Fabio Mini, Limes: Dopo Parigi che guerra fa 1/2015, 19 febbraio 2015
LE GUERRE NON SCOPPIANO PIÙ
(note alla fine)
1. LA QUESTIONE UCRAINA HA APERTO UNA stagione di nuove tensioni nei rapporti – mai stati facili – tra Russia e Occidente. La personalizzazione della crisi nel confronto fra i presidenti Putin e Obama sembra preannunciare un conflitto aperto e armato tra i rispettivi Stati, ma tutti sanno che tale conflitto non potrebbe essere isolato e anzi il teatro di guerra sarebbe proprio l’Europa, che comunque in caso di guerra si dovrebbe schierare con gli Stati Uniti. Perciò sono in molti a temerlo, anche se sono altrettanto numerosi coloro che se lo augurano. Già si fanno i conti delle armi e delle divisioni corazzate da una parte e dall’altra e sono tornati alla ribalta i vecchi sovietologi esperti delle manovre del Cremlino. La questione è anche semplificata dagli atteggiamenti esteriori dei contendenti e dalle intemperanze dei russi cattivi e degli ucraini calorosamente sostenuti da tutti gli amanti della libertà. La paura o la voglia di guerra devono tener conto di molti fattori ma non possono tralasciare un fatto non marginale: le guerre non «scoppiano» più. Chi si aspetta che da un momento all’altro scoppi la guerra in Europa e che personaggi come Obama, Putin, Hollande, Merkel, Cameron e Renzi decidano di dar fuoco alle polveri della violenza armata e trovino il coraggio di mobilitare truppe, aerei e carri armati per una guerra può aspettare invano.
Non è che tutti i leader del mondo siano diventati pacifisti. Anzi, fanno a gara per apparire bellicosi e bellicisti approfittando di ogni occasione per vestire i panni di ammiragli, generali e soldati da operetta. Non è che siano coraggiosi e risoluti. Anzi, preferiscono brandire l’arroganza presentando come successo straordinario ogni timido passo in avanti e nascondere i vergognosi passi indietro. Non è che la guerra non sia più lo strumento privilegiato della violenza politica o che sia stata bandita dal diritto internazionale o dalle coscienze. Anzi, il diritto ha finito per giustificare persino la guerra preventiva e sta chiudendo entrambi gli occhi sulle nuove forme di aggressioni e guerre coloniali. Di fatto la guerra è penetrata come non mai nelle coscienze umane e nel tessuto politico e sociale globale. E anche se viene evocata a ogni piè sospinto per combattere il male di turno o per motivare gli interventi armati inutili o perseguire scopi inconfessabili si fa ben attenzione a che non «scoppi». Nessuno infatti si prepara per la guerra, ma tutti si preparano a difendere la pace; nessuno fabbrica armi per la guerra ma per creare nuovi posti di lavoro; nessuno parte più per la guerra ma per missioni di pace, per operazioni di polizia internazionale, per risposte alle crisi.
2. Per rendere più confusa la violenza si adottano la lingua e il lessico anglosassoni che utilizzano la guerra e l’idea della guerra per ogni contesa: da quella politica a quella commerciale o ludica. Le strategie di guerra, i concetti operativi e le operazioni militari parlano l’inglese un po’ per piaggeria e un po’ per pigrizia e ipocrisia. Ma la lingua straniera può tradire, come nel caso della pre-emptive war che non previene ma anticipa lo scontro. O come il Jobs Act che il nostro governo ha copiato da una proposta (bocciata) della Casa Bianca senza curarsi delle ambiguità anche boccaccesche che il termine Job assume quando è accostato a degli stereotipi italiani. Job è affare, appalto, mansione e l’italian job non è il lavoro, ma la truffa. Il Blow Job non è l’arte dei soffiatori di vetro, ma l’atto di sesso orale così caro ai disinibiti politici ed economisti.
Sul piano dell’evoluzione concettuale delle guerre non si registra nessuna modifica sostanziale. Didatticamente si sono però codificate le war generations. Siamo arrivati a cinque generazioni alle quali occorre tuttavia aggiungere una sesta che si fatica a esplicitare per un sano senso del pudore. La First generation è stata la guerra per linee e colonne iniziata con la falange oplitica (VI sec. a.C.) e durata fino al 1916. La capacità di combattimento è cambiata con le varie «invenzioni» (il cavallo, la staffa, l’armatura, il carro da combattimento, le armi da lancio, la polvere da sparo, le armi da fuoco, l’aeroplano) ma la guerra è lineare, simmetrica e si combatte sempre per il territorio e la sovranità attraverso la distruzione fisica dell’avversario e delle sue sostanze con la contrapposizione di forza e resistenza. Durante la prima guerra mondiale si ha l’avvento della Second generation: le formazioni si cristallizzano nelle trincee, il fuoco a distanza prevale sullo scontro diretto e l’obiettivo diventa la distruzione degli eserciti. Durante la seconda guerra mondiale e la guerra fredda si passa alla Third generation: gli obiettivi non sono soltanto militari. Sono le forze e le risorse, gli eserciti e le strutture produttive, i soldati e la popolazione, le installazioni militari e le chiese. Forza e resistenza comprendono la parte economica mentre la manovra e il fuoco prevalgono sulla contrapposizione statica. Infiltrazione e difesa vengono portate in profondità, l’aggiramento diventa anche verticale e il fuoco è diretto e indiretto, areale e di precisione, convenzionale e nucleare.
Con il salto alla fisica nucleare inizia anche la degenerazione della guerra: la scienza prevale sull’uomo, ma in maniera irrazionale, quasi che la infinita potenza degli ordigni disponibili resuscitasse la voglia di autodistruzione che ha sempre minacciato l’istinto di conservazione umano. Intanto, con i processi di decolonizzazione compare la Fourth generation della guerra, che convive a lungo con la terza e le successive: è la guerra asimmetrica che si avvale sia di concezioni arcaiche (terrorismo, guerriglia) sia di nuove scoperte scientifiche. In particolare la fisica quantistica e quella del caos sviluppano altri paradigmi come quello di John Boyd che partendo da Sunzi e dal caos strutturato di Lorenz e Mandelbrot [1] adatta la complessità alla guerra tecnologica moderna. La guerra asimmetrica vuole ottenere obiettivi concreti (territorio, sovranità, affermazione ideologica, politica ed economica) puntando sulla forza morale, ma continua a degenerare proprio nella morale. La guerra diventa decentralizzata, complessa e lunga, si combatte sui piani delle idee e delle risorse, contro obiettivi militari e civili, con attori statali e non statali, organizzazioni e Stati falliti o Stati canaglia. Comprende conflitti a bassa intensità e insurrezionali, metodi non tradizionali di lotta, il terrorismo su basi transnazionali, gli attacchi suicidi, l’attacco alla cultura, la guerra psicologica, la manipolazione dei media, l’impiego di ogni risorsa politica, economica, sociale e militare. Contrappone strutture formali e gerarchiche ad attori informali, reticolari, senza gerarchia. Pone il dilemma dei non combattenti. Si estende su tutti i fronti: economia, politica, media, militari e civili. Si sfrutta l’imprevedibilità, il caos e la vulnerabilità dei potenti per seminare paura e con questa ottimizzare la guerra arcaica. In campo tecnologico avanzato sfrutta la complessità per provocare l’entropia, il collasso dei sistemi organizzati agendo sul tempo della decisione e dell’azione e sugli effetti differiti delle guerre. Le strutture militari tradizionali entrano in crisi non solo e non tanto perché dispongono di mezzi e strutture non adatte alla Quarta generazione ma perché «non hanno la psiche» [2]: non hanno la giusta mentalità per affrontarla e neppure la forza e resistenza psicologica per sostenerla.
