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 2015  febbraio 19 Giovedì calendario

PROGRAMMATI PER COMPRARE


Viviamo circondati dalla pubblicità: per strada, in televisione e sempre di più su Internet. Inserti pubblicitari in cima alla pagina, finestre che si aprono automaticamente sullo schermo, video che partono da soli; si stima che nel nostro campo visivo entrino ogni giorno oltre 10.000 marche, soprattutto sotto forma di spot pubblicitari. È nelle cinque ore che passiamo in media ogni giorno davanti allo schermo di Internet o della televisione che ci viene proposta, o meglio imposta, buona parte di questa pubblicità. Evidentemente non prestiamo attenzione a tutti questi messaggi, ma numerose ricerche mostrano che anche la pubblicità che non degniamo di uno sguardo e ci sembra di dimenticare immediatamente esercita effetti di cui non ci accorgiamo, ma che favoriscono l’acquisto delle marche in questione. Di fronte all’abbondanza di messaggi pubblicitari, per cui di solito non abbiamo alcun interesse, quando navighiamo in Internet mettiamo in atto strategie di percezione ed elaborazione selettiva delle informazioni, che ci inducono a non guardare affatto la pubblicità o a prestarvi pochissima attenzione. Ma anche quando non guardiamo i banner che compaiono sullo schermo, questi entrano nel nostro campo visivo senza arrivare alla nostra coscienza e senza che ne identifichiamo chiaramente gli autori. Ma è possibile che anche così lascino tracce nella nostra memoria? E soprattutto, riescono comunque a influenzare le nostre intenzioni d’acquisto?
Visione periferica
Per rispondere a queste domande abbiamo realizzato un primo studio, con volontari che dovevano leggere testi su un sito web mentre nella parte superiore dello schermo, alla periferia del loro campo visivo, comparivano inserti pubblicitari che presentavano marche inedite – i nostri banner sperimentali. Per assicurarci che i banner comparissero solo alla periferia del campo visivo seguivamo in tempo reale i movimenti saccadici degli occhi dei partecipanti, grazie a una telecamera che li registrava e li trasmetteva a un computer (sistema di tracciamento oculare). Non appena il soggetto smetteva di leggere e i suoi occhi andavano al banner pubblicitario, il sistema informatico lo faceva istantaneamente sparire per sostituirlo con un banner non pertinente, e non considerato nei test successivi. Il metodo garantisce che i banner dei quali si cerca di misurare l’effetto siano effettivamente percepiti con la visione periferica e non con quella centrale, dove si focalizza l’attenzione. Le informazioni percepite con la visione periferica sono generalmente trattate secondo una modalità non consapevole: il cervello può percepirle, e memorizzarne certi aspetti, senza che la persona se ne renda conto. La distanza dei banner dal punto in cui si fissava lo sguardo – quando apparivano – era sufficiente a impedire ai partecipanti di riconoscerli; infatti quando li si presentava loro qualche minuto dopo l’esperimento dicevano di non averli mai visti. Questo genere di situazione è frequente nella vita quotidiana: per la strada o in un negozio, davanti al televisore o al computer, percepiamo molteplici informazioni o elementi pubblicitari in modalità periferica, e malgrado ciò esercitano comunque un’influenza su di noi. È importante dunque valutare questa influenza. Nella situazione sperimentale da noi realizzata, se alcuni elementi presenti nel banner vengono elaborati dal sistema cognitivo del navigatore si può dire senza grandi rischi d’errore, che ciò avviene in modalità inconsapevole.
Sotto la coscienza
Ecco come si è svolto l’esperimento. Abbiamo chiesto a un gruppo di partecipanti di leggere dei testi su Internet mentre apparivano alcuni banner nel loro campo visivo periferico. Poi abbiamo misurato gli effetti di questi stimoli non consapevolmente percepiti in due diverse condizioni: dopo 15 minuti per una parte dei 247 soggetti, e dopo una settimana per gli altri.
I risultati hanno mostrato resistenza di effetti inconsci favorevoli alle marche che figuravano sui banner sperimentali. Gli effetti erano tanto più pronunciati quanto più le pubblicità erano ripetute: quando le presentavamo 15 volte i soggetti le trovavano più gradevoli, ed esprimevano l’intenzione di acquistare i relativi prodotti molto più che se vi erano stati esposti solo cinque volte. Le pubblicità ripetute 15 volte avevano lasciato tracce nella memoria 15 minuti dopo l’esposizione e parte di quelle tracce era ancora presente una settimana dopo.
Le nostre osservazioni vanno ad aggiungersi a precedenti ricerche, secondo cui la percezione inconscia dei messaggi pubblicitari può attivare in modo automatico reti di rappresentazioni e stati d’animo legati a marchi già presenti in memoria. Per esempio, in una persona che veda inconsapevolmente la pubblicità di una marca di bevanda gassata si attivano autonomamente rappresentazioni mentali legate a questo tipo di bevande. Questo tipo di processi automatici è fatto di attività non coscienti, che non consumano l’attenzione e sono inaccessibili all’esperienza soggettiva. Sono involontari, rapidi e insopprimibili – una volta lanciati, non è possibile modificarli. Nel quadro della percezione inconsapevole, se queste attivazioni automatiche si ripetono, avranno in particolare la conseguenza di far apprezzare di più una marca e di aumentare la probabilità che in seguito venga preferita a quelle concorrenti.

