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 2015  febbraio 14 Sabato calendario

UNA VITA SENZA PALI


Giorgio Frezzolini ha il dono della sintesi. In 80 caratteri ha descritto il senso del suo lavoro all’Atalanta: «I momenti indimenticabili della vita di un uomo sono 5-6, il resto fa solo volume».
Benvenuti nel mondo dei terzi portieri: gente con il jet lag, che dà tutto per la partitella del venerdì e alla domenica riposa. È la categoria più trascurata del calcio, eppure propone storie mai banali, spesso romantiche ed estreme. Perché, sia chiaro, il ruolo di terzo non è per tutti. Basta prendere l’anagrafe della Serie A per accorgersi che non esistono mezze misure. Un allenatore può far sedere in panchina il decano dei giocatori, Luca Castellazzi, oppure una culla di sogni come Andrea Fulignati, che a 20 anni aspetta il suo turno a Palermo: «Non è facile non vedere mai il campo, soprattutto quando ti accorgi di migliorare e vorresti giocare subito». Per i giovani, il ruolo di terzo portiere è solo una zona di transito: «Se mi chiedessero di farlo per tutta la vita, direi di no». Classe ’94, Andrea è arrivato in rosanero nel 2012 grazie al d.s. Perinetti, che l’ha scovato in Toscana e portato in Sicilia a imparare il mestiere con Sorrentino e Ujkani. A Empoli ha lasciato la famiglia: papà Stefano, portiere nelle giovanili, e nonno Sergio, numero 12 negli Anni 40. «Ho i guanti da quando sono nato», ride, e intanto sogna una prima da film: «Io in maglia rosanero al Castellani di Empoli, con i cori dei miei amici dalla Maratona. Paro tutto e vinciamo».
Alla soglia dei 40 anni, anche Luca Castellazzi ha un esordio da raccontare: «Champions del 2010, Inter contro Werder Brema. All’intervallo mi dicono che Julio Cesar non ce la fa. Nemmeno il tempo di scaldarmi e mi ritrovo in porta con le farfalle nello stomaco». Fermi tutti. L’esordio di Castellazzi? «Sì, quello è stato il mio esordio da portiere di riserva. E ricordo come se fosse ieri». Poco importano le 234 presenze in Serie A e la quindicina in Europa. Il punto è che passare da primo a terzo portiere è come nascere una seconda volta. Cambia tutto. Le attese del ventenne lasciano spazio a una sottile guerra di nervi: «Sapere che al 99% la domenica non giocherai ti può portare a mollare, ma devi sempre rimanere sul pezzo».
Il ruolo di terzo diventa così uno status eroico. Esistono modelli e mitologie: Valerio Fiori al Milan ha giocato un paio di partite in 9 anni, studiava giurisprudenza nei ritiri e si è pure laureato; ora fa il preparatore. Castellazzi sceglie un altro esempio: «Paolo Orlandoni, il terzo nell’Inter del Triplete. Un grande lavoratore, tutti lo rispettavano». Pure lui è rimasto nell’ambiente – allena i portieri della Primavera nerazzurra – e Castellazzi fa capire che non gli dispiacerebbe fare altrettanto: «Quando studiamo un esercizio in allenamento, me ne vengono in mente subito altri: spero sia un buon segno». In estate è passato da Milano a Torino, sponda granata, mentre Tommaso Berni ha fatto il percorso inverso e finalmente si è sentito a casa: «All’Inter ho fatto le giovanili, portavo le scarpe a Zamorano». Berni ha una massima: «Se non ti piace dove ti trovi, spostati: non sei una pianta». In 14 anni ha cambiato otto squadre passando anche da Wimbledon, dove sull’erba preferiscono altri sport, e sull’importanza del terzo portiere potrebbe scrivere un trattato: «Se ti alleni seriamente sei uno stimolo per i compagni. In partitella do tutto, poi sfotto gli attaccanti. Con Icardi, Kovacic e Podolski facciamo le sfide: loro provano a segnare, io paro. E a volte vinco». In Serie A ha giocato 9 partite, l’ultima nel 2012 con la Samp, ma non sceglierebbe mai un’altra vita: «Alla Lazio mi pesava non giocare, poi ho accettato le gerarchie: mi alleno come se ogni domenica dovessi scendere in campo, altrimenti farei prima ad andare in palestra. Lì, almeno, vedrei delle belle ragazze...». Ma non scapperà, Mancini può stare tranquillo. Come Colantuono può sentirsi al sicuro con Frezzolini, che a 39 anni giura di non essere mai caduto nella tentazione di una domenica al lago. Perché, poi, la domanda è sempre quella: chi glielo fa fare? «La vita del terzo portiere è una vita di stenti. Bisogna essere un po’ matti per questo mestiere». Il “Frezzo” all’Atalanta ha iniziato a farlo da tre stagioni: l’ultimo a segnargli è stato Del Piero, il primo Totti. Roba da raccontare ai nipoti, insieme a un altro aneddoto: nel 1999 lo compra il Milan e la Gazzetta per sbaglio lo ribattezza Alessandro («Almeno è un bel nome»). Era giovane, si sarebbe fatto conoscere. Chi sul nome ci ha costruito una carriera è stato Alberto Fontana, detto Jimmy come il cantante, e un passato tra i pali – pardon, tra le panchine – di mezza Italia, soprattutto Torino e Novara. Cresciuto all’ombra di un collega che difendeva le porte di Bari, Atalanta, Inter e Palermo, ne ha sempre patito l’omonimia: «Scherzavo: io sono il Fontana finto». Finché un giorno arriva la svolta: «Giocavo nella Pistoiese, la Lega Calcio mi spedì il contratto a casa: Alberto Fontana, portiere, Inter. Sgranai gli occhi. Poi ci pensai un attimo, non ero io». La sua storia è leggermente diversa, è stato più un secondo che un terzo. Ma non per questo meno interessante se qualcuno ha addirittura deciso di scriverci un libro (M. Mathieu, Il portiere di riserva). Adesso fa il procuratore, ma quando indossava i guanti aveva sempre una pistola scarica in mano: «Un colpo solo nel caricatore, una sola occasione per utilizzarlo: se fai centro hai vinto». No, il mondo dei terzi portieri non è proprio per tutti.