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 2015  febbraio 18 Mercoledì calendario

IL DOLORE DELLA GUERRA. PROCESSO ALL’AMERICA

Due giorni prima dell’annuale ceri­mo­nia degli Aca­demy Awards, che si terrà dome­nica sera al Kodak Thea­tre di Hol­ly­wood, alla Lone Star Arena di Ste­phen­ville, 130 chi­lo­me­tri a sud di Dal­las, avranno ini­zio le eli­mi­na­to­rie per quello che il sito della World Series of Team Roping (il cam­pio­nato della disci­plina di rodeo in cui due uomini a cavallo devono immo­bi­liz­zare un vitello il più in fretta pos­si­bile) chiama «il prin­ci­pale evento di cow­boy» e «la terza mani­fe­sta­zione ippica del mondo».
La capi­tale mon­diale del cinema e quella dei cow­boy (così è sopran­no­mi­nata Ste­phen­ville, che ha circa 19.000 abi­tanti); la Cali­for­nia illu­mi­nata e pro­gres­si­sta e il Texas repub­bli­cano più arcaico – due mondi distan­tis­simi uno dall’altro che sono diven­tati i poli sim­bo­lici del dibat­tito cul­tu­rale del momento, quello su Ame­ri­can Sni­per. E due mondi resi più vicini, in que­sta set­ti­mana pre-Oscar, dal pro­cesso al vete­rano accu­sato di aver ucciso Chris Kyle, il famoso cec­chino dalla cui omo­nima auto­bio­gra­fia è stato tratto il film di Clint East­wood.
Molto più in carne nelle foto dall’aula del tri­bu­nale di quanto appa­riva in quelle scat­tate ai tempi dell’arresto, Eddie Ray Routh ha un back­ground non molto diverso da quello di Chris Kyle o dell’altro vete­rano che Routh ha ammaz­zato il 2 feb­braio del 2013, tre giorni dopo che sua madre aveva sup­pli­cato invano uno psi­chia­tra della Vete­ran Admi­ni­stra­tion di Dal­las di rico­ve­rare il figlio per­ché «non costi­tui­sca un peri­colo per sé e per gli altri». Routh non ha negato il dop­pio omi­ci­dio ma davanti al giu­dice si è pro­fes­sato inno­cente, per insa­nità men­tale. Se i 10 giu­rati (8 donne e 2 uomini) gli daranno ragione tra­scor­rerà la sua vita in un mani­co­mio cri­mi­nale, se il ver­detto sarà «col­pe­vole» è l’ergastolo senza pos­si­bi­lità di rila­scio. In uno stato noto­ria­mente for­ca­iolo, il pub­blico mini­stero ha scelto di non chie­dere la pena di morte – nem­meno a lui è sfug­gita la dimen­sione tra­gica, para­dos­sale, del caso.
Ven­ti­sette anni, cre­sciuto in una fami­glia pic­colo bor­ghese del Texas (suo padre lavora con mac­chi­nari da alle­va­mento, la mamma era impie­gata in una scuola ele­men­tare), Routh era uno stu­dente medio­cre che ha deciso di arruo­larsi nei Mari­nes nel 2006. Anche lui, come Kyle, amava molto le armi («gli davi una pistola e sapeva imme­dia­ta­mente come farla fun­zio­nare», rac­conta il padre che lo por­tava a cac­cia da pic­colo, in un lungo repor­tage del New Yorker).
Diver­sa­mente da Kyle, nel suo unico turno in Iraq, Routh non si distinse in modo par­ti­co­lare. Anzi, quando chia­mava a casa, certe volte sem­brava molto tur­bato, hanno rac­con­tato i geni­tori. Quel tur­ba­mento divenne ancora più evi­dente al suo ritorno dal fronte, nel 2009, e comin­ciò a tra­dursi in com­por­ta­menti allar­manti dopo una mis­sione uma­ni­ta­ria ad Haiti dove mari­nes come lui erano distac­cati con i soc­corsi post ter­re­moto. Lasciato il ser­vi­zio mili­tare nel 2011, Routh non riu­sciva a tro­vare un lavoro sta­bile e le crisi di panico si mol­ti­pli­ca­vano, come quelle di paura e di aggressività.
Ogni tanto rac­con­tava di avere delle visioni. La prima visita al cen­tro medico della Vete­ran Admi­ni­stra­tion di Dal­las è dell’estate del 2011 quando suo padre lo accom­pa­gnò per­ché Eddie diceva di avere il verme soli­ta­rio che però i medici non gli tro­va­rono. La prima dia­gnosi di PTSD, il disor­dine da stress post trau­ma­tico, è arri­vata dopo che Eddie aveva minac­ciato di sui­ci­darsi con una Magnum. Ma, dopo tre mesi di rico­vero, il cen­tro medico lo dimet­teva, anche se a casa i geni­tori non nota­rono grandi miglio­ra­menti. Da lì, le crisi non fecero che mol­ti­pli­carsi fino a un nuovo rico­vero, in seguito a un arre­sto, isti­gato da una scena a casa della sua ragazza, nel gen­naio 2013.