Il ciclo di evoluzione/involuzione della guerra è attualmente in una fase ibrida. La guerra di Clausewitz, trinitaria, meccanica e di annichilimento dell’avversario, resiste come direttrice degli eserciti potenti, tecnologici e razionali; la complessità indirizza lo sfruttamento di nuovi sistemi d’arma e strategici; l’asimmetria riporta l’uomo alla paura. Inoltre, una diramazione della guerra asimmetrica, ma che può essere considerata la Fifth generation, ha tolto alla guerra ogni vincolo concettuale. L’ Unrestricted warfare o guerra senza limiti impiega ogni mezzo, compreso quello finanziario, per imporre al mondo i propri interessi. Il paradigma della guerra senza limiti si pone l’obiettivo di demolire la forza intellettuale di un avversario spingendolo oltre i propri limiti morali e mentali, costringendolo a scendere a compromessi e a compromettersi innanzitutto sul piano etico. Contrappone capacità intellettuali diverse. La Quinta generazione deve celare la propria natura bellica e non deve essere percepita come guerra: deve rendere indifferenti nei confronti della guerra (elusione, mistificazione). Richiede l’abilità di estraniarsi dal proprio sistema di pensiero e valutare gli eventi da una prospettiva multipla. Si muove con visioni strategiche lunghe e interventi operativi impercettibili e rapidi. Oggi si disegnano piani di guerra all’insegna della combinazione sincronica o diacronica delle tre ultime generazioni. Possono scatenarsi per ogni motivo, vecchio e nuovo, ma con la criminalizzazione degli avversari, con il ricorso alla paura e con la divisione manichea tra buoni e cattivi, tra bene e male, tra religioni buone e blasfeme, si assiste al ritorno degli dei impersonali del denaro, dei miti della forza e della ricchezza, dei riti della imposizione della forza e dei sacrifici umani sugli altari dell’arroganza e della stupidità. E allora si è inaugurata la Sixth generation della guerra: la guerra per bande che, specialmente in ambito occidentale, configura un sistema degradato e degenerato sul piano morale e istituzionale che contrasta con l’immagine dura e pura che l’Occidente vuole proiettare.
Le «bande» moderne tendono a deformare e scardinare le istituzioni senza ricorrere alle rivoluzioni o addirittura fingendo di farle. I mezzi delle bande si sovrappongono per nascondere l’illecito. Gli scopi delle bande sono esclusivamente privati e riguardano l’interesse politico della governance, il profitto economico e l’esercizio del potere. Le bande tendono a delegittimare le istituzioni per sovvertirle e a degradare il sistema pubblico assorbendone le risorse, favorendone l’inefficienza, intervenendo con la paura, la corruzione, la manipolazione del consenso, lo sfruttamento dei dati personali e l’accentuazione delle sperequazioni. Le bande perseguono la fine del monopolio statale dell’uso della forza e la fine del bene pubblico con l’appropriazione e spoliazione del patrimonio comune degli Stati o dell’umanità, tra cui i global commons (risorse marine, spazio, ciberspazio). La banda che prevale è quella più grossa e potente o quella che tra i propri poteri ha anche quello di controllare lo Stato e le istituzioni attraverso il controllo degli individui. La struttura gerarchica della banda fa capo a un leader in grado di accedere al potere e di proteggere l’associazione. Le regole della banda sono semplici e inflessibili: sono regole di guerra. La guerra per bande si avvale di agenti infiltrati, mezzi di corruzione, metodi d’intrusione, mercenari, sicari, proxies e milizie private. Ma anche di legali senza scrupoli, funzionari statali, amministratori pubblici, magistrati e politici corrotti, imprenditori, mafie e organizzazioni criminali locali.
Gli strumenti istituzionali di cui si avvalgono le organizzazioni sovranazionali e gli Stati per il governo e le relazioni internazionali (organi d’intelligence, eserciti, polizie, diplomazia, magistratura, finanza, sistema bancario ed economico), consapevoli o ignari, servono le bande al potere o quelle più potenti che lo vogliono ottenere. Cadono nella rete delle mistificazioni delle varie declinazioni della guerra in guerra utile, guerra umanitaria, guerra per la legalità, per la libertà, per l’imposizione della democrazia, per l’apertura dei mercati. Ma sono sfruttati per interessi particolari fino alla loro consunzione. Le forze che vengono infiltrate e corrotte per prime sono quelle dell’apparato legislativo, governativo, amministrativo, giudiziario e quelle paramilitari addette al controllo delle attività economiche e criminali.
Sul piano strategico, l’inglese domina dalla seconda guerra mondiale dopo secoli di strategie formulate in cinese, greco, latino, italiano, francese e tedesco. Dal 1945 al 1990 la strategia dei blocchi è cambiata di poco e si è soltanto adattata a nuove concezioni in relazione agli sviluppi scientifici e politici. Le strategie militari si sono adeguate al containment (contenimento) della temuta espansione sovietica (1946) attraverso la dottrina Truman e la deterrenza/dissuasione nucleare. S’è avuta così la strategia della massive retaliation (ritorsione massiccia) o massive response (risposta massiccia) annunciata da Foster Dulles nel 1954 e poi la flexible response di Kennedy, la cosiddetta distensione di Nixon-Kissinger che, abbassando il rischio di olocausto nucleare, favorì i conflitti periferici e la neocolonizzazione. Quando lo sviluppo nucleare raggiunse un livello tale da assicurare l’automatica distruzione di tutti i contendenti e del mondo intero (mutual assured destruction, Mad) la strategia è tornata a considerare le armi convenzionali e la manovra aeroterrestre (air land battle e follow on forces). Quando poi si è stabilita la capacità tecnologica del precision strike, la guerra è diventata perfino più accettabile e quindi possibile immaginando i cosiddetti interventi chirurgici che non hanno mai funzionato in tal senso, ma che hanno alimentato la lucrosa innovazione degli armamenti sviluppata successivamente nella costosa chimera delle cosiddette Star Wars e dello scudo spaziale. Durante questo graduale processo i parametri di base della strategia, dell’avversario e degli obiettivi erano comunque rimasti immutati. Le innovazioni dottrinali più ardite e costose si riflettevano in campi militari di nicchia lasciando immutate le forze di massa e gli eserciti convenzionali. In questo periodo, come nei due secoli precedenti, la guerra si è misurata sempre in attrito e dissipazione di energia e risorse.
Dal 1990 a oggi ci sono stati continui adattamenti dottrinali e un fiorire di nuove idee per dar maggior forza alle ideologie tornate ai tempi arcaici. Dalla dottrina Powell della prima guerra del Golfo si è giunti alla disastrosa dottrina Rumsfeld del 2003 sempre in Iraq. La prima prevedeva l’uso della forza convenzionale a massa, una lunga preparazione, la formazione di grandi coalizioni per acquisire un consenso generalizzato e operazioni potenti e decisive. La seconda prevedeva (e ancora prevede, anche se parzialmente) la guerra preventiva, forze sempre disponibili, più leggere, mobili, decisive. Prevede inoltre una corsa continua all’innovazione e alla trasformazione strutturale delle Forze armate.
Tra questi due paletti concettuali, e oltre ad essi, in pochi anni si sono sviluppate decine di concezioni operative a metà tra le strategie e le modalità esecutive, ma comunque in grado di influenzare le scelte politiche e mobilitare ingenti risorse finanziarie e umane. Si parla (sempre in inglese) della fine delle major wars e del declino della «fungibilità della forza militare», e allo stesso tempo si afferma la realtà e l’ineluttabilità della guerra nelle sue forme di unconventional war; irregular war, asymmetric war, wicked war(guerra scellerata), criminal war, war of the third kind, non-trinitarian war (non più composta dalla trinità di Clausewitz), new war,; counterwar, war amongst the people (guerra tra la gente), deterrence by punishment (attacco di punizione, al fine di scoraggiare ulteriori operazioni avversarie), three block war (unione di operazioni militari, aiuto umanitario e operazioni di pace), fourth generation war, compound war, netta, insurgency, global guerrilla, econo-jihad (guerra santa economica), information warfare, financial warfare, resource warfare, cyberwarfare, chaoplexic warfare (guerra dei sistemi caotici), hybrid war (fisica e psicologica)... Ci sono poi le three warfares (tre guerre) che includono psychological warfare (propaganda, inganno e coercizione), media warfare (manipolazione dell’opinione pubblica nazionale e internazionale) e legal warfare (uso dei regimi legali per battere un avversario). Sul piano operativo ci sono le Crisis response operations (Cro), le Operations other than war (Ootw), la Network centric warfare (Ncw), le Effects based operations (Ebo), le Rapid decisive operations (Rdo), la Swarm warfare (Sw). E la lista continua. Da parte sua, la Russia è comunque rimasta al palo della guerra fredda per diversi anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Come gli Stati Uniti, ha adottato la deterrenza nucleare e il first use a partire dal 1969. Nel 1996, in piena crisi esistenziale, ha ribadito la strategia nucleare con la risposta flessibile e il first use nucleare nel caso di aggressione anche convenzionale.
