Alessandra Ravetta, Prima 1/2015, 18 febbraio 2015
IL FUTURO È NELLE NOSTRE MANI
[Mario Calabresi]
Con questo ragazzone quarantaquattrenne che da cinque anni pilota quell’astronave chiamata La Stampa, uno ci casca sempre: entri nel quartiere di San Salvario, ti fermi al 15 di Via Lugaro, varchi la soglia della redazione disegnata da Mario Roj, ti consegni all’astronave e ti ripeti le domande che hai in testa di imporre (tipo: cosa sta succedendo della sinergia tra Il Secolo XIX e La Stampa, come hanno reagito le due redazioni, quali sviluppi avrà, su, dica la verità, Calabresi, non meni il can per l’aia), ma Mario Calabresi, subito dopo i saluti rituali, ti sopravanza con un discorso che hai l’impressione non c’entri niente con quello che volevi tu, tanto che pensi di aver sprecato soldi e tempo. Basta una manciata di minuti per capire che non solo hai fatto bene a salire sul Milano-Torino e a programmare l’intervista, ma che, lasciandolo libero di raccontare e ragionare, si apre un vaso di Pandora che trabocca di materia preziosa. Scopri che quel che preme a Calabresi non è solo salvare un mestiere dall’imbastardimento, ma anche modernizzarlo senza che perda la bellezza che gli è propria. Hai dunque appena fatto in tempo ad accendere il registratore che quello, animato da una passionalità che i direttori, soprattutto quelli di grandi testate, raramente esibiscono, allarga gli occhi già grandi e ti dice preoccupato: “Mi dica un po’ lei, come ci salviamo”.
Prima - Da cosa ci dobbiamo salvare?
Mario Calabresi - Ma non sente che tutti dicono e ripetono che siamo morti? Dovrebbe esserci una chiamata alle armi, ma ognuno continua a occuparsi solo del proprio orticello.
Prima - Ho l’impressione che lei stia parlando a nuora perché suocera intenda. Ha problemi con la redazione dopo il gemellaggio del Secolo XIX con La Stampa?
M. Calabresi - Nient’affatto! Qui dentro, mi creda, c’è molto meno conservatorismo che in altre testate. Ed è stato capito benissimo che la fusione tra Stampa e Secolo è un progetto proprio per reagire e affrontare il futuro. Unire le forze di due giornali per coprire un vasto territorio su cui sperimentare non solo un nuovo modo di fare informazione, ma anche iniziative di mercato in cui il brand del giornale traina altri business.
Prima - E allora cosa la preoccupa?
M. Calabresi - Fuori dall’Italia si è accesa una discussione molto ampia nel mondo dell’editoria su cosa e come facciamo e su dove andiamo, mentre da noi i giornali scrivono e ripetono tutti i giorni che il mondo è cambiato, eppure il nostro, di mondo, resta pietrificato negli anni Cinquanta o Sessanta o, al massimo, Settanta.
Prima - Credo che lei esageri e non consideri che anche da noi vi sia qualcuno attento alle mutazioni vere e non solo ad astratte riflessioni accademiche. Le aziende editoriali saranno pure in difficoltà, ma di innovazione in giro se ne vede.
M. Calabresi - Quel che sostengo è che a me pare che nell’editoria italiana non ci sia un dibattito vero, e per vero intendo robusto e approfondito. Prenda la distribuzione: le edicole stanno chiudendo, le Poste sono uno strumento a cui non puoi più affidare la consegna dei giornali. Ci sono luoghi in cui è letteralmente impossibile far arrivare un giornale, paesini dove non c’è più un’edicola, dove non c’è più un negozio, che poi sono gli stessi dove non arriva la banda larga che permette di scaricare la versione digitale in maniera decente. Non voglio fare il catastrofico né il fenomeno, ma continuo a pensare che da noi non si discuta seriamente sulla nostra sorte, se questi modelli sono ancora sostenibili per il numero di copie che si vendono. La vera domanda che dobbiamo porci è del resto semplice: cosa possiamo fare, tutti insieme per garantirci un futuro?
Prima - Sento nel suo tono una certa urgenza che condivido. Ma anche un’ansia che invece non capisco.
