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 2015  febbraio 14 Sabato calendario

DNA7+ Che ci piaccia o no, noi umani condividiamo il 95% del Dna, e, tra l’altro, ne condividiamo il 50% con le banane

DNA7+ Che ci piaccia o no, noi umani condividiamo il 95% del Dna, e, tra l’altro, ne condividiamo il 50% con le banane. Ci resta, tutto nostro, un piccolo, potente 5%, preso d’assalto dalla genetica comportamentale e capace di render conto delle differenze tra ciascuno di noi. E, perché no?, dei nostri, futuri o archiviati, risultati scolastici. Comincia più o meno così un manuale Usa del 2013, che, dopo aver stuzzicato vespai tra lettori e accademici anglosassoni, arriva in Italia col titolo G come geni. L’impatto della genetica sull’apprendimento (Raffaello Cortina Editore). Scritto da due psicologi, l’americano Robert Plomin, noto per gli studi sui gemelli e la genetica dei comportamenti, e l’inglese Kathryn Asbury, esperta di istruzione. L’uno e l’altra parrebbero arrivare al momento giusto per agitare ancora un po’ le acque mosse dalla consultazione renziana sulla “buona scuola”. In realtà, le provocazioni di Asbury-Plomin si basano su studi non nuovi di pacca. Ma tant’è. Sono argomentate in modo da non lasciare tregua. E ripropongono la pericolosa domanda: la pagella più o meno buona di un ragazzino, e il suo conseguente futuro di adulto più o meno realizzato e benestante, dipende dai geni o dagli insegnanti? Dal suo “destino” o dagli incontri lungo le strade della vita? Messa così la questione è mal posta, dicono i due studiosi. E provano a riscriverla all’incirca in questo modo: se è vero (dati alla mano) che ciascuno di noi arriva ai banchi di scuola con un patrimonio genetico differente, far finta di non saperlo e somministrare a tutti lo stesso percorso educativo, non complica le cose anziché renderle più giuste? Concludendo: meglio una scuola “geneticamente personalizzata” (non c’è già la medicina personalizzata?), che offra un insegnamento differenziato e consenta a ogni scolaro, pure al più fragile, di sviluppare il suo potenziale e dribblare le debolezze. E ora che i genetisti lavorino gomito a gomito coi pedagogisti e coi politici, insomma. Perché l’istruzione universale accresce sì il rendimento medio, ma mette in risalto ciò che rende unico ogni bambino. Perché i geni determinano l’80% delle differenze tra chi impara a leggere e scrivere in fretta e volentieri e chi proprio no, nonché il 60-70% di quelle tra chi si diverte a far di conto e chi considera la matematica una jattura senza senso. Ma, a sorpresa, solo un 50-60% è responsabile delle performance nelle scienze naturali. Ed è genetico anche il QI: ma, provocazione nella provocazione, non è importante misurarlo in tenera età, per magari spedire l’adorato rampollo in una costosa (e spesso inutile) scuola per superdotati, perché il QI è mutevole a seconda dell’età e delle esperienze, tant’è che negli anni dell’asilo i geni spiegano appena il 20- 30% delle sue differenze. Dunque può essere invece un elemento di delusione e frustrazione, e in più s’intreccia con altri fattori parzialmente genetici, l’autostima, l’autoefficacia, lo status socioeconomico di mamma e papà (i geni sono responsabili del 40% delle differenze professionali e retributive tra le persone). In realtà, se leggiamo meglio come e perché Asbury-Plomin infrangono alcuni sacri tabù della modernità, come il cordone sanitario che separa genetica e istruzione (a noi europei tornano in mente derive naziste), o il mantra siamo-tutti-uguali-per-la-scuola-dell’obbligo (eccettuati, ovvio, i bambini con bisogni speciali, definizione che i due trovano però urticante, tutti noi abbiamo avuto, via via nell’iter scolastico, dei bisogni speciali, per lo più insoddisfatti), ecco che ci accorgiamo di un paio di cose. I geni a scuola non scrivono un destino immutabile (e del resto non lo fanno genitori, fratelli, sorelle e maestri), spiegano “solo” che Pierino potrebbe sudare sui quaderni più del compagno di banco, che forse potrebbe essere dislessico (un recente studio italiano parla di un deficit visivo e una mutazione del gene DCDC2). Quindi, calcolare bene le stime di ereditabilità di Pierino, e dei suoi amici, potrebbe essere il migliore, e l’unico, indice di uguaglianza scolastica. Questo paradossalmente fa sì che la scuola, dunque il fattore ambientale, riacquisti importanza rispetto ai geni. Già, perché i geni interessano le abilità scolastiche (una ricerca inglese dice di circa il 60%), ma poi queste subiscono le influenze dell’educazione. QI e buoni voti non sono la stessa cosa ma si nutrono l’uno degli altri, un po’ come natura & cultura. Ovvero, i due punti dell’eterna contesa tra deterministi genetici e deterministi ambientali. Altro che eugenetica: si tratta, semplicemente, di segnalare che la cultura trasmessa e l’ambiente scelto, persino le