3. La ridondante semantica bellica che caratterizza l’ultimo trentennio non è soltanto un vezzo di tendenza e non è casuale. Essa fa in modo che in ogni minuto e ogni luogo del pianeta appaia una guerra diversa, che ci sia una continua sovrapposizione di guerre con l’effetto di non poter più definire gli unici momenti importanti della guerra: l’inizio e la fine. E di non poterne valutare i risultati. Lo scoppio della guerra implicava infatti un’azione violenta, l’accumulo e il rilascio di energia compressa per vari fattori umani e politici (ingiustizie, dominazione, difesa, emancipazione eccetera). Per scoppiare, la guerra aveva bisogno d’inneschi. I pretesti giusti o sbagliati, veri o falsi, servivano solo a questo. La guerra implicava perdite e distruzioni immani e altrettanto immani opere di ricostruzione. L’esplosione alterava gli equilibri internazionali e ne stabiliva di nuovi, ogni esplosione di guerra finiva con un vincitore e un vinto. E anche senza vincitori e vinti, ma finiva per l’esaurimento dell’energia. Senza politiche che risolvessero i problemi di accumulo delle ingiustizie, i conflitti erano destinati a ripetersi dopo periodi di cessazione delle ostilità che convenzionalmente si chiamavano pace. I Balcani, ma in genere l’Europa, sono stati teatro di questo sistema per secoli e gli imperi europei ne sono stati gli esecutori, ma anche i moderatori.
Da almeno trent’anni nessun intervento militare e neppure quelle operazioni che sono state etichettate come guerre in senso reale o metaforico hanno avuto le caratteristiche e le conseguenze delle guerre «scoppiate». Sono saltati i parametri classici della guerra e il camaleonte della guerra di Clausewitz sembra impazzito. Il suo corpo cambia di forma e colore in continuazione e così, invece di essere sempre in accordo con la situazione, l’ambiente e gli scopi, appare sempre ridicolo e fuori posto. Il fatto è che quelle che il camaleonte ci fa vedere non sono le forme della guerra ma le diverse rappresentazioni di qualcosa che suggerisca l’idea e la spiegazione comprensibile ma irreale della guerra che senza scoppiare brucia lentamente e consuma, si espande e non deve essere né risolta né spiegata. Se invece di concentrarci sulle forme e i colori del camaleonte esaminassimo seriamente le ragioni per le quali le guerre non scoppiano più, si potrebbe aprire una nuova prospettiva di analisi dei conflitti e forse la formazione di un nuovo paradigma interpretativo dei rapporti fra violenza e inganno, ragioni e pretesti, interessi pubblici e privati, guerra e pace. Perché, a dispetto delle apparenze, il fatto che le guerre non scoppino più non è affatto rassicurante, anzi.
L’ultima guerra «esplosa» è stata quella delle Falkland tra Gran Bretagna e Argentina, che pure al tempo fu definita una guerra da operetta, una guerra ridicola per motivi ridicoli. Così almeno la definivano coloro che credevano in un mondo ormai privo di guerre e privo di motivi di conflitti che non fossero quelli legati alla contrapposizione dei blocchi. Era il 1982 e in tre mesi la guerra scoppiò, si sviluppò e finì con un vinto e un vincitore.
4. A dispetto della proliferazione teorica di nuove guerre e della fantasmagorica produzione di metodi di guerra, il vero scontro globale è silente e si svolge, come sempre, sul piano della ricerca di un nuovo ordine mondiale. Non significa affatto che si cerchi l’ordine come disciplina globale che garantisca la stabilità e Io sviluppo pacifico. O che si voglia l’equilibrio di potenza a tutti i costi. Significa soltanto che si cerca di determinare chi comanda e chi obbedisce, chi sta con chi e come intende partecipare. La lotta si avvale di strumenti ideologici che non si riferiscono ai valori ideali tradizionali, ma agli interessi. Non è un paradosso che in questi ultimi anni non si riesca a pensare a qualcosa di diverso dalla contrapposizione di blocchi. Ci sono però dei nuovi elementi da considerare.
A) Non esistono più ideologie in contrapposizione. Soltanto pochi e disinformati nostalgici parlano di comunismo e anticomunismo, americanismo e antiamericanismo. Esistono i critici e i nemici della Russia e degli Stati Uniti, ma per motivi concreti. E non è detto che i critici siano nemici. Anzi. L’ideologia prevalente è quella del mercato che da luogo economico è diventato lo spazio della deriva dell’ideologia della libertà: perché di fatto nulla è più chiuso, antidemocratico e illiberale del «libero mercato» in cui prevale la legge del più forte. L’ha detto chiaramente il presidente Clinton a West Point nel 1999 esplicitando l’idea della supremazia americana. «Nella democrazia di mercato prevale il più forte: e noi siamo i più forti». Concetto ripreso dal presidente Obama, che pure ne intuisce i rischi dello sbandieramento. In attesa che una nuova dirigenza statunitense ritorni alle guerre globali e ideologiche, gli strumenti militari adottati in questa fase sono quelli indiretti che si sposano perfettamente con le esigenze dei mercati e con la necessità di fare i propri interessi, che ormai sono esclusivamente interessi privati e privatistici di oligarchie informali di dimensione globale. L’ideologia del mercato non è solo la prevalente, ma è l’unica dominante ed è contrastata soltanto da pochi pensatori, peraltro anch’essi confusi e abbagliati dal denaro che in un modo o nell’altro li concupisce.
B) Le decisioni globali vengono prese in ambiti sempre più limitati e tendono a privilegiare gli interessi dei singoli. Il tempo della decisione, anche per la sofisticazione degli strumenti e la letalità delle armi, è sempre più limitato e presto le facoltà umane non saranno in grado di valutare e processare tutti i fattori che migliaia di sensori offrono alla politica o alla strategia. Già si stanno sviluppando sistemi d’integrazione uomo-macchina e di espansione cognitiva del cervello umano. Per governare macchine e sistemi sempre più complessi i nostri piloti e soldati si devono preparare a subire la lobotomia per farsi installare un microchip nel cervello che ne aumenti la capacità o a subire una serie di automatismi che toglieranno del tutto la consapevolezza di ciò che succede. Presto anche i leader politici e i generali dovranno essere lobotomizzati o essere semplicemente in balia di fenomeni che non conoscono. Alla compressione del tempo e dello spazio si aggiunge la sovrapposizione degli ambiti di competenza e dei relativi stimoli alla decisione. Dai decisori politici ci si aspetta che si lascino guidare dalla razionalità, da quelli militari e operativi dalla probabilità, mentre dalle masse e dalla gente comune si aspettano decisioni dettate dalle emozioni. Oggi gli ambiti politici, strategici, operativi e tattici tendono a confondersi. Ci sono capi di Stato che vogliono stabilire come deve combattere un soldato, generali che danno ordini che competono ai tenenti e semplici cittadini che lanciano sfide politiche. Inoltre lo stimolo a decidere, a qualsiasi livello, viene quasi esclusivamente dall’emotività, reale o indotta con le operazioni d’influenza strategica, e dalla fretta di fare qualcosa. «Do something è diventato l’unico imperativo al quale tutti obbediscono e quando viene lanciato raramente si ha una conoscenza razionale del da farsi. Quasi sempre si finisce per agire a prescindere dagli obiettivi, dagli scopi, dalle esigenze, dagli effetti, dai costi e dalle conseguenze.
