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 2015  febbraio 18 Mercoledì calendario

LA MIA SETTIMA VITA



È inutile cercare crepe nella personalità granitica di Reinhold Messner: l’alpinista e scalatore altoatesino, uno tra i più forti al mondo, è un montanaro dalla scorza dura, apparentemente indistruttibile. Messner è l’uomo che non deve chiedere mai, perché ha già avuto tutto. Si è preso tutti gli ottomila della Terra, ben 14, tra cui l’Everest (che nel 1978 scalò senza maschera per l’ossigeno, per la prima volta nella storia dell’alpinismo) e il Nanga Parbat (dove il fratello Günther, compagno di ascensioni, perse la vita nel 1970).
Reinhold Messner oggi, a settantanni, ha ancora voglia di impegnarsi in nuove sfide. Pochi mesi fa, a New York, ospite dell’American Alpine Club e di Adidas, sponsor dell’evento, ha raccontato la sua vita spinta ai limiti in un’affollata sala conferenze su Park Avenue, di fronte a una platea di arrampicatori e alpinisti.
Prima del tour americano per promuovere la versione anglofona del suo libro – La mia vita al limite (My Life at the Limit), appunto – abbiamo conversato con lui nel salotto dell’hotel Mont-Blanc di Chamonix. «Mi hanno invitato qui per una serata in ricordo dell’amico Walter Bonatti, che è stato per me un modello di coraggio e di integrità», ha tenuto subito a precisare, dopo aver salutato Hervé Barmasse, astro nascente del nuovo alpinismo valdostano.
«A Bonatti ho dedicato un libro, che esce adesso in Francia, in cui evidenzio le tante cose che ci accomunano (Walter Bonatti. Il fratello che non sapevo di avere, Mondadori, scritto con Sandro Filippini, ndr)», continua Messner. «L’approccio tradizionale alla montagna senza mezzi artificiali, per esempio; la ricerca della solitudine anche nelle situazioni più estreme. E anche le accuse ingiuste che ci sono state rivolte. Come me. Bonatti simboleggia quell’alpinismo tradizionale che sta scomparendo. Perché sta diventando uno sport. Bellissimo, ma solo uno sport: tutto è sicuro, le vie sono preparate, non c’è più il rischio di cadere e il concetto alpinistico dell’esposizione sta morendo.
Perché alpinismo vuol dire andare da soli con la propria responsabilità, ma oggi per salire l’Everest ci sono cinquecento sherpa che ti preparano il percorso. Questo è solo business, turismo».
Al bar dell’hotel ora siede il suo amico Pierre Mazeaud, l’ex alpinista francese ora 85enne che nel 1961 visse sulla propria pelle la tragica ritirata – con Bonatti e altri italiani e francesi (ne morirono quattro) – dal Pilone Centrale del Freney, nel massiccio del Monte Bianco. Messner allarga le braccia e sorride dandosi una grattata alla folta barba da malgaro: «Siamo rimasti solo noi».
Dicono che lei abbia sette vite, come i gatti... «Ho sentito dentro di me la necessità e il coraggio di cambiare sempre vita, di continuo. Quando ero solo un rocciatore, un arrampicatore, a un certo punto ho capito che non sarei potuto andare più in alto di dove ero arrivato. Nel 1970 avevo 25 anni: dopo la salita al Nanga Parbat dalla parete Rupal – che avevo scelto perché si trattava di arrampicare e non di pestare la neve – avevo perso parzialmente le dita dei piedi e non potevo più arrampicare come prima. Ho fatto comunque altre prime ascensioni nelle Dolomiti, ma i dolori mi tormentavano. È stato lì che ho deciso: “Rimango nell’attività in montagna, ma divento un alpinista, uno specialista d’alta quota”. E così sono stato in Sudamerica, Alaska, Africa, ho fatto il Kilimangiaro, gli ottomila, insomma le mie ascensioni alpinistiche».
Ma c’era ancora un altro bivio sulla strada. «Dopo l’Everest mi sono detto che non c’erano altri limiti da superare. Così ho iniziato a fare le traversate dei poli, dei deserti. Poi un incidente al tallone mi ha portato a cambiare vita un’altra volta: mi sono messo a fare degli studi sullo Yeti e sulle montagne sacre, poi mi hanno buttato nel Parlamento europeo (dove fu eletto nel 1999 come indipendente nella lista dei Verdi italiani, ndr)».
Se non ho perso il conto, dovremmo essere arrivati alla sua sesta vita... «Esatto, quella dedicata ai miei musei, cinque grandi spazi espositivi in vari punti del Sudtirolo dove ho cercato di riassumere tutto ciò che ho portato a casa dalle mie esperienze: reliquie, arte, citazioni. Gli ultimi quindici anni li ho dedicati a questo». Il sesto Messner Mountain Museum inaugurerà il prossimo luglio a Plan de Corones, in una struttura progettata da Zaha Hadid.
E poi? «E poi stop. Riparto da zero, passo ai giovani. Anche se un po’ mi dispiace lasciare il peso di questa responsabilità sulle spalle di altri. Mia figlia sembra abbia voglia di occuparsi dei musei, ha fatto le Belle arti e studiato Economia. Mio figlio invece studia Biologia e va in giro per il mondo ad arrampicare. Adesso è in Oman, qualche mese fa è stato in Patagonia».
Messner comunque non si ferma. Dai 75 anni in avanti vede una sua settima vita. «Girerò dei film sulla montagna. Veri film, non documentari. I lungometraggi sul tema che hanno riscosso maggiore successo negli ultimi anni sono terribili.
Vertical Limit di Martin Campbell, per esempio: tremendo. Voglio qualcosa di nuovo, di diverso».
Quando parla di montagna e di alpinismo, Messner è sempre serissimo. Ma non si è divertito almeno un po’ nelle sue ascensioni? «Negli ultimi dieci anni gli alpinisti hanno tentato di parlare solo di fun. Ma nessuno mi può dire che è fun salire su un settemila, da una via nuova e nel mezzo di una bufera. Ecco: di recente ho visto un filmato sull’austriaco Hansjörg Auer, secondo me al momento uno dei più forti alpinisti del mondo. Uno che ha fatto da solo il Pesce sulla parete sud della Marmolada, che è una cosa folle. Be’, nel video lo si vede durante una prima salita su un 7.400 metri, il Kunyang Chhish nel Karakorum, una cima secondaria ma molto bella: lì vedi la suspense, l’insicurezza, la tempesta di ghiaccio, il naso pieno. L’effetto è disturbante, ma ci restituisce un’esperienza sulla natura umana, più che su quella esterna. Prima della conquista del Cervino, di cui si celebra a luglio il centocinquantesimo anniversario, si andava in alta montagna per studiare la pressione dell’aria, c’era un interesse scientifico, oggi per me quello che conta è proprio la natura umana».
E pensare che le ultime vite di Messner sono il frutto di uno scherzo del destino. «Dopo essere sfuggito alla collisione dei ghiacci al Polo Nord e alle tempeste del monte Belucha, in Siberia, finii in trappola a casa mia», racconta. «Di notte, sotto la pioggia. Ero rimasto senza chiavi e i bambini avevano freddo. Mi arrampicai sul muro, scivolai: fratture al tallone destro e rottura del malleolo». La fine delle esplorazioni fisiche, l’inizio di quelle culturali. Domani si vedrà.