M. Calabresi - Non fatico a confessarle che ultimamente un paio di cose dell’ecosistema dell’informazione mi hanno piuttosto scosso. Qualche tempo fa si diceva che il giornalismo tradizionale sarebbe presto defunto e che l’assassino fosse il citizen journalism. Roba alla quale, lei me ne è testimone perché ne abbiamo già parlato altre volte, non ho mai creduto.
Prima - Che però il giornalismo diffuso sia entrato in scena non è proprio un dato da trascurare.
M. Calabresi - Né io lo faccio. Dico che, spesso, si tratta di materiale di scarto. Le faccio un esempio. Qualche settimana fa a Cuneo girava la notizia - ampiamente diffusa e ripetuta dai social - che in un condominio ci fosse stata una misteriosa strage di cani e se ne faceva anche il numero: ben diciassette. Alla fine la nostra redazione locale, sia pure con qualche ritardo, manda un cronista a verificare. Risultato: tutte balle. Non c’era nemmeno un cane morto. Si trattava di una leggenda metropolitana, su cui peraltro Michele Brambilla ha da poco scritto un pezzo molto divertente.
Prima - Se mi sta dicendo che non dobbiamo abboccare a tutto quel che passa la Rete, l’avverto che questo già lo sapevamo.
M. Calabresi - Volevo solo ribadire quanto il giornalista che indaga sia ancora una figura insostituibile. Prendiamo la strage al supermarket kashèr di Parigi. È stato Cesare Martinetti, firma storica del nostro giornale, che tra l’altro è in pensione, ad avere messo a segno lo scoop in cui si rivelava che Amedy Coulibaly aveva in testa qualcosa di più atroce, e cioè un massacro all’asilo ebraico. Come l’ha scoperto, il bravo Martinetti? Andando nella sinagoga centrale dove ha intercettato il racconto di uno dei sequestrati del supermarket che aveva riportato una confessione dell’attentatore durante le ore del sequestro, e che cioè il giorno prima aveva preso di mira l’asilo ebraico ma che, mentre parcheggiava lì davanti, una macchina l’ha tamponato, è arrivata una giovane vigilessa, quello si è fatto prendere dal panico, l’ha ammazzata e si è dato alla fuga. Insomma, lo scoop di Martinetti è figlio del vecchio magnifico mestiere: taccuino in mano, gambe in spalla e via andare.
Le ho portato due esempi - uno locale e quasi ridicolo, l’altro mondiale e tragico - per dirle che su questo dobbiamo continuare a fondare il nostro lavoro e impegnare le nostre risorse. La verità è che bisogna sguinzagliare di nuovo i giornalisti, farli girare, interessarli alla vita, perché è in ballo non solo il nostro futuro professionale, ma anche la bellezza del nostro lavoro.
Prima - Riconosciuto questo, mi dica come si misura la sua testata con il digitale.
M. Calabresi - Continuo a pensare e a dire che il digitale va interpretato in altro modo, che deve essere un giornalismo più agile, multimediale. Negli Stati Uniti si sta sperimentando molto e questo al di là delle organizzazioni digitali ormai tradizionali come l’Huffington Post, Politico, Vice News o BuzzFeed. Sono per esempio entrati in scena fenomeni a noi sconosciuti, come Syria Deeply ed Ebola Deeply editi da una ong. I fondatori sono Lara Setrakian e Azeo Fables, una giornalista e un fotografo, che su quei due temi forniscono notizie approfondite e affidabili, tanto da essere ormai considerati la Bibbia in entrambi i campi. Li ho da poco incontrati a New York e ho chiesto loro come facessero a tenere in piedi una baracca concentrata sul principio della verticalità e che viene costantemente aggiornata con numeri, fatti, commenti autorevoli, interviste, studi, immagini, video e chi più ne ha più ne metta, ma senza far pagare niente all’utente.
Prima - E quelli che le hanno risposto?
M. Calabresi - Che se sei capace di veicolare il tuo prodotto alla gente giusta, gente che ne ha bisogno, l’informazione è un valore. Infatti ogni mattina producono una newsletter per un numero sempre più consistente di abbonati - assicurazioni, banche, compagnie di trasporto, industrie del cioccolato e del caffè e via dicendo - a cui offrono, a seconda degli interessi degli iscritti, un notiziario preciso e unico tanto sulla vicenda siriana che su quella di Ebola.