C) La geografia economica è cambiata e con questa sono cambiate le esigenze di sopravvivenza e sicurezza. Non è soltanto una questione di distribuzione fra produttori e consumatori, fra diversi gradi di evoluzione economica o di prevalenza di questo o quel settore economico. Si tratta di distribuzione della ricchezza, una branca che non ha regole e che finora è stata interpretata al contrario: favorendo la distribuzione della povertà e la concentrazione della ricchezza. L’accaparramento di territori e risorse un tempo congelate nella guerra fredda si è sviluppato nelle forme di globalizzazione economica, esportazione della democrazia occidentale e nella costruzione di nuove nazioni (Nation building) o, nei casi più difficili, di costruzione di nuovi Stati (State building). La miscela tra imprese di guerra e tentativi di Nation/State building ha prodotto un arco militarizzato globale a cavallo del Tropico del Cancro. In questo arco si trovano le vie di comunicazione e i flussi energetici vitali per il mondo sviluppato sotto l’occhio «vigile» e i potenti cannoni delle forze militari e di sicurezza stanziali o di spedizione dei paesi più forti del mondo: da quelli europei, agli Stati Uniti, alla Cina e alla Russia. Nonostante questo (o forse a causa di questo) nello stesso arco si trovano i flussi dei traffici illeciti, della droga, delle armi, delle persone, delle destabilizzazioni, del terrorismo e delle guerre. I flussi vitali seguono le stesse rotte di quelli letali e si concentrano in aree che si possono definire mediterranee. C’è il Mediterraneo americano con baricentro nel Golfo del Messico, il Mediterraneo europeo che ormai arriva fino al Caspio e al Corno d’Africa, il Mediterraneo del Mar Cinese Meridionale e quello in espansione del Golfo della Nigeria. C’è infine il mediterraneo artico, che con lo scioglimento dei ghiacci si apre all’esplorazione e allo sfruttamento delle sue enormi riserve d’idrocarburi e di nuove rotte per i trasporti globali tra Americhe ed Europa e tra Asia ed Europa. A questi mari si può aggiungere un mediterraneo non fatto di acqua, ma continentale come quello afghano, che però del mare segue le stesse leggi di labilità dei confini e libertà dei flussi illeciti. Meno apparenti, ma ugualmente importanti e fisicamente indefinibili, sono le rotte dei flussi finanziari che ormai comprendono speculazioni e movimenti di denaro virtuale. Sono questi flussi materiali e virtuali a determinare la potenza di un attore globale.
D) Sono cambiati i detentori della potenza. La guerra fredda ha introdotto la deterrenza nucleare e davanti al rischio immanente della distruzione globale le altre guerre sono passate quasi inosservate. Il potere nucleare ha poi fatto nascere il potere dei grandi Stati e dei grandi blocchi. I detentori della potenza nucleare sono diventati i detentori di tutto, i legittimi e leciti proprietari del mondo. Quest’arma per tutta la guerra fredda è stata detenuta e controllata dagli Stati. Con la fine della guerra fredda il potere nucleare è diventato incredibile e inapplicabile nonostante gli sforzi della Nato di renderlo ancora attuale e possibile. L’ultimo concetto strategico della Nato ha introdotto lo strumento nucleare statunitense ed europeo come l’asse portante della strategia militare. Si ammette che la guerra nucleare si può fare in Europa, visto che la quasi totalità degli armamenti nucleari britannici e francesi è di teatro e non intercontinentale. È un evidente bluff e una concessione alle pressioni statunitensi che tendono soltanto a sottrarre i propri territori alla minaccia nucleare diretta. Anche per questo la preminenza strategico-militare degli Stati è rapidamente decaduta con la decadenza dell’opzione nucleare e le altre forme di guerra (economica, finanziaria, cibernetica eccetera) sono divenute le principali. Il problema è che tali forme non sono gestite direttamente dagli Stati o asservite agli interessi nazionali o di coalizione, ma servono gli interessi privati di attori non-statali. Anzi, gli Stati e gli strumenti dello Stato sono stati messi al servizio di tali interessi. Oggi gli eserciti non si dovrebbero interrogare sul nemico da affrontare e sulle strategie da adottare, ma dovrebbero chiedersi per chi lavorano e perché.
E) La proliferazione e la privatizzazione degli interessi hanno reso lo scontro globale ancora più sotterraneo, subdolo e letale, impercettibile, irriconoscibile, confuso, sconnesso e apparentemente irrazionale. Il lessico geopolitico e militare si è trovato a dover abusare di vocaboli come «incertezza, fragilità, instabilità», che fanno aumentare l’insicurezza, alimentano la paura e giustificano un perenne stato di tensione ed emergenza. Sono proprio questi elementi a far accettare ai popoli le leggi inique, le eccezioni etiche, le tasse e le ridondanze di strumenti militari con le quali gli Stati e le istituzioni pubbliche si svenano e si delegittimano mentre frotte di agenti privati, antistatali e anti-istituzionali ingrassano e si espandono. La corruzione, in particolare, cresce con la deregolamentazione pubblica e con la regolamentazione dell’emergenza che di fatto elimina le garanzie di correttezza e legalità.
F) Le nuove potenze sono rifiutate «a prescindere». Nonostante il bisogno di emancipazione e maggiore assunzione di responsabilità da parte dei paesi emergenti, le nuove potenze sono contrastate e punite. Paesi di dimensioni continentali come India e Brasile sono ancora visti come terreni di conquista e sfruttamento dai paesi sviluppati. Per oltre mezzo secolo si è voluto immaginare un mondo senza Cina e ora ci si meraviglia che Pechino voglia assumere un ruolo globale. Negli ultimi venticinque anni si è voluta immaginare un’Europa senza Russia, anzi si è voluta creare un’Europa contro la Russia. Si è sacrificata la geografia all’acquiescenza politica. La Russia culturalmente, geograficamente e politicamente è stata sempre europea e ha sempre costituito un ponte con l’altra metà della sua configurazione continentale: l’Asia. Per buona parte della sua storia è stata preda delle invasioni da nord e da oriente e per altrettanta buona parte è stata baluardo della resistenza alle invasioni. C’era perciò un senso antistorico e fortemente ideologico nella pretesa occidentale di snobbare Mosca dopo l’implosione sovietica e sottrarle a morsi voraci brandelli di territorio. L’Europa, attraverso i suoi consessi più qualificati (Unione e Nato) ha assecondato di buon grado la politica americana inebriata dalla presunta vittoria della guerra fredda. Una politica tesa ad affermare il modello unipolare del nuovo ordine mondiale e a espandere l’Europa occidentale a scapito di quella orientale. C’era tuttavia un analfabetismo di ritorno nella geopolitica continentale che ha sempre visto l’Europa estendersi dall’Atlantico agli Urali. L’ordine unipolare non ha avuto né il coraggio né l’opportunità di realizzarsi non tanto a causa della Russia, ma della Cina. D’altra parte l’Europa occidentale ha perso un’occasione storica per compattarsi accettando l’imposizione statunitense di respingere la Russia. Si è di fatto rinunciato a formare la vera Europa politica cooperando con la Russia per intraprendere la strada più pericolosa, meno vantaggiosa e più violenta della sottrazione di pezzi di Europa orientale all’influenza russa nel momento in cui Mosca tentava di arginare il disfacimento con la creazione della Comunità di Stati Indipendenti (Csi). Oggi pochi ricordano che la Csi nata nel 1991 con l’accordo fra Federazione Russa, Bielorussia e Ucraina (alla quale si associò la Georgia nel 1993) non voleva essere l’erede né dell’Unione Sovietica né del Patto di Varsavia, ma intendeva sostenere paesi che non erano mai stati indipendenti né politicamente né economicamente e che l’Occidente si rifiutava di aiutare se non in cambio di sudditanza economica e proiezione antirussa. Oggi pochi rammentano che né l’Europa né la Germania possono sostenere Polonia, Ucraina, Finlandia e Stati baltici senza la Russia.