Ma quella volta fu man­dato a casa nel giro una set­ti­mana, con una prov­vi­sta di psi­co­far­maci, nono­stante un referto medico che lo defi­niva poten­zial­mente peri­co­loso. «Non riu­sciva a con­durre una con­ver­sa­zione che avesse senso. Pian­geva molto – Mamma mi tieni la mano? Ho paura. Non mi sento bene. Non sto bene», ha rac­con­tato sua madre. È stata lei, nel par­cheg­gio della scuola dove lavo­rava, e dove Chris Kyle si era recato a pren­dere i suoi bam­bini, ad avvi­ci­nare l’ex Navy Seal e a chie­der­gli di aiu­tare suo figlio. Kyle era un eroe nazio­nale, con un’autobiografia best sel­ler e un cen­tro di soste­gno per vete­rani. Anche lui, come Eddie, aveva sof­ferto di PTSD, e pren­deva ancora dosi rego­lari di antidepressivi.
Secondo gli atti del pro­cesso in corso a Ste­phen­ville, non ci volle molto, per Kyle, quel pome­rig­gio del 2 feb­braio, per capire con chi aveva a che fare. «Que­sto tipo è com­ple­ta­mente pazzo» diceva l’sms che Kyle ha man­dato a Chad Lit­tle­field, l’altro vete­rano sul Ford pick up diretto al poli­gono di tiro dove sta­vano por­tando Eddie Routh per distrarlo – scelta in appa­renza illo­gica, che si sarebbe rive­lata fatale, ma per tre reduci il sim­bolo di una «lin­gua» condivisa.
Per la sta­tura nazio­nale di Chris Kyle e per­ché la sua sto­ria è diven­tata un film con sei nomi­na­tion agli Oscar, il pro­cesso a Eddie Ray Routh è molto più seguito dai media di quanto lo sarebbe altri­menti. Sicu­ra­mente, senza l’assurdo finale di san­gue, Routh sarebbe stato «solo» un enne­simo vete­rano invi­si­bile e disa­dat­tato come cen­ti­naia di migliaia di altri. Le sta­ti­sti­che sono deva­stanti: secondo un recente ser­vi­zio tv di Vice (su HBO), tra il 2009 e il 2011 si è regi­strata un’impennata dei sui­cidi di reduci del 44%, con punte di 22 al giorno. Tra il 2008 e il 2013 le ricette per psi­co­far­maci a mili­tari ancora in ser­vi­zio sono aumen­tate del 100%. Tra­volta da un enne­simo scan­dalo (da cui emerse che l’attesa dei vete­rani per l’assistenza medica poteva richie­dere fino a 900 giorni), dopo le dimis­sioni del suo mini­stro, il mag­gio scorso, la Vete­ran Admi­ni­stra­tion è oggetto di un’inchiesta fede­rale e di riforme interne molto dra­sti­che. Secondo un ispet­tore gene­rale, la sede di Dal­las, dove i Routh hanno por­tato Eddie più volte, sarebbe stata una delle peggiori.
Per la stra­grande mag­gio­ranza degli spet­ta­tori che hanno com­prato il biglietto per andare a vedere il film, Ame­ri­can Sni­per è indis­so­lu­bile dalla realtà più com­plessa, dolo­rosa e molto poco rap­pre­sen­tata (non dimen­ti­chiamo che Bush impedì per anni che le bare dei caduti in Iraq fos­sero riprese al loro arrivo negli Sta­tes) di chi in Usa è entrato in con­tatto anche indi­ret­ta­mente con la guerra — non il film trion­fa­li­stico e «di pro­pa­ganda» che ci hanno visto le destra e la sini­stra più dog­ma­ti­che, sem­pre pronte a impen­narsi in nome dell’oltraggio morale. Per­ché la sto­ria del cec­chino infal­li­bile e deco­rato Chris Kyle, che la guerra ha logo­rato len­ta­mente, e quella di Eddie Ray Routh, a cui la guerra ha fatto malis­simo subito, è la stessa; come quella dei geni­tori che hanno chie­sto aiuto invano per un figlio malato e quella della gio­vane vedova che, al banco dei testi­moni, oggi si batte per l’obbiettivo senza senso di vedere l’assassino di suo marito die­tro alle sbarre di una pri­gione piut­to­sto che quelle di un mani­co­mio criminale.
Lo ha capito East­wood, che nel suo film ha voluto la bella scena – sulla pista dell’aeroporto– in cui Kyle, felice di essere tor­nato al fronte incon­tra il fra­tello che sta tor­nando a casa e che, volto pieno di stan­chezza e spa­vento, gli dice: «Fuck this place». Lo hanno capito (insieme al figlio delle grande Depres­sione Clint) due cam­pioni sto­rici della sini­stra come Jane Fonda (pro­ta­go­ni­sta di uno dei film più famosi sul ritorno dei vete­rani, Tor­nando a casa) e Michael Moore che hanno saputo vedere la realtà sociale e di classe a cui è anco­rata l’anima poli­tica del film. A con­fronto con quella realtà, il resto è posa.