Andrea Marcenaro, Panorama 12/2/2015, 12 febbraio 2015
LA VERSIONE DI GIULIANO
[Intervista a Giuliano Ferrara] –
Così di buon umore l’avevo visto altre due volte. La prima, quando mi raccontò di un ragazzotto romano in motocicletta che aveva frenato di brutto sul lungotevere: «A stronzo!» aveva tenuto a gridargli quello. Stronzo perché?, se ne uscì con ribattuta lesta l’ex direttore del Foglio. «Perché t’oo meriti» era suonata la risposta, e così veloce, geniale e definitiva, era suonata, che a raccontarla in trattoria Giuliano Ferrara si piegava dal ridere, ammirato. La seconda volta fu ancora da Checco er carrettiere. Un direttore del Corriere della Sera si era presentato all’appuntamento senza un grammo di tono sostenuto, anzi. Quantunque, gran capo del Corriere sempre fosse. Ci salutammo e ci sedemmo. Soltanto che, all’atto di sedersi, la cadrega dell’ospite cedette per l’inusitato sfascio contemporaneo delle quattro gambe. Egli s’inabissò di fronte a noi. E nemmeno di colpo, bensì in modo tanto inesorabilmente quanto crudelmente rallentato che parve quasi ammainarsi, e l’ultimo a scomparire fu infatti il ciuffo del suo riporto imperiale, allorché l’augusto sedere già sul pavimento giaceva. Cose che possono capitare. Ma pur sempre di un’istituzione si trattava. Io sbracai, ovviamente, Giuliano fu impeccabile. Trattenne signorilmente i muscoli facciali. Mentre il buonumore gli fuorusciva a fiotti dalle orecchie. Bene. L’altra sera era allegro nello stesso modo. Sempre in un ristorante eravamo, e imbattibile come Checco, che questa volta si chiamava Cesare. Con Anselma Dall’Olio, la quale prima di tutto è Selma, americana geniale, bella, colta, ipersimpatica, ipercinefila, lunatica e intollerabile, e secondariamente la moglie di Ferrara, che sedeva al mio fianco. Poi con Franca Fossati, della quale, essendo tra le molte altre cose mia moglie, nessuno ancora sa spiegarsi come abbia potuto precipitare così in basso, e accanto a Giuliano stava accoccolata. Quest’intervista è un’intervista per modo di dire, perciò. Non a due voci, a quattro. Nella saletta del ristorante riservata ai fumatori, e drammaticamente sigillata, uno dei tre bassotti dei Dall’Olio-Ferrara ha per altro già tenuto a manifestare il proprio dissenso per il metodo usato, producendosi in una cacca generosa.
Era sabato. Quel sabato nel quale tutti, o quasi tutti, osannavano il capolavoro del Royal Baby, l’elezione quasi maggioritaria del presidente della Repubblica. Ferrara si era dimesso da direttore del Foglio qualche giorno prima. Evento certamente meno istituzionale, quantunque piuttosto clamoroso anch’esso. «Dimesso? Non direi. Parlerei di cambiamento opportuno. Vedete, a 63 anni... e insomma, uno dopo vent’anni mica può star lì a fare il satrapo. La cosa era pensata da tempo, anche se, cronologicamente, decisa poche settimane prima. Avevo questo splendido campione, Claudio Cerasa, bravissimo, molto amato, pieno di relazioni, di fervore, davvero non capisco perché in tanti si siano stupiti. Ora c’è un direttore sexy in grado di rilanciare il giornale, giusto così».
Solo che: no Ferrara, no party, no Foglio. Ci rivediamo tra un anno. Te ne sei andato in piena crisi dell’editoria, sussurra qualcuno molto esperto. Al momento giusto.
«Ecco, questa è un’osservazione intelligente. Corrisponde al mio modo di essere, allo spirito del Foglio, a una storia personale. Questa mi piace, sì. Quasi quasi non rispondo».
Non chiamiamole dimissioni, va bene, chiamiamolo cambiamento. Non è la prima volta.
«Dimissioni erano state quelle da capogruppo del Pci al consiglio comunale di Torino, che avevo trent’anni. Poi quelle da Otto e mezzo, dopo la lista pazza sull’aborto».
Anche da Radio Londra.
«Sì, anche da Radio Londra, appena mi ruppero un po’ le palle. Quelle di Torino, quando avevo capito che il socialismo era una cazzata e neanche tanto allegra. Avevo fatto tutte le mie battaglie, Fiat, terrorismo, voto segreto, poi compresi: se non puoi più essere comunista devi diventare anticomunista. Una via di mezzo no? Non esiste sul comunismo la via di mezzo, è una bugia. E volgare. Ma mettiamola così, se preferite: io la via di mezzo non la so praticare».
Mica c’entrava il comunismo, a Otto e mezzo.