G) L’Europa è cambiata. Non perché sia unita (non lo è) o perché comprenda più Stati indipendenti (che tali non sono). Nella cosiddetta nuova dottrina militare russa annunciata da Putin la Nato viene definita come principale minaccia. In realtà la Nato che impensierisce i russi non è l’alleanza militare guidata dagli Stali Uniti. La faccia feroce della Nato nasconde il progetto tutto geopolitico dell’allargamento a est e la limitazione dell’influenza russa sui suoi stessi territori. È questa la vera minaccia per la Russia. Una minaccia alla quale nessun russo e neppure nessun europeo darebbe credito se la Polonia, gli Stati baltici e la Finlandia non pretendessero di costituire assieme all’Ucraina e agli altri paesi dell’ex Unione Sovietica la Nuova Europa, quella che deve smontare la vecchia e indurla a una prova di forza contro la Russia. La nuova Europa creata dalle aspettative sollecitate dagli Stati Uniti e dalla stessa Unione Europea guida ora la politica comunitaria facendo assumere agli altri paesi europei il ruolo di comparse impotenti e maldestre. E sono questi paesi che occupano i principali posti sia nella Nato sia nell’Ue e che impediscono alla Nato e all’Unione Europea di formulare e adottare una vera politica estera e di sicurezza comunitaria (un voto vale uno). Il progetto della Nuova Europa non è quello di fare da cuscinetto tra grandi imperi ma quello di gestirli ponendoli uno contro l’altro. Oggi, anche il rischio di vedere i propri territori sotto occupazione russa è uno strumento per sollecitare l’intervento armato. I piani militari si affidano perciò alle componenti non terrestri: vale a dire ai missili, ai bombardieri e alle armi nucleari. La Nuova Europa intende perciò assistere a un conflitto da comode sdraio nelle proprie villette guardando il traffico e le scie luminose delle nuove armi a distanza. Paesi come la Polonia e i baltici credono talmente a questo scenario che hanno già offerto agli Stati Uniti le basi avanzate per i sistemi missilistici e gli aerei da realizzare a ridosso dei confini russi. I loro territori non saranno del tutto sicuri ma meno sicuri saranno comunque i paesi della Vecchia Europa detentori di armi nucleari e soggetti alle minacce a medio raggio dei missili e bombardieri russi. Non esiste motivo o vantaggio razionale che giustifichi tale scenario.
5. Alla luce di tali elementi risulta evidente che la guerra globale per l’ordine mondiale che si svolge nell’ombra è forse la parte più «nobile» e più importante, ma è anche quella più inconcludente. Nella stessa dimensione sotterranea e strisciante si svolge però la guerra degli interessi particolari, delle speculazioni, dei poteri criminali e anti-istituzionali che invece ottiene grandi successi per pochi a scapito di tanti. Nessuno dei conflitti avviati dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica e nessuno di quelli in atto, visibili e riconoscibili come tali, tende alla realizzazione di un nuovo ordine globale. L’Afghanistan è ancora il retaggio di un potere unipolare che si vendica di un affronto, di una ribellione di criminali.
Il fatto che dalla punizione si sia passati al tentativo d’imposizione della democrazia occidentale e che poi si sia rinunciato a tale obiettivo per riportare la questione su un piano di plausibilità e razionalità dimostra che in Afghanistan non si cerca alcun nuovo ordine. Né si vuole inquadrare la regione in un progetto globale. In Afghanistan e in Iraq si tenta solo di salvare la faccia. I problemi delle rispettive aree rimarranno insoluti fino a quando non si troverà una soluzione ragionevole al quadro globale o si esauriranno gli interessi speculativi. Ma finora i profitti privati e criminali sono aumentati.
La guerra globale al terrorismo islamico non altera e non promette alcun equilibrio globale. Anche la creazione di un nemico islamico non porta ad alcun cambiamento di equilibri globali. Non esiste un blocco islamista che possa influire sulle capacità globali (politiche, sociali, economiche e militari) degli Stati Uniti, dell’Unione Europea, della Cina e della Russia. La creazione prettamente ideologica di un tale nemico aggiunge soltanto fattori di rischio interni ai paesi più esposti alle ritorsioni terroristiche, ma di certo non ne minaccia né la sopravvivenza né la cultura né la civiltà. Ma i profitti e gli interessi dei soliti agitatori sono aumentati. Nel silenzio, nell’indifferenza e nell’ignoranza di tutti. Se quindi i conflitti e le rivoluzioni, le migrazioni e gli attentati terroristici in atto e prevedibili non sono finalizzati ad alcun nuovo ordine, se le guerre non scoppiano più e se le operazioni militari in corso sono praticamente ininfluenti sugli assetti globali con i quali si misurano e confrontano le grandi potenze, rimane da chiedersi: che cosa sono le violenze visibili e concretamente palpabili?
6. La situazione dell’ordine globale è talmente intricata e complessa che non esiste una spiegazione convincente né per la guerra né per la pace e soprattutto non esiste una prospettiva di stabilità facilmente decifrabile. La presenza e la disponibilità praticamente illimitata di armamenti di distruzione di massa pone gli apparati più dotati nella stessa situazione dello stallo nucleare. La speranza di limitare un conflitto regionale al suo livello non solo è irrealistica data la concatenazione globale degli interessi in gioco, ma lo stesso livello regionale è una macrodimensione in termini umani. Un conflitto regionale in Europa, Asia, Oceania, America o Medio Oriente equivarrebbe a una guerra mondiale più distruttiva della seconda. La questione dell’ordine globale è perciò gestita con titubanti iniziative e con mille compromessi evitando accuratamente di parlare di guerra militare e privilegiando gli strumenti indiretti, le risorse, le comunicazioni, la competizione economica e le sanzioni legali e finanziarie. Allo stesso tempo, gli interessi delle oligarchie hanno bisogno sia della nebulosità dell’ordine globale o del disordine globale sia della rassicurazione delle popolazioni. La confusione e l’ansia globale hanno determinato la richiesta crescente di azioni forti e violente per le quali, a dispetto delle crisi, si trovano sempre lauti finanziamenti.
Ma l’insicurezza istillata e alimentata non può rischiare di perdere il tacito consenso delle masse o di creare il panico. A fianco dell’alimentazione dell’incertezza e della paura si è perciò resa necessaria la manifestazione puntiforme e randomica di forme di violenza note, conosciute, tradizionali e quindi «rassicuranti». La guerra combattuta in qualsiasi forma violenta è l’evento più noto, tradizionale, giustificato e giusto agli occhi dell’umanità. Quindi è il più rassicurante. Ogni spettatore e contribuente non può essere lasciato a lungo nell’incertezza assoluta che ne fiacca l’attenzione, né può essere lasciato nelle mani dei vari guru che non spiegano mai niente, ma lo fanno sentire un cretino. Ha bisogno di riconoscere, identificare e incasellare ogni sommovimento, moto o fermento in un quadro conosciuto. Il nemico deve essere chiaro, lo scopo deve essere esplicito. Per la gioia degli speculatori, la rappresentazione della guerra è anche necessaria a perpetuarla, ad alimentarla e a renderla infinita. La rappresentazione può assumere i tratti della commedia, della tragedia e della farsa, ma deve avere una componente di concretezza: tutti devono pagare e consumare e qualcuno deve morire, deve minacciare, deve vendicare, deve punire ed essere punito. La rappresentazione deve però seguire i canoni della guerra nota e la violenza deve essere palese. Non si può rappresentare la guerra agendo sull’ignoto, sulla nebbia, sull’insicurezza, su armi segrete, su azioni immaginarie, soldati virtuali, campi inesplorati e strumenti astrusi o soltanto manovre asimmetriche. Tali elementi servono a condurre la guerra vera, inconfessabile, subdola che brucia uomini, coscienze e risorse in continuazione consumando tutto ciò che incontra nella sua espansione. Non è affatto detto che la rappresentazione debba essere fedele, anzi il genere teatrale della guerra privilegia l’inganno e la mistificazione per coprire il delitto. O sfrutta lo stesso delitto e la fragilità umana per perpetrare delitti più gravi. La «rappresentazione della guerra», come qualsiasi spettacolo, deve impressionare, commuovere, inorgoglire e deve finire bene per chi l’allestisce. Deve garantire vittoria e successo di «pubblico e critica», per questo deve essere tra impari, tra diversi, tra buoni e cattivi. Le rappresentazioni organizzate dalle e per le nazioni cosiddette democratiche devono avere il consenso degli elettori e di coloro che manovrano gli elettori. Le rappresentazioni dei regimi e dei ribelli devono imporre o avere il consenso dei finanziatori, dei seguaci e dei poteri economici, politici o religiosi che li assecondano: ossia i «grandi elettori».