favole lette la sera prima della nanna, dovrebbero tener conto dell’eredità genetica di un bimbo. E che i maestri, di ogni allievo, non dovrebbero monitorare solo temi e operazioni, bensì anche l’autostima (i geni della fiducia in se stessi influenzerebbero la pagella in modo congiunto ma anche disgiunto dai geni da cui dipende il QI). «Geni/ambiente? La questione non è risolvibile una volta per tutte, ma prendo atto che qualcuno ha il coraggio di affrontarla. Il mio timore, davanti a questi studi, è però che risultino ansiogeni per genitori e insegnanti», prende le distanze Emanuela Maria Confalonieri, professoressa di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione dell’Università Cattolica di Milano. Che spiega: «Prima bisogna capire cosa vogliamo intendere con esperienza scolastica: l’apprendimento? Non basta, ci deve essere anche la crescita, dunque l’occasione di poter sviluppare non solo la predisposizione genetica, ma anche la sensibilità, il benessere. E se l’obiettivo è la crescita, dobbiamo piuttosto tener presente lo sviluppo neurologico; studi recenti ci dicono che alcune aree del cervello degli adolescenti si sviluppano più tardi. Sono poi contraria agli apprendimenti individualizzati perché temo che diano troppa importanza al singolo alunno, piuttosto che al contesto. Certo, l’eredità genetica non è modificabile, lo sono scuola e famiglia, ma tutto ciò che cosa aggiunge? Ragionare su una scuola che riesca a far sì che il singolo sviluppi le competenze genetiche porta con sé un discorso economico, che però nulla ha che fare con la maturità dello studente». Già, il discorso economico. Asbury e Plomin sognano insegnanti di sostegno a partire dalla prima infanzia, asili di qualità, scuole con abbondanza di materie a scelta, supporti tecnologici con programmi differenziati, edifici scolastici simili a campus per accogliere classi che si compongono e sfaldano seguendo più le predisposizioni che le età, un tutor-avvocato informato sui fatti che controlli il profilo di ogni studente dall’età del Lego a quella del motorino. Sostanzialmente dicono che una scuola sensibile alla genetica costa molto (ed è assai burocratizzata, aggiungono i detrattori) ma alla fine è remunerativa, consente un pieno sfruttamento di ogni talento ed elimina sacche di disoccupazione, violenza, depressione... Daniele Checchi, docente di economia politica dell’Università degli Studi di Milano, si è spesso occupato dei “soldi della scuola” e ha spesso detto che, oggi come oggi, in una terza media italiana è più il ceto che la competenza a determinare la scelta della scuola superiore. «Resto dubbioso: che differenza c’è tra un ragazzo svogliato e uno geneticamente svantaggiato? E pensiamo alla più genetica delle doti, la bellezza: non è forse influenzata dalla disponibilità di spesa?». Riprende: «La scuola dell’obbligo deve offrire le competenze di base a tutti, e avvalersi della compresenza di più insegnanti. La secondaria deve stare attenta a non scivolare nei “saperi pratici” di gelminiana memoria. Non mi si fraintenda, voglio dire che l’apprendimento personalizzato, e differenziato, deve partire dai 16 anni. Prima, le scelte le fanno i genitori e non i ragazzi. Più o meno genetico che sia il mix tra istruzione, reddito e prestigio sociale, alla fine ciò che conta di più è l’istruzione». Aggiunge: «Visto che parliamo di differenze individuali, un buon approccio potrebbe essere semmai quello di certificare le conoscenze e le esperienze extrascolari, con nuove scale di valutazione: il saper cooperare con gli altri non è una “materia” certificata, eppure il mondo del lavoro la premia. Così come la creatività». Asbury e Plomin, buoni anglosassoni, hanno infine pronta la provocazione più pragmatica. Prendiamo l’educazione fisica: persino il più talebano dei sostenitori dell’istruzione “a prescindere” dal patrimonio genetico di partenza ammetterà che è meglio avviare gli altissimi al basket e i minuti alla ginnastica. L’educazione fisica potrebbe e dovrebbe essere insegnata in modo “geneticamente responsabile”, tenendo conto che l’influenza scolastica, se si parla di amore per lo sport, è alta nei bambini e dai 15 anni declina fino a zero. È a questo punto che i geni pesano fino al 75%. Come dire: l’ora standard di ginnastica va bene per i piccoli, poi, prima che i geni prevalgano, meglio promuovere il piacere individuale e un’attività “su misura”. Non è detto che tutti gli adolescenti abbiano voglia di tirare calci a un pallone, qualcuno potrebbe preferire la danza. Tenendo presente che un corpo in forma è ereditabile ma non geneticamente determinato, ciò aiuterebbe a contenere i costi di sovrappeso, fumo, sedentarietà. Confalonieri scuote la testa: «Il vero problema è la fisiologia della disaffezione dell’adolescente. Che si trova a tentare di far pace col suo corpo, con cui si deve presentare al mondo».