Prima - Un prodotto verticale come il vostro Vatican Insider, che mi pare sia decollato.
M. Calabresi - Sì, tanto che Vatican Insider ha cominciato a segnare un bilancio sia pure modesto ma in attivo. Quel che mi pare evidente è che se una ong riesce a portarci via l’eccellenza, allora dobbiamo renderci conto che non viviamo più in un regime di monopolio informativo, che dobbiamo correre, che il web non sta lì ad aspettare. Se uno pensa che la stima della pubblicità in Italia di Google è oggi a un miliardo e 200 milioni, pari cioè alla pubblicità di tutti i giornali e periodici messi insieme, capisce il perché delle lacrime delle nostre concessionarie. Adesso che anche l’informazione, e parlo di informazione di qualità e non di fuffa, iniziano a farla altri, abbiamo solo una possibilità, che è quella di correre, proporre prodotti verticali, utilizzare il nostro sapere in modo nuovo, convincerci che quello che hai visto e sentito non muore in un giorno ma può essere utilizzato per fare, per esempio, prodotti educational. Con questo non voglio fare il mestiere di un altro, ma rimettere al centro quello che noi sappiamo fare bene e offrirlo nel migliore dei modi.
Prima - E qui arriviamo alla ragione che mi ha portata qui a Torino e che ben si lega a tutto ciò che mi sta raccontando: la sinergia Il Secolo XIX e La Stampa sotto la nuova/vecchia azienda Itedi (Italiana Edizioni spa), la holding di Fiat che un tempo gestiva le attività editoriali e che è stata resuscitata per la bisogna.
M. Calabresi - Come del resto avete già scritto, si tratta della prima vera operazione di sinergia. Siamo partiti da due realtà: una di eccellenza regionale che però non reggeva più, né come conti né come forze per far bene la cronaca regionale, gli esteri, l’economia, eccetera, e l’altra, più ampia, con un venduto che oscilla attorno alle 200mila copie. Quel che ci si chiedeva era se fosse ragionevole mantenere gli uffici di corrispondenza, una ventina di articolo 1 più collaboratori, una trentina di persone a Roma e una decina a Milano.
Prima - Una risposta alla fine ve la siete dati.
M. Calabresi - Certo. Del resto non potevamo contare su una presunta ripresa dell’economia, su un ritorno degli investimenti pubblicitari. Se e quando la crisi finisce, se la pubblicità torna, è sicuro che andrà su Google, sui canali di Discovery, su Sky: soggetti in grado di vendere fasce di pubblico, mentre noi vendiamo degli indistinti. Oggi si parla tanto di big data, mentre basterebbero degli small data, ma fatti bene.
Prima - Ma torniamo a voi. A che punto siete?
M. Calabresi - Il lavoro condiviso marcia già senza intoppi. I risultati saranno visibili sul Secolo in edicola il 2 febbraio con il nuovo formato, uguale a quello della Stampa, più piccolo di quello attuale, ma con otto pagine in più. E offrendo soprattutto un prodotto più ricco grazie a quella che a me pare essere una vera e grande opportunità, avere cioè a disposizione un menu di tutto ciò che La Stampa produce sul nazionale e sull’internazionale. Da quel menu la redazione genovese può pescare ciò che a loro interessa di più. Méthode (il sistema editoriale prodotto da Eidos Media: ndr) ha allestito un bacino comune dove convergono le storie: quando un pezzo è finito e titolato con tanto di foto è lì che va a finire, e se a loro interessa, lo possono ripescare e pubblicare.
Prima - Ma non temete un giornale fotocopia?
M. Calabresi - Nient’affatto. Faccio un esempio: un giorno noi della Stampa produciamo sei pezzi da Parigi e loro decidono di prenderne un paio, ma è ovvio che sono del tutto autonomi e possono produrre loro stessi quel che vogliono e chiedere ai corrispondenti pezzi precisi per loro. Marco Zatterin, nostro fenomenale corrispondente da Bruxelles, può produrre moltissimo materiale che non ha niente a che fare con La Stampa, ma di grande interesse per Il Secolo: notizie su porti, commercio, olio, alimentari, trasporti, turismo. Lo stesso dicasi per Maurizio Molinari, che ha una grande esperienza sul canale di Suez e sul traffico navale tra Cina ed Europa. Capisce, le risorse di cui possono disporre e che non sono per niente una fotocopia di quel che facciamo noi? E per La Stampa tutto quel che è Liguria viene originato direttamente da loro, con una competenza che nessun altro può vantare. I loro per altro eccellenti inviati potranno essere utilizzati anche da noi. I giornalisti ora non sono più della Stampa o del Secolo XIX, ma dell’Itedi, la rinnovata società editoriale.