Un senso di familiarità
Che succede quando siamo esposti a questo tipo di pubblicità? Prendiamo il caso di una marca nuova e ancora sconosciuta, la cui pubblicità appaia a più riprese nel campo visivo periferico. Secondo gli psicologi, se una persona ha molteplici contatti sensoriali con il logo della marca, quella forma – come disegno o come rappresentazione – viene immagazzinata nella sua memoria senza che se ne renda conto. In un secondo momento, quando entra di nuovo in contatto con quella marca (per esempio, in una situazione d’acquisto), il logo immagazzinato in memoria si attiva automaticamente senza che il soggetto ne sia cosciente. Dato che esiste già una traccia costituita in memoria, il sistema percettivo, al di sotto della coscienza del soggetto, elabora la marca nel negozio assai più rapidamente. Si parla di un effetto di fluidità percettiva: la percezione è resa più rapida e naturale dal fatto che c’è già una rappresentazione mentale sottostante della forma o del disegno del logo. La fluidità percettiva porterebbe con sé un senso di familiarità verso quella marca.
George Mandler, psicologo dell’Università della California a San Diego, è stato fra i primi a spiegare il processo che c’è sotto questo meccanismo: nel momento in cui si fa un’opinione su una marca, e decide se comprare o no il prodotto, il consumatore commetterebbe quello che si chiama un errore di attribuzione: in altre parole, il consumatore crede che l’attrazione che sente verso la marca – che deriva dalla fluidità percettiva – sia dovuta ad alcune caratteristiche obiettive della marca stessa (buona qualità, probabile solidità del prodotto e così via). Il gioco dei meccanismi cognitivi fa sì che il consumatore dia dei giudizi e decida di acquistare il prodotto unicamente a causa della facilità con cui avviene l’elaborazione dell’informazione quando entra in contatto con quella marca.
Effetti persistenti
Un altro tipo di influenza di cui non siamo consapevoli riguarda la pubblicità appena intravista e subito dimenticata. Quando il soggetto è in qualche misura cosciente di vedere una pubblicità ne conserva una traccia mnemonica, usata dal sistema cognitivo per formare giudizi spesso favorevoli alla marca in questione. Questo tipo di influenza è all’opera soprattutto nella pubblicità presentata nelle finestre pop-up che compaiono su Internet.
Per mostrare questo meccanismo abbiamo messo a punto una procedura sperimentale. Mentre alcuni volontari navigavano in Internet, apparivano tre finestre pop-up relative a una nuova marca, per tre secondi, in quattro diversi momenti. La prima finestra conteneva soltanto il logo della marca. La seconda presentava un’immagine del prodotto commercializzato. La terza finestra presentava a grandi lettere, insieme al logo, il nome del prodotto. Gli effetti dell’esposizione a questa forma di pubblicità sono stati misurati, per una parte dei partecipanti, dopo sette giorni, e per gli altri dopo tre mesi. Nessuno dei 400 volontari coinvolti si è ricordato di aver già visto quella marca o la relativa pubblicità. Per capire quale traccia inconsapevole avessero lasciato le finestre pop-up abbiamo misurato, al millisecondo, il tempo impiegato da queste persone a emettere un’opinione sulla marca.
Reti semantiche
Quando una finestra pop-up presenta il logo della marca insieme a un’immagine del prodotto, le intenzioni d’acquisto aumentano e i soggetti apprezzano maggiormente quella marca. Al contrario, quando la finestra contiene il logo accompagnato dal nome del prodotto scritto a grandi lettere, il soggetto memorizza meglio il legame tra il nome della marca e il prodotto commercializzato. Nella pubblicità su Internet, dunque, immagini e nomi funzionerebbero in maniera diversa: le immagini avrebbero effetti di tipo emotivo, e spingerebbero di più all’acquisto, mentre le parole avrebbero effetti semantici più forti, in particolare nella costruzione dell’immagine della marca. Pensiamo che la proiezione rapida delle parole faccia scattare una lettura automatica e inevitabile, più o meno cosciente, che conduce ad associare nella memoria una determinata marca a un certo tipo di prodotti. Dopo ripetute esposizioni all’associazione tra il logo di una marca e il nome di un prodotto si creano alcune reti semantiche che rafforzano i legami tra i due stimoli nella memoria. Nella nostra mente, a livello inconsapevole, si stabilisce un rapporto tra marca e prodotto. Successivamente, un contatto con il prodotto in questione – magari esposto sullo scaffale del supermercato – attiva più facilmente la rappresentazione semantica della relativa marca. Il tempo che i soggetti impiegano a riconoscere un marchio ne misura l’accessibilità alla mente degli stessi. Quando un cliente arriva in un certo settore del supermercato, il fatto di pensare a una determinata marca mezzo secondo prima che a un’altra può essere lo stimolo che fa decidere di comprare. Se le parole danno luogo a quella che viene detta fluidità concettuale – ossia familiarità del concetto associato alla parola – per le immagini non è la stessa cosa. L’immagine viene elaborata in modo più globale delle parole e, non essendo tradotta in parole nella testa dello spettatore, dà luogo a una minore fluidità concettuale. D’altra parte, è probabile che associando un’immagine a una marca la pubblicità sviluppi soprattutto la fluidità percettiva: nel vedere in negozio un determinato prodotto si ha una percezione più facile, unita a una sensazione di fluidità percettiva e familiarità. Nel nostro esperimento le persone esposte a finestre pop-up che mischiavano immagine e logo delle marche apprezzavano di più la marca, la trovavano di migliore qualità e mostravano un’intenzione maggiore di acquistarla. E tutto ciò anche tre mesi dopo la fase di esposizione.