La rappresentazione è una celebrazione dell’estetica della guerra: la guerra è bella, è salutare, dà emozioni vitali e stimolanti comprendendone tutto l’arco dalla depressione alla deprecazione fino alla gioia e alla gloria. La rappresentazione è anche il trionfo dell’economia della guerra che produce ricchezza, consumi, posti di lavoro, tecnologia. Non sono pochi a credere che per favorire l’espansione economica sia necessario abbattere regimi ostili con la guerra. E più ancora sono quelli che credono di poter compattare la nazione e superare una crisi economica come quella che stiamo attraversando ormai da un decennio con una «bella» guerra. Una guerra in cui gli altri muoiano nell’ignominia e i nostri siano invece immortalati da eroi. Perciò, la rappresentazione si avvale soprattutto della retorica di guerra che porta sempre molti vantaggi a chi non deve combatterla, ma soltanto sfruttarla. In questo senso la rappresentazione tende a rassicurare sulla liceità e la legalità della guerra ma allo stesso tempo a spaventare a sufficienza perché la guerra sia comunque una risposta violenta e non finisca mai. Si fa appello alle questioni territoriali sbandierando il pericolo d’invasione geografica o di sovversione delle istituzioni nazionali, all’etnocentrismo che crea la divisione fra simili e diversi, tra civili e barbari, tra bruti ed evoluti, all’ottimismo che propina la certezza della vittoria, della guerra giusta e dalla parte giusta: la guerra della libertà contro l’oppressione, della difesa contro l’aggressione, della razionalità contro l’irrazionalità, dell’ordine contro il caos, della legalità contro il crimine, del benessere contro lo sfruttamento, della pace contro la brutalità, del Bene contro il Male che comunque è sempre «assoluto». In questa serie di dicotomie domina la semplicità di comprensione. Sono concetti che non occorre spiegare e lo spettro visibile è solo bianco e nero. Le questioni territoriali e l’etnocentrismo si trasformano in nazionalismo e xenofobia specialmente contro i migranti. L’ottimismo crea le «certezze» con la manipolazione dei dati e delle coscienze avvalendosi dell’estremismo religioso e della superstizione. Ci sono combattenti che credono sinceramente nella vittoria d’ideologie disumane e ci sono politici e dirigenti nazionali e internazionali che si lasciano manipolare la coscienza dal vizio, dal sesso, dal denaro, dalla consorteria e dalle droghe. Poi ci sono, sempre più numerosi, quelli che credono di battere i nemici pessimisti con l’astrologia e la magia bianca e nera affidandosi a fattucchiere, chiromanti, cartomanti e manipolatori senza scrupoli. Si sentono perciò discorsi di illustri responsabili di governo contro «gufi», iettatori, portasfiga e streghe degni della mentalità dei secoli bui. In casa nostra, ai vari berlusconiani, montiani e renziani che continuano a «salvare l’Italia» va il primato dell’ottimismo a chiacchiere per avere interpretato alla lettera la frase attribuita a un leader africano: «Eravamo sull’orlo del baratro ma oggi abbiamo fatto un passo in avanti».
Ogni rappresentazione ha i suoi attori protagonisti e le comparse. La rappresentazione attuale espone in cartellone dei protagonisti di eccellenza come le grandi potenze, gli imperi del Male, le civiltà avanzate e le tecnologie futuristiche, ma il copione è scritto anche per comparse politicamente insignificanti, tecnologicamente arretrate, moralmente inaffidabili e ispirate a sentimenti bassi come l’invidia, la vendetta, l’odio etnico e razziale e a sistemi arcaici. La rappresentazione della guerra soddisfa quindi i desideri più reconditi e inconfessabili.
Le grandi potenze impegnate nella lotta per il potere globale e ormai soggette alla rapacità delle oligarchie, pur conservando il ruolo di protagoniste, tendono a diluire la loro responsabilità e vulnerabilità ai fiaschi coinvolgendo coalizioni enormi per numero, potenzialmente onnipotenti, ma nei fatti inconcludenti e operativamente difficili da governare e controllare. In termini militari non ci sarebbe bisogno di tali spiegamenti di forze visto che comunque la lotta che deve essere rappresentata è sempre contro avversari molto più deboli e male armati. Cresce quindi il ruolo delle comparse che finiscono per dettare le loro regole e alterare le stesse finalità politiche della rappresentazione. La comparsata è forse la forma di guerra più recente e più rappresentativa dell’impotenza e del cinismo dei potenti disposti a dare spazio anche alle nefandezze.
Lo spettacolo ha bisogno di pubblico coinvolto e non assente: pubblico «pagante», emozionato, eccitato e soprattutto spaventato. Le nazioni che mantengono eserciti poderosi hanno bisogno di rappresentarli. Anzi, sono gli stessi apparati militari, sociali e industriali della guerra che decidono i cartelloni. I pacifisti hanno bisogno delle rappresentazioni per esprimersi e realizzarsi. Da una rappresentazione all’altra, la guerra consuma i popoli e le energie, ma senza esaurirli del tutto. Anzi, si cercano i modi per rassicurare e assicurare l’alimentazione e l’evoluzione costante del conflitto.
La rappresentazione della guerra non finisce più. Non deve finire mai. Non è la terza guerra mondiale a puntate citata da papa Francesco. Semmai è una delle appendici alla seconda o è la quarta, dopo la guerra fredda. Ma papa Francesco meglio di ogni predecessore ha colto il carattere di inutilità delle rappresentazioni nella costruzione di un ordine globale. Ha compreso che le rappresentazioni possono e devono cessare proprio per avere una prospettiva di un mondo più umano, sicuro e pulito.
7. Le rappresentazioni che hanno fatto rischiare deflagrazioni più consistenti erano dovute a miopia, pigrizia e imperizia degli stessi attori protagonisti. È sorprendente notare come la maggior parte delle operazioni intraprese all’insegna dell’ottimismo e dell’arroganza siano «sfuggite di mano» ai grandi attori.
Sul piano dei conflitti e delle loro rassicuranti rappresentazioni, la Crimea è sfuggita di mano all’Ucraina e ai consiglieri americani troppo impegnati a foraggiare i ribelli neofascisti di Kiev. Putin stesso ha dichiarato di non avere il controllo dei paramilitari del Donbas. Di fatto, il controllo è totalmente assente, se possono essere tranquillamente abbattuti aerei di linea.