«Otto e mezzo l’ho lasciato perché mi sembrava poco riguardoso, diciamo poco congruo, dopo aver fatto una campagna estrema e moralistica sull’aborto, che è un tema maledettamente drammatico, tornare lì a fare il cretino davanti a una telecamera, con ospiti e tutto. Una cosa davvero stridente, o diciamo pure per nulla elegante».
Lasciare la direzione del Foglio non ha niente a che vedere con dimissioni di quel genere. Una questione di vita, allora? Un modo tuo di giocare d’anticipo sulla vecchiaia? La barba lasciata crescere in quel modo incolto c’entra qualcosa?
«Vero, la barba c’entra. Davvero? Questa estate sono stato tre mesi in campagna, facevo il giornale da lì, ma era già un’altra dimensione, mi alzavo all’alba, guardavo le colline, giorni di vera felicità. E non tagliavo la barba. Un giorno mi sono guardato allo specchio e ho detto: ma chi è quel vecchio? Ho capito che era tempo».
Che era tempo di cosa, in un paese per vecchi?
«Sono da sempre convinto che l’unica vera è l’età biologica. Quando uno compie trenta, trentacinque anni, le cellule cominciano a disgregarsi e tutto quello che accade dopo è già vecchiaia da vivere, da elaborare».
Tutto sta spostandosi in là, anche l’età biologica.
«E l’aspettativa di vita, certo, e pure la pensione (io, che sono del 1951, infatti non ce l’ho ancora, ndr) ma per quanto mi riguarda ho la stessa idea di Vincenzo Cardarelli: morire va benissimo, essere aggrediti dalla morte non mi piace. Vorrei farmi trovare un niente niente preparato».
E come avviene la preparazione?
«Come quest’estate in campagna, per me. Le letture, il Tasso, l’Ariosto, altri ritmi, un’altra felicità. Anche in questi giorni da non direttore, nel mio ufficetto di fianco al Foglio, ma non comunicante, la vita è tutta un’altra, assai diversa da prima».
Niente più riunioni di redazione?
«Ci mancherebbe giusto di produrre un effetto bomba atomica sulla redazione».
Niente consigli di carambola?
«Il Foglio è un piccolo giornale, un gruppo di una decina di persone, o poco più, si vedono tutte le mattine e devono costruire una cosa che abbia una faccia per la mattina dopo. Lo facciano in pace. Non possono esserci due direttori, se non ci sono due papi».
Mi pare in corso un cambiamento radicale, nel metodo di direzione.
«Io lo esercitavo in un modo, diciamo così, un po’ patriarcale, proponevo un buon quaranta per cento delle cose, decidevo sulla messa in pagina...».
Quello che fa un direttore presidenzialista.
«Cerasa è sufficientemente presidenzialista, con trent’anni di meno».
Morale?
«È bene che mi tenga fuori dai piedi. E pensandoci meglio, dovrei proprio stare a casa, senza andare nemmeno nell’ufficetto a coté».
La storia si ripete. Quando hai smesso di fare il ministro, mica sei rimasto in politica, hai fatto un giornale.
«Ho sempre saputo che la politica non mi riguarda. Detta così non è male. È la cosa più evidente al mondo».
Stai dicendo: la cosa più evidente al mondo è che la politica non riguarda Ferrara.
«Certo. Fare politica vuol dire procurarsi i soldi, capito?, dico i soldi, e vuol dire essere cinici per davvero, e curare relazioni dure...».
E non andare troppo oltre con il cervello...
«Anche. Mio nonno si fece fregare da Aldo Bozzi in più di un’elezione senatoriale, mio padre pure, fu un politico di risulta. I Ferrara non sono tagliati per la politica».
Mentre la adorano.
«Mi piace il surrogato della politica, mi piace come tecnica, come favola e come mito».
Riservandoti il capriccio di provocarla a piacere.
«Non il capriccio, la libertà. Non si può fare a meno dei travestimenti, delle frodi e dell’impostura della politica, questo lo so. E mi piacciono la controversia, il bagno di odio metaforico, la violenza dotata del compromesso necessario».
L’hai raccontato per tutti questi anni.
«Sì, raccontato, praticare è diverso. L’11 settembre fu un altro cambiamento radicale. Direi. Tutto quello che era già entrato nel mio archivio personale di esperienza, di memoria e di elaborazione come anticomunista, è stato consolidato dall’11 settembre».
In che modo?
«Con un ancoraggio occidentale, americano, ebraico. Dicevo, in quel periodo, che tre erano i miei stati guida, e quattro per la verità, contando l’Unione sovietica della mia gioventù: gli Stati Uniti, Israele e il Vaticano. Sono stato pieno come un uovo di Stati guida.
Per sei, sette anni, è stato divertente tenere quella trincea. Non dimentico quando Il Foglio se ne uscì titolando: «Rieletto Bush, il Presidente che fa la guerra e taglia le tasse».
«Lo scrivemmo prima dei risultati elettorali. Tutti gli altri giornali italiani garantivano che avrebbe vinto Kerry».
L’idea di andare a dirigere un altro giornale?