Atteggiamento indotto
Gli effetti inconsapevoli della pubblicità operano sia sulla fluidità percettiva sia sulla fluidità concettuale. Quest’ultima attiva automaticamente elementi semantici associati nella memoria alla marca. Così quando si entra, per esempio, nel settore bevande di un supermercato, ciò darebbe luogo a una preattivazione – si parla a questo proposito anche di innesco – e quella marca di bevande diventa più accessibile in memoria, anche se ancora non ce l’abbiamo sotto gli occhi. E, quando poi la scorgiamo sullo scaffale tendiamo a sceglierla, visto che è più familiare.
La fluidità percettiva influisce soprattutto sui giudizi e sui processi decisionali al momento della scelta, per esempio fra i banchi del supermercato. La fluidità concettuale esercita poi i suoi effetti quando il consumatore fa una scelta senza avere sott’occhio un determinato marchio. Secondo la teoria della memoria di Endel Tulving, l’elaborazione percettiva si svolge a un livello più superficiale dell’elaborazione concettuale. Non è detto dunque che per una certa marca la fluidità percettiva sia necessariamente accompagnata da quella concettuale. Ma la fluidità concettuale, quando c’è, è sempre accompagnata dalla fluidità percettiva.
I due tipi di fluidità, percettiva e concettuale, che vengono a stabilirsi con l’esposizione ai messaggi pubblicitari, informano sull’atteggiamento del consumatore verso una determinata marca e anche sulle sue intenzioni d’acquisto.
Più in generale, l’influenza inconscia esercitata dalla pubblicità ci spinge a interrogarci sul tipo di società in cui desideriamo vivere. La questione è resa più seria dal fatto che certi effetti di cui non siamo consapevoli sembrano essere più forti di quelli di cui ci rendiamo conto. Quale può essere il ruolo dei ricercatori in questo contesto?

Capire per resistere
Nella nostra pratica quotidiana di ricercatori ci sforziamo in primo luogo di chiarire i processi in atto nella ricezione della pubblicità. Al di là di questo, però, si tratta di trasmettere ai consumatori le chiavi del funzionamento della pubblicità, partendo dal principio che in una democrazia tutti hanno diritto di sapere se c’è qualcuno che sta cercando di influenzarli, e in che modo.
Una persona che conosca bene le tecniche di condizionamento che sfuggono alla coscienza può cercare di attenuarne l’impatto. Se ritiene di essere stata indirizzata a sua insaputa verso l’acquisto di questa o quella marca può correggere la sua scelta iniziale concentrandosi su una riflessione razionale che tenga conto di qualità, prezzo, resistenza, condizioni di produzione e così via.
Si noti che in certe situazioni si può correggere in modo eccessivo, tanto da assumere un atteggiamento opposto. Si tratta dell’effetto di contrasto, messo in evidenza soprattutto da Joan Meyers-Levy, psicologa dell’Università di Chicago, che ha dimostrato che se un consumatore si rende conto di apprezzare una marca solo perché ricorda di essersi trovato in uno stato emotivo positivo la prima volta che l’ha vista in televisione, potrebbe addirittura capovolgere volontariamente il proprio giudizio e valutare negativamente la marca.
Più in generale, questi effetti di correzione fanno parte del più largo insieme degli «effetti di reattanza» che si osservano quando una persona tenta di recuperare una maggior libertà di decisione dopo essersi accorta di aver subito una manipolazione. In futuro, se tutti prenderanno coscienza dell’enorme potere esercitato dalla pubblicità sui nostri comportamenti d’acquisto, le tecniche pubblicitarie che puntano ad aggirare i nostri criteri razionali di giudizio potrebbero subire seri contraccolpi.