La primavera araba è stata la rappresentazione più emozionante e più falsa della realtà. Non c’è stato nulla di spontaneo e veramente democratico nei moti di protesta politica avvenuti dal 2010 al 2014 nel mondo arabo e quelli correlati al di fuori di tale mondo come in Iran, Albania e Turchia. I moti più importanti sono stati organizzati proprio in quei paesi che i neoconservatori statunitensi (e le relative e ricche organizzazioni no profit legate agli interessi industriali e petroliferi) avevano indicato fin dal 1997 come regimi autocratici islamici da abbattere o «amici fidati» da aiutare. Non si è salvato nessuno e quasi tutto è sfuggito di mano. Soltanto la Tunisia, che con la rivoluzione dei gelsomini aveva aperto la stagione, è riuscita a stabilire, tra mille difficoltà, un governo e una dirigenza laica e ragionevolmente pulita (per ora). In Egitto l’uscita di Mubarak ha portato al potere prima i Fratelli musulmani e poi i golpisti militari così cari al Pentagono. In altri paesi come Yemen, Algeria, Iraq, Libano, Bahrein, Giordania, Gibuti, Mauritania e Sahara Occidentale, Arabia Saudita, Oman, Sudan, Somalia, Marocco e Kuwait si sono consolidati e ulteriormente radicalizzati i regimi precedenti. L’intervento esterno (saudita e statunitense) in Bahrein è riuscito a fermare le proteste popolari indicative del grande disagio che percorre i ricchi emirati incapaci di umanità nei confronti dei nuovi schiavi asiatici così necessari alla loro conservazione. Non è cambiato nulla e paesi come il Qatar si sono buttati nella mischia della destabilizzazione mediorientale. Gli unici interventi militari internazionali decisi a fatica dagli occidentali in Libia e Siria sono di fatto serviti a far immaginare una guerra limitata tra opposte fazioni o guerre definite «civili» laddove i conflitti d’interesse fra Occidente e Russia o Cina, o entrambe, non hanno trovato un compromesso e l’inattività avrebbe aumentato il senso d’impotenza e di frustrazione occidentale.
Ma il caso più eclatante e attuale è la questione dell’Is, lo Stato Islamico «sfuggito di mano» al dipartimento di Stato americano e alla Cia fortemente impegnati nella costruzione di un’opposizione armata al regime siriano. In effetti, la stessa invenzione dell’Is è la rappresentazione canonica e circoscritta della più grande comparsata della guerra globale al terrorismo. Un gruppo molto agguerrito ma marginale nella lotta contro il regime di al-Asad che avrebbe dovuto avere un ruolo di comparsa con i suoi guerrieri stranieri assoldati per rappresentare l’islam occidentale come laico, volontario e attivo partecipante alla guerra contro la tirannia è stato elevato al ruolo di grande e unico vero protagonista del terrorismo internazionale.
L’ex segretario di Stato Hillary Clinton ha ammesso pubblicamente: «L’Is è stato un fallimento. Abbiamo fallito nel voler creare una guerriglia anti-Asad credibile. Il fallimento di questo progetto ha portato all’orrore cui stiamo assistendo oggi in Iraq» (intervista a Jeffrey Goldberg su The Atlantic). La Clinton ritiene la politica del presidente Obama eccessivamente cauta. Non la convince, in particolare, lo slogan creato da Obama per definire la propria politica estera – «don ‘t do stupid shit» (equivalente al nostro «non fare stronzate»). L’idea della Clinton, che quasi certamente correrà di nuovo per le elezioni presidenziali, è che invece si debbano fare stronzate. Secondo lei i gruppi jihadisti come l’Is sfuggiti alle mani e al controllo americani «hanno la capacità di minacciare l’Europa e gli Stati Uniti. I gruppi jihadisti governano interi territori. Ma non si limiteranno a essi. Perseguono l’espansione, la loro ragion d’essere è contro l’Occidente, contro i crociati, contro coloro che intendono riempire i vuoti e noi tutti apparteniamo a una di queste categorie. Come affrontarli? Io penso intensamente al contenimento, alla deterrenza e alla loro sconfitta». Sul jihadismo, sul risorgente nazionalismo russo e la crescente riluttanza americana ad assumere impegni militari internazionali la Clinton ha ammesso che «esiste una felice posizione mediana fra il bellicismo (di G.W. Bush) e la ritirata (di Obama)». È interessante notare che le critiche a Obama sono facili e scontate, ma che la proposta di soluzione non si spinge oltre l’idea di «contenere e dissuadere» l’Is. Sembra un po’ poco, ma probabilmente lei sa che non è possibile «pensare» a qualcosa di più risolutivo non perché Obama si offenderebbe ma perché forse l’Is non è quella scheggia impazzita che si vuole far credere e che non è sfuggita alle mani di burro americane.
La rappresentazione dell’Is e delle sue forze sembra creata apposta per il ruolo che attualmente svolge. Deve destabilizzare la regione e consentire alle forze della coalizione (che comprende gli Stati che sostengono l’Is) di consolidare il potere contro l’Iran e contro gli sciiti iracheni. Una coalizione dei più e meglio armati paesi del mondo sembra essere impotente in un confronto con non più di diecimila combattenti distribuiti su un territorio vasto ma non inaccessibile. La sceneggiatura della comparsata si è sviluppata con la questione del «califfato» e con l’istituzionalizzazione della guerra.
La nozione del «califfato» è un’invenzione occidentale fin dai tempi di Osama bin Laden, al quale veniva attribuita la stessa intenzione di conquista dell’Occidente. Ma il «califfato» è un concetto politico-religioso estraneo all’Is e difficile da capire da parte di qualsiasi occidentale. L’autorità califfale deve essere riconosciuta dalle stesse nazioni islamiche e questo non è avvenuto. Un «califfato» può avere rilevanza politico-religiosa ma non ha bisogno di territorio. E infatti i gruppi jihadisti non «governano» interi territori, ma li occupano e spogliano. Per questo, dopo una breve prova di trasmissione, la rappresentazione del «califfato» è stata abbandonata ed è stata assunta dagli stessi gruppi jihadisti la veste più formale e comprensibile di «Stato islamico». Una formula che per noi occidentali riconduce la lotta sul piano della vecchia e cara guerra interstatale.
La narrazione dell’Is condotta anche tramite le sue esecuzioni capitali è un altro elemento che nella sua drammaticità e ferocia rende più efficace il messaggio di terrore, ma è chiaramente un’elaborazione occidentale. Gli esperti di comunicazione dell’Is sanno benissimo che l’Occidente sopporta le stragi e i massacri ma non regge l’esecuzione dei singoli individui. Sanno che per motivare interventi militari stranieri anche agli occhi islamici ci vogliono stragi di occidentali. Le esecuzioni tramite decapitazione sono il tentativo di innalzare la tensione e lo sdegno pubblico senza però dar luogo a interventi risolutivi che invece danneggerebbero le stesse alleanze occidentali. Per questo, le azioni militari dell’Isis vengono rappresentate in due versioni contemporanee ma diverse: per il pubblico islamico si divulgano scene di interi massacri e di esecuzioni di massa. Questo è ciò che tale pubblico capisce, teme e finanche apprezza. Per gli occidentali si scelgono e organizzano azioni ed esecuzioni individuali e puntiformi. La decapitazione di un giornalista in tuta arancione fa più impressione di un qualsiasi massacro.
I terroristi francesi che hanno condotto l’attacco alla sede di Charlie Hehdo non necessariamente fanno parte dell’Is e non necessariamente hanno avuto la regia dell’Is o di qualche gruppo jihadista, ma ne hanno replicato la logica e il modus operandi. La logica del terrorismo islamico, o di quello uiguro, palestinese, sudamericano o balcanico, che intenda portare a segno un attacco spettacolare propende per le stragi indiscriminate. Chi riesce a raggiungere il centro di Parigi con armi in mano e cappuccio sul viso avrebbe potuto portare con meno rischi una bomba in un supermercato o un aeroporto. La scelta di un obiettivo preciso come la direzione di Charlie Hebdo indica il piano di un’esecuzione sommaria nei confronti di singoli individui. Il cappuccio sul viso e l’eliminazione dei testimoni significano l’intenzione di non sacrificarsi. E la scelta di un giornale satirico è rivolta a colpire il cuore individualista e libertario dell’Occidente ormai insensibile alle stragi. Qualcuno ha anche previsto che solo un atto simile in Francia avrebbe mobilitato milioni di persone e spostato l’attenzione sui rischi per la libertà posti dall’estremismo islamico.