Prima - Già un matrimonio tra due persone non è impresa facile, ora non mi vorrà far credere che quello tra due testate lo sia.
M. Calabresi - Ed è per questo che abbiamo previsto un periodo di rodaggio. Dobbiamo conoscerci, anche di persona. Capirci. Parlarci. Ai primi di febbraio il nostro Luca Ubaldeschi si piazza da loro e ci sarà un bel via vai tra Genova e Torino, perché abbiamo un gran bisogno di rimescolarci. Alcuni di noi andranno al Secolo, alcuni di loro sono già qui in redazione.
Prima - Il punto forse più delicato è cosa farete nel Ponente ligure, dove Secolo e Stampa sono stati concorrenti senza esclusione di colpi. Sento dire che potenzierete la squadra di Sanremo, mollando Imperia.
M. Calabresi - Abbiamo deciso di fare due redazioni uniche, ma non due prodotti uguali: una a Savona e una a Sanremo, mentre a Imperia terremo un ufficio di appoggio per il tribunale e la questura. Del resto Imperia è un’invenzione d’epoca fascista che volle mettere insieme Porto Maurizio e Oneglia, mentre Sanremo ha una sua identità molto precisa. Ne abbiamo concluso che è meglio stare dove c’è più giornalismo. Poi c’è Savona, l’unico posto dove c’è una vera sovrapposizione: noi con 9mila copie e loro con 6mila.
Prima - E allora, a Savona che succede?
M. Calabresi - In un primo tempo avevamo pensato di fare un unico prodotto, ma poi ci hanno fatto capire che sarebbe stato un errore, perché a Savona La Stampa è vissuta come una testata istituzionale e amata per questo. Il Secolo è più aggressivo. Allora abbiamo deciso di fare una scommessa: c’è un unico caporedattore - in questo caso lo stesso che era del Secolo - mentre a Sanremo il caporedattore è quello della Stampa.
Prima - Avete dunque riformulato un piano di armonizzazione delle forze redazionali?
M. Calabresi - Su tutti gli eventi obbligati - un incidente, una conferenza stampa, eccetera - porteremo una persona sola, ma rimarranno differenze tra le due edizioni: il lettore di Savona ha sempre guardato a Genova, i lettori di Ponente sono più legati a noi.
Prima - La fusione tra le due case editrici nella nuova Itedi che è decollata all’inizio del 2015, tutto questo grande traffico tra le redazioni alla fin dei conti che vantaggi comporterà?
M. Calabresi - Ci saranno vantaggi economici sul fronte dei costi e dei ricavi e vantaggi per la qualità dell’informazione che produciamo. Tutto dipenderà da quello che saremo capaci di fare. Dalle iniziative commerciali legate ai brand delle testate, a nuovi prodotti sulla carta e on line che interessino nuovi lettori o aziende clienti. Abbiamo a disposizione, quasi da monopolisti, un territorio che va dalla Liguria alla Valle d’Aosta, con tante opportunità da cogliere, moltissimo lavoro da fare. Una cosa da non sottovalutare è lo sforzo fatto anche per salvaguardare gli organici della redazione del Secolo e la potenzialità delle nostre redazioni come quella di Roma, ad esempio.
Prima - Come spiega il fatto che la redazione romana della Stampa sia così, diciamo, ricca?
M. Calabresi - Perché è necessario che lo sia. Se poi uno guarda bene, si accorge che non è la politica a essere predominante. Il Vaticano, oggi più che mai con papa Francesco, occupa molto spazio ed energie. Ma ci sono molti altri settori che sono fondamentali: la sanità, la pubblica istruzione, la cultura. E poi ci occupiamo degli scandali romani, dei ministeri, delle carceri. Quel che insomma interessa direttamente il cittadino e che arriva da Roma senza essere più mera politica nazionale. È nella capitale che si decide tutto, piaccia o non piaccia.
Intervista di Alessandra Ravetta