenti nei bistrot della nazione confinante, surgelate, precotte e (orrore) di sezione inferiore a 0,5 centimetri. Per non parlare delle «chips» sottili a forma di gettone, inventate dagli americani, intatte per mesi grazie a una serie di ingredienti aggiunti, il cui nome ha colonizzato anche le nobili «frites» belghe.
Perché alla fine, divertimento a parte, il fascino di queste patatine è l’effetto salubre (si fa per dire) del cotto e mangiato, mentre la perfetta doratura di quelle di McDonald’s, come risulta da una circostanziata analisi pubblicata su Wired, è frutto di un elaborato makeup: destrosio per caramellizzare, pirofosfato di sodio per mantenere una bella colorazione, mix di oli vegetali, aroma naturale di carne per dare profondità al sapore, antiossidante per conservare.
Quanto alle calorie, lasciamo perdere. Siamo sulle 300 all’etto, e gli sforzi di Burger King per battere lo storico rivale su questo piano hanno portato a un calo del 30 per cento circa di grassi. Interessante, certo, ma una bomba resta una bomba. L’importante è differenziarsi: la catena Holy Burger è specializzata nella chip gourmet a spicchi, con la buccia, per un effetto country; da Fries, a Roma, c’è la scelta tra stick e chip, affettate a mano, anche con salse vegane.
Tuttavia l’edonismo del tris grasso-morbido-croccante, non poteva lasciare indifferenti i cuochi veri, i quali le french fries le servono con ironia, in versione sfizio di benvenuto, come fa Alfredo Tomaselli, patron del Bolognese di Milano e di Roma; oppure nei bistrot contemporanei, come Pisacco a Milano, supervisionato dallo chef Andrea Berton, che precisa: tuberi della varietà Abruzzo vecchia, cotti in forno immersi nel burro, tagliati a grossi spicchi, congelati, fritti al momento in olio di semi di arachide, salati, serviti con maionese fatta in casa. In provincia, Zunica, a Civitella Casanova, fa un raffinato pollo in crosta di sale, ma sono le patate fritte di accompagnamento che fanno impazzire i clienti. Eppure non all’altezza delle frite belghe. A Milano i nostalgici di quel sapore, vanno a Le vent du Nord, dove ci sono quelle autentiche. Lo chef Carlo Cracco riserva le sue attenzioni alle chip della San Carlo, perché, come spiega lo slogan pubblicitario «in cucina ci vuole audacia».