Ora ci rendiamo conto che gli spin doctors della propaganda antisiriana hanno messo nelle mani degli estremisti non solo nuove armi, ma nuovi modi di comunicare e terrorizzare. Sappiamo che tra di noi c’è qualcuno che non ha ragioni di ridere o di prendere con leggerezza la satira. Ma sappiamo anche che qualcuno può usare il pretesto dell’offesa o della bestemmia per reagire di persona o assoldare dei sicari balordi. Per questo è vero che siamo meno liberi, ma non perché vogliamo bestemmiare o insultare impunemente o ci sentiamo soffocati da una religione non nostra. Già da tempo, da persone civili, abbiamo rinunciato alla «libertà» di bestemmiare e offendere le sensibilità altrui. Siamo meno liberi perché i pretesti per uccidere sono infiniti e la religione non c’entra. Chi è pronto a uccidere non ha alcun senso della religione, a meno che non sia un satanista. La religione o la sensibilità religiosa è un pretesto che fa parte di quei canoni della rappresentazione conflittuale così determinata e cinica nel dividere (diabolicamente) gli uomini e alienare le coscienze. In Francia, come già accaduto in Gran Bretagna e come succederà in qualche altro paese, la rappresentazione del terrorismo è affidata a comparse e attori singoli che seguono un copione scritto e collaudato espressamente per il tipo e il numero di spettatori «paganti»: noi tutti.
8. A dispetto di quanti temono lo scoppio della guerra con la Russia o di quanti pregano che avvenga presto, occorre mettersi il cuore in pace. Non scoppierà alcuna guerra. La lotta multiforme e sotterranea che caratterizza la ricerca di un nuovo assetto globale e di nuovi profitti a suon di lobby, sanzioni, accordi sottobanco, minacce, scandali, crisi economiche non finirà presto e comunque non finirà con un’esplosione incontrollata di violenza militare. Non bisogna essere necessariamente realisti per vedere in Putin un attento stratega e forse un convinto realista. Ma il realismo non è affatto la rappresentazione della realtà oggettiva (ammesso e non concesso che esista): rappresenta una realtà di parte auspicata e voluta per interessi di parte da soddisfare o con la collaborazione e la cooperazione o con lo scontro, la prevaricazione, l’avventurismo, il cinismo e le scelleratezze. I realisti americani hanno condotto il loro paese in tutte le disavventure politiche e militari del dopoguerra. Il fatto che periodicamente cambino direzione per sostenere la così celebrata «politica di potenza» non depone a loro favore. Ora vorrebbero giocare con l’Ucraina la carta della buffer zone, ma si oppongono a un dialogo fra Stati Uniti e Russia e comunque non vogliono assolutamente che tale dialogo si sviluppi fra Europa e Russia e in particolare fra Germania e Russia.
Pensare che l’Ucraina possa essere il campo di battaglia tra Occidente e Russia non è realismo politico, ma cinismo. Egualmente cinico è pensare che l’Ucraina possa trasformarsi in luogo di cooperazione tra americani e russi. Qualunque contesa che pretenda di sfruttare un paese terzo incapace di opporsi inevitabilmente lo pone nella condizione di sottostare ai diktat dei contendenti. Come sempre accaduto, il cosiddetto realismo vuole creare zone cuscinetto da sfruttare o utilizzare come are sacrificali. Dalla teoria del contenimento ai piani di allargamento a est della Nato e dell’Europa ad essa funzionale, si è perseguita la divisione del mondo contando sul sacrificio di popolazioni e nazioni intermedie tra i poli di potenza. In nome di una presunta libertà e della democrazia è stata loro imposta la dipendenza politica ed economica dall’estero e da regimi repressivi e violenti. È il realismo degli strozzini che vogliono sempre che qualcuno paghi il surplus esoso del loro misero prestito.
Il fatto da considerare è che Stati Uniti ed Europa possono avviare assieme un dialogo con la Russia senza bisogno d’intermediari o di zone cuscinetto. Anzi, il dialogo deve prescindere dalle zone cuscinetto o dalle sfere d’influenza. Le tre potenze devono parlare tenendo ben presente cosa rischiano in proprio e non cosa possono far pagare ai paesi intermedi che devono invece essere tutelati e tenuti fuori dalla mischia. In questo senso i tre interlocutori possono tranquillamente discutere direttamente e accordarsi su un regime di rapporti che non mortifichi nessuno. Il ruolo dell’Europa è fondamentale, perché se esclusa o autoesclusa dai giochi potrebbe essere tranquillamente sacrificata alle logiche dell’uno o dell’altro contendente. Occorre pensare a una Russia che abbia un posto significativo e accettato nei rapporti con l’Occidente. Bisogna aiutarla a crearsi un futuro in tal senso invece di agire per allontanarla ed escluderla. Questo non significa cedere alle pressioni di Putin, che comunque non è eterno, e non c’è tempo per aspettare la sua uscita di scena per avviare il progetto. Non significa rinunciare alla democrazia occidentale o approvare le intemperanze di questo o quel gerarca. Non significa neppure accostare la Germania alla Russia o lasciare i paesi dell’ex blocco comunista alla mercé dei russi. L’Ucraina, così orgogliosa delle attenzioni occidentali e così permissiva nei riguardi delle interferenze americane o delle americanate di qualche ambasciatore iscritto nei ruoli della Cia, non può essere trattata come merce di scambio, ma non può neppure sottoporre l’Europa a ricatto.
I realisti americani di oggi vorrebbero indurre il loro paese a una «rivoluzione copernicana» facendo abbandonare lo spirito missionario ereditato dai padri pellegrini che li avrebbe obbligati a guidare il mondo, con le armi e il denaro. Definire missionaria l’ideologia fondamentalista che mette dio sulle monete e lo tira in ballo ogni volta che c’è da fare una guerra, una crociata, o una prevaricazione è offensivo e blasfemo. O almeno è rappresentativo di un dio che non appartiene a chi professa il cristianesimo. Se e quando gli americani abbandoneranno definitivamente il sogno di unipolarismo globale e riusciranno a concepire la cooperazione multipolare sarà soltanto perché si renderanno conto, in perfetta aderenza ai princìpi del realismo, che l’unipolarismo non è più nel loro interesse: è costoso, pericoloso e dispersivo. Questo però comporta una rivoluzione copernicana ben diversa da quella auspicata dai realisti: la presa d’atto inequivocabile che oggi, contrariamente al passato, né gli interessi globali né quelli regionali coincidono con quelli statunitensi. E, fatto ancora più grave, gli interessi pubblici americani non coincidono con quelli privati delle imprese americane o multinazionali delle quali gli stessi strumenti politici, diplomatici e militari statunitensi (e non solo) sono al servizio. Parlare di potere degli Stati e di equilibri globali senza considerare l’unica vera variazione globale avvenuta in questi ultimi cinquant’anni (prevalenza dell’interesse privato su quello nazionale) conduce a futili esercizi e immaginifiche soluzioni che nulla hanno a che fare con la realtà e con la memoria del passato.
Nell’attesa che si formino i presupposti per un nuovo ordine (possibilmente equo e condiviso) e che la logica del profitto individuale o corporativo ceda il passo all’interesse e al bene pubblico, ci dobbiamo rassegnare ad assistere e a partecipare a nuove rappresentazioni della guerra in Europa e nel mondo. Per questo dobbiamo pagare il biglietto con salassi di denaro pubblico che finisce nelle tasche private, salassi di sangue di uomini e donne chiamati a combattere, salassi di credibilità internazionale, salassi di coscienza e consapevolezza ai danni di uomini e donne che vengono raggirati da presunti guru e si sentono appagati e pagati dallo spettacolo e dalla retorica della rappresentazione bellica. Mettiamoci comodi. Muniamoci anche di molti mastellini di popcorn e noccioline da sgranocchiare perché lo spettacolo sarà lungo. Ma non sorprendiamoci più di niente perché la fantasia degli autori e la capacità d’improvvisazione degli attori e il protagonismo delle comparse sono senza limiti. Buon divertimento.
Note:
1. Edward Norton Lorenz (1917-2008), matematico e metereologo, Benoit B. Mandelbrot (1924-2010), matematico, pionieri della teoria del caos e della complessità.
2. R. THORNTON, Asymmetric Warfare: Treat and Response in the Twenty-First Century. Cambridge 2007, Polity Press.