«Ogni tanto sento un fesso dire: “Va al Corriere”. Ecco, se vogliono un nemico del giornalismo, sono pronto. Se poi ci fosse anche un golpe militare, una giunta forte, e mi compromettessi personalmente, ma molto, con la giunta, magari si potrebbe fare. Cazzate. Pensa, non dover più cercare finanziamenti, soldi, editori...».
Un bel sollievo, vero: ora tocca a Cerasa.
«Mi sono messo nei panni di un investitore cui Ferrara vada a chiedere un impegno e si trovi davanti un tipo che è stato sulle ginocchia di Palmiro Togliatti, ha fatto Valle Giulia, è stato comunista, poi craxiano, poi berlusconiano, poi renziano, ratzingeriano per di più. Dimmi tu: che novità potrebbe scorgere? Che scommessa fare? Nessuna, è già tutto scritto. Con un giovane bravo sarà diverso».
Ti vedremo dipingere.
«Dipingere?».
Non è una tua vecchia passione?
«Mai toccato un pennello».
Come no? Dicesti tu che volevi ricominciare a fare qualche acquarello.
«Ah, sì. Ma non si chiama passione, si chiama velleità. E una volta, a dire il vero, ci provai pure. In Bretagna. Comprai un enorme borsone nero pieno di colori, un cavalletto, mi iscrissi perfino a una scuola, e ci andai, in quella scuola. Il primo giorno entrai in un grande cortile, con una grande parete a vetri sul fondo, e delle tendine che nascondevano il dietro. Apro la porta: erano tutte bambine tra i dodici e i tredici anni. Più me, l’orco pedofilo. Ho preso una fuga che ancora corro».
E il nuovo Renoir finì lì.
«No. Dipinsi ancora un vaporetto, l’unica cosa che venne passabilmente furono i colori della bandiera francese».
La musica allora: grande passione.
«La presi da mia madre, che l’aveva presa da mia nonna, ottima pianista napoletana. Ma anche quella entrò in sonno. Il mio periodo comunista a Torino rase al suolo tutto, cinema, musica, tutto. Era solo classe operaia, classe operaia e classe operaia».
Tuo fratello Giorgio prese un’altra strada.
«Altra psicologia, storia opposta, lui è tutto arte, teatro, proprio un altro film».
Una cosa ti è riconosciuta da tutti: di aver tirato su, al Foglio, una pletora di giovani bravissimi, tra i migliori degli ultimi vent’anni.
«Sono bravi, è vero. Ma non è merito mio, lo dico senza falsa modestia. Non si è trattato della solita scuoletta con un bravo maestrino. È proprio la concezione del Foglio a formare. Il fatto che sia un non giornale, dove sei subito in palchetto, dove non c’è padrone e devi fare i conti con la tua bravura».
Dove non c’è padrone, questo farà sorridere qualcuno.
«Ma è vero, chi c’era? Veronica Berlusconi, sì, formalmente. Ma quando si mise a fare l’Anita Garibaldi in caccia del satrapo, finì lì, e il giornale nemmeno se ne accorse. Il Foglio viveva nel cono di luce berlusconiana, come no, e ne fu propagandista, ma finché Berlusconi era spadaccino contro la magistratura militante, finché esisteva naturale sintonia sulle cose. E per quello. È un giornale sui generis, un ambiente a sé, piccolo, per pochi, dove esercitare autorevolezza si poteva e dava frutti. Tutto lì. Per questo i giovani bravi arrivavano a nugoli. Poi si formavano, certo. E si sostituivano l’uno con l’altro».
Sempre giovanissimi, e la redazione sembrava la tua scuola in Bretagna. Anzi, sembra.
«Ecco un problema. Vent’anni fa, quando fondammo il giornale, io ero il più grande, sì, ma non così tanto. Se vedi le prime foto, non si nota una vera differenza d’età. Poi i ragazzi cambiavano di continuo, loro sempre giovanissimi e io sempre più vecchio. Capisci?».
Ma con quei bei capelli tutti scuri, come Romano Prodi. «Io, naturali. Osa insinuare che me li tingo e do querela a Panorama».
La barba invece va sul bianco.
«E vada, è un vezzo, l’aveva anche mio padre. Vuoi mettere leggere una poesia? Con la barba è tutta un’altra cosa. Ora che ci penso, se fossi andato dal barbiere, farei ancora il direttore. E Selma la smetterebbe di dirmi ogni due per tre: disoccupato, fallito, disoccupato, fallito».
In redazione? Tutto liscio?
«È la cosa che mi ha fatto più piacere. Non un conflitto tra vicedirettori, non un’incomprensione, niente, hanno capito e finita lì. La mia scelta era un incrocio tra una situazione oggettiva e una scelta soggettiva. Dei ragazzi intelligenti lo capiscono. Mi sta dicendo Selma che a dire il vero si stanno un po’ cacando sotto. Selma mi sfastidia». Selma, dice Giuliano che lo sfastidii.
E che si